Pubblichiamo una riflessione del Laboratorio Salute Popolare di Bologna sullo stato del servizio sanitario nazionale/regionali, a partire dal sempre bistrattato tema della salute mentale. Il costante e progressivo definanziamento non è evidentemente frutto di una scelta contabile o amministrativa, ma il prodotto di strategie decennali di privatizzazione e aziendalizzazione più o meno palesi. L’inserimento di parametri contabili, il raggiungimento di obiettivi, il perseguimento dell’eccellenza per scalare ranking nazionali o europei: tutto ciò si ripercuote nell’abbandono dell’assistenza di base, così indispensabile proprio per evitare interventi medici e sanitari emergenziali e ultraspecialistici. Come si suol dire, prevenire è meglio di curare. Il testo ha inoltre il merito di proporre una prospettiva conflittuale e rivendicativa sui nuovi bisogni di salute che emergono dai cambiamenti occorsi nella composizione sociale dalla nascita del SSN ad oggi.
toccare la terra/ bagnare le rose/ cambiare le cose
Franco Basaglia
La psichiatria, e, più complessivamente, la medicina si trovano in un momento storico estremamente critico.
La posta in gioco, ogni qualvolta la società civile e la politica si trovano a
rinegoziare i temi estremamente delicati di salute pubblica, bioetica e
benessere mentale, è evidentemente molto alta. Il Laboratorio Salute Popolare è
consapevolmente immerso, sin dai suoi primi passi, nelle contraddizioni che
reca con sé il fare politica circa i suddetti temi. È, però, allo stesso tempo,
guidato nella sua azione da un obiettivo limpido, e in qualche misura semplice:
produrre salute mediante un attivismo guidato dalla rivendicazione politica dei
bisogni di salute disattesi. La causa, opponendo l’«ottimismo della pratica» al
«pessimismo della ragione», ma volendo bene a entrambi, è lottare per una
salute che sia veramente per tuttə, che investa tutte le molte dimensioni che
la determinano, che si interessi all’unicum inscindibile mente-corpo di cui
ciascunə è composto.
Doveroso, innanzitutto, nella presa di parola che il Laboratorio Salute
Popolare sente di fare in questo momento, è esprimere sincera solidarietà e
unirsi al dolore per la morte di una collega, una donna, la dottoressa Barbara
Capovani, nel contesto del drammatico evento di Pisa del 24 aprile 2023. Le
riflessioni qui proposte sono frutto del pensiero condiviso di attivistə che
per la maggior parte lavorano nel Servizio Sanitario pubblico e, dunque, ben
consapevoli delle criticità e della complessità dei temi emersi.
Quanto accaduto alla collega ha sollevato uno tsunami di opinioni, che per
quanto
pericolose, riempiono purtroppo come sempre il vuoto lasciato dalla politica.
Sulla scia del presidio organizzato dal Collettivo ORSA del 3 maggio scorso
davanti all’Ospedale Sant’Orsola, cui il Laboratorio ha portato la sua voce,
proviamo dunque a prendere parola con la consapevolezza che, nello tsunami, il
meglio a cui si possa aspirare è che la barca non si ribalti.
L’impoverimento del SSN
Un aspetto su tutti emerso dal dibattito dei giorni che hanno seguito l’evento
riguarda i tentativi più o meno consapevoli di strumentalizzare l’accaduto. La
dinamica è la solita, banale e tristemente nota: individuare un capro
espiatorio. Alcune voci politiche e mediatiche vorrebbero far ricadere le
conseguenze del colpevole impoverimento che ha messo in ginocchio il SSN sulle
persone più fragili. In altre parole, si sta provando a usare la miseria in cui
siamo statə lasciatə come operatorə della salute per inventare dei facili
colpevoli, lə ultimə, lə emarginatə. La questione che emerge forte e chiara da
questa vicenda, a nostro avviso, deve condurci al vero colpevole: lo
smembramento di cui il nostro Sistema Sanitario Nazionale è vittima da anni, a
vantaggio di un sistema privatistico, individualistico, iperspecializzato,
ovvero, un sistema che, più spesso che curare, ammala.
Non si può non menzionare qui che il problema del privato nella sanità è nella
sua stessa natura: mentre il Servizio pubblico ha interesse nella guarigione
della persona sofferente, perché rappresenta per esso un costo, il privato ha
interesse di segno opposto, perché la persona (nonché la sua malattia)
rappresenta per esso un guadagno.
Il SSN è elemento fondante il benessere delle cittadinə, garantendo il diritto
alla salute nel prezioso contesto costituzionale che lo tutela insieme alla
libertà di scelta nelle cure (art. 32 Cost.). Per altro, oggi, in un mondo nel
quale la stragrande maggioranza della popolazione è affetta da patologie
croniche, con buona approssimazione nessunə potrebbe sostenere il livello di
cure attualmente possibile, in un sistema totalmente privato. Citando Antonio
Bove, medico impegnato nel Servizio pubblico che da molti anni arricchisce la
riflessione politica sulla salute e sulla sanità, provocatoriamente si potrebbe
osservare che del SSN non ci sia più nulla da “salvare”: non rimarrebbe che
rassegnarsi rispetto alla sua avvenuta morte. Il divario tra l’entità degli
investimenti necessari al modello di intervento oggi previsto e le risorse
attualmente allocate è ormai siderale, in una cornice teorica in cui il
paradigma è interamente spostato verso le azioni di “riparazione del danno”,
una volta che questo è già avvenuto.
Non occorre essere medicə, però, per comprendere che l’unico modo per pensare
oggi un Servizio pubblico possibile necessiti di una totale inversione del
paradigma: da una spesso goffa “corsa ai ripari” a un serio lavoro sulle cause
di malattia, ovvero sui suoi determinanti.
Ad esempio, investire sulla prevenzione alimentare sarebbe chiaramente più
vantaggioso, a lungo termine, in termini economici e sociali, che investire
solamente nei trattamenti una volta che si siano instaurate delle malattie
dismetaboliche; in altri termini: interventi educativi di livello piuttosto che
finanziamento delle aziende produttrici di statine.
Pur con dolore occorre elaborare il lutto del SSN così com’era stato pensato
nel 1978, perché quel modello, per ragioni storiche e sociali, è semplicemente
lontano anni luce da ciò che oggi è utile e sostenibile. Occorre che cittadinə,
pazientə, operatori e operatrici prendano finalmente parola per pretendere una
riforma vera del SSN, unica speranza affinché torni a essere garantito a tuttə
il diritto alla salute.
La legge 180/1978
Con una buona dose di ingenuità – si potrebbe osservare a posteriori –
difficilmente sarebbe stato ipotizzabile che il terzo millennio avrebbe visto
un giorno come questo, in cui è stato messo in discussione il principio della
legge 180/1978, la chiusura dei manicomi. Conquista di civiltà senza
precedenti, l’Italia fu tra i primi Paese al mondo a porre fine all’istituzione
manicomiale.
Una società che costruisce luoghi chiusi dove confinare, seppellire la follia
per paura di esserne contaminata, è una società al capolinea, ha già perso
tutto. C’è evidentemente qualcosa di importante che non sta funzionando nei
modi reciproci di stare al mondo se questo sta accadendo.
La paura del diverso è paura di ciò che soggettivamente si scopre di
inaccettabile dentro di sé, perché nella società liquida e prestazionale non è
consentito il lusso del fallimento, del dubbio, della procrastinazione, del
nero che ciascunə ha dentro e che ognunə può trasformare, se solo ci si
concedesse tempo e spazio necessari.
La difesa del welfare è garanzia per tuttə, perché tutto muta e ciascunə può in
ogni momento diventare quell’ultimə. La difesa dei diritti delle ultimə è la
misura della civiltà, della giustizia e del benessere fisico e mentale – sempre
inscindibili – di un gruppo sociale.
Occorre oggi più che mai difendere il principio della legge 180, nella
convinzione profonda che la cura della follia sia possibile solo nel suo
contesto di vita, e che qualsiasi forma di internamento e istituzionalizzazione
sia una barbarie. Occorre farlo con parole nuove, nelle piazze, e con la forza
rivoluzionaria della prassi nei Servizi territoriali e negli Ospedali, e non
come un monumento alla sua memoria storica, o un simulacro alle autrici e agli
autori della riforma, che a poco serve idolatrare. Soprattutto, occorre che
ciascunə faccia la sua parte: non è più accettabile che associazioni,
movimenti, e, più in generale, qualsiasi soggettività a vario titolo impegnata
a difendere una psichiatria territoriale e di comunità si faccia la guerra.
Occorre su questo fronte che ciascunə metta da parte un poco del proprio ego in
virtù di una causa comune, in virtù di una postura veramente etica, che non
lascia posto a narcisismi di sorta. Se sono in pochə ad aver chiaro che i
manicomi – vecchi e nuovi – non devono affatto essere discussi, allora che
questə pochə finalmente uniscano le forze per il sogno comune.
La violenza nei luoghi di cura
La violenza nei luoghi di cura è violenza agita quando non si riconosce
nell’altrə qualcunə di simile a sé, immersə nella medesima situazione, molto
spesso altamente critica. Può risultare semplice, allora, vedere nell’altrə un
nemico da abbattere, una via di fuga che diventa comunque più pensabile di
quanto non sarebbe guardare negli occhi la propria sofferenza. Ma la violenza,
nel drammatico stato in cui versano i Servizi di Salute Mentale, senza in
nessun caso volerla giustificare, esiste nei due versi: dalle pazientə sul
sistema curante e dal sistema curante sulle pazientə. Ancora, nel 2023, infatti
si può “morire di psichiatria”, e purtroppo di psichiatria si muore senza
soluzione di continuità da quando questa è nata. Solo il 28 novembre del 2021
“moriva di psichiatria” il ventiseienne Wissem Ben Abdel Latif, a Roma, legato
a un letto di contenzione, e la lista delle vittime della violenza manicomiale,
che non è mai scomparsa anche dopo la riforma del 1978, è drammaticamente
lunga. E se, ancora oggi, la psichiatria miete vittime, siano queste da una
parte o dall’altra della scrivania, indossino queste il camice, la divisa da
OSS, i jeans, la gonna o il pigiama, ci sarebbe da chiedersi i giovani
operatori e le giovani operatrici, che si affacciano a praticare la
psichiatria, cosa vogliano fare.
Se si continuerà a tollerare supinamente le condizioni inaccettabili di lavoro
in termini di carenza di personale e strumenti per la cura, se non si
combatterà per una vera integrazione socio-sanitaria e non si studieranno le
modalità per realizzarla, se non si chiederà che a lavorare con medicə ci siano
sempre l’assistente sociale, l’infermierə, lə psicologə, il mediatore o la
mediatrice culturale, allora poi, forse, si avrà poco diritto di lamentarsi.
Rivoluzionario, di nuovo, sarebbe pretendere dalla politica strumenti efficaci
di cura del sistema curante stesso, che non gode affatto di buona salute come
dimostrano i dati sul burn out. Se, come operatori e operatrici, non si farà
tutto questo, allora si correrà forte il rischio di morirne, “di psichiatria”,
magari oggi da un lato, e domani dall’altro della scrivania.
La patologizzazione del disagio: l’Istruzione e la Sanità L’operazione politica
cui si assiste da diverso tempo, avvenga questo con la retorica del merito, in
totale assenza di pari opportunità, piuttosto che della devianza, è
un’operazione di patologizzazione del disagio.
E, invece, il disagio è un fatto sociale e, in primis, educativo. Occorre
chiedersi quale società si vuole e quale sistema educativo resisterà domani per
le generazioni a venire. I “giovani”, il cui tasso di abbandono scolastico e di
ritiro sociale grave ha raggiunto picchi da brividi, con gravi differenze
interregionali, dicono a gran voce che questa società ammala, e che occorrono
nuovi modelli educativi. Occorre che la scuola e l’università si assumano la
responsabilità di proporre modelli di attribuzione di significato all’esistenza
e occorre che tornino a insegnare il pensiero critico.
Il modello educativo che ha ridotto scuola e università a mere “palestre di
tecnica”, dove selezionare e coltivare solo la parte “vendibile” del giovane
individuo, è al capolinea.
Istruzione e Sanità, in quest’ottica, non possono che correre su binari
paralleli, e una riforma della Sanità deve passare necessariamente anche per
una riforma dell’Istruzione, in cui diventi possibile parlare di psichiatria,
di benessere e di malattia mentale tra i banchi dei più piccoli, a partire
dalle scuole elementari, senza quei tabù che oggi non fanno che alimentare il
ritardo nel riconoscimento dei sintomi, lo stigma, e, così, la possibilità di
guarigione.
La dimensione politica della medicina: ogni sapere chiama a prendere posizione
In un simile contesto, ci si potrebbe allora chiedere cosa mai possa guidare le
azioni e i desideri, verso una prospettiva di cura reale, trasformativa, dei
giovani operatori e delle giovani operatrici a vario titolo del mondo
sanitario. Cosa può, ancora, portare "gioia nella lotta", nonostante
il panorama frustrante e potenzialmente scoraggiante in cui siamo calatə?
Una possibile risposta potrebbe trovarsi nello sforzo etico di tenere sempre
presente un obiettivo preciso, fisso, a fare da guida nelle scelte quotidiane
dei professionistə della salute: la persona e la sua capacità di
autodeterminarsi al centro, non la sua malattia né le etichette e i limiti di
scelta che quest’ultima si potrebbe portare dietro.
Per noi la vera rivoluzione oggi è coltivare la relazione di cura, occuparsi
della persona prima che della sua malattia, ridare significato ai gesti che
rendono veramente terapeutici i rapporti di cura, primi fra tutti l'ascolto
empatico, l’accoglienza.
E tale obiettivo curante non è da intendersi come appannaggio esclusivo del
“professionista di buon cuore”, ma come elemento imprescindibile per costruire
una vera relazione di cura, significativa, che poco ha a che vedere con le
“inclinazioni personali” di ognunə, su cui, piuttosto, ogni professionista della
salute, in quanto parte di un processo di cura, dovrebbe lavorare per
migliorare.
Ciò che si può fare come operatori e operatrici, inoltre, è adoperare
costantemente quella estrema cautela per non sentirsi mai la verità in tasca,
poiché il sapere non è mai un sapere “neutro”, ma sempre di parte, e, dunque,
sempre un sapere che ha una sua posizione politica. Volenti o nolenti, il
sapere e ogni suo esercizio chiama a prendere posizione, e forse uno dei
maggiori crimini di questa deriva tecnocratica della medicina è quello di
averne occultato, scotomizzato, la dimensione politica; tutto ciò a partire,
senza dubbio, dalle modalità con cui sono concepiti e proposti l’insegnamento e
l’apprendimento nelle facoltà sanitarie universitarie: asettiche, patriarcali,
razzializzanti.
La “sicurezza”
«Sicurezza». Un’altra parola abusata in questi ultimi tristi giorni è stata
proprio “sicurezza”, alludendo spesso a una qualche forma di militarizzazione
dei luoghi di cura. Ma non occorre essere pacifisti per capire che non sia una
buona strategia armarsi in una polveriera, come pensa chi doterebbe di armi il
personale scolastico negli USA per risolvere il dramma delle stragi.
La sicurezza passa per un’adeguata intensità di cure, tanto per cominciare,
tema sul quale le liste di attesa ad esempio hanno peso determinante. Ciò di
cui si ha bisogno allora non sono persone armate accanto alle quali fare le
visite, ma “semplicemente”, colleghə che non siano sfinitə dal carico di
lavoro, riconoscimento del valore sociale e di cura delle professionistə della
salute mentale, strumenti di cura e di prevenzione trasversali per noi stessə,
ovvero, di investimenti politici nella Sanità; soprattutto, abbiamo bisogno di
veder riconosciuta allə pazientə psichiatrichə pari dignità di tuttə lə altrə.
È ben noto infatti quanto lo stigma impatti in ambiente sanitario sui dati di
mortalità, ritardi diagnostici e misdiagnosi, in maniera molto più importante
per le pazientə psichiatrichə rispetto allə altrə.
La cura e la custodia
Vorremmo sottolineare, per quanto scontato a moltə, che il mandato della
psichiatria, come quello di ogni altra professione e specializzazione medica, è
la cura. La richiesta di “custodia” di coloro le quali sono reputatə a vari
livelli “disturbanti l’ordine pubblico” è totalmente impropria, e sposta il
focus dal vero problema che genera una parte del disagio: ancora una volta
l’inadeguatezza del welfare, un sistema educativo evidentemente fallimentare,
l’erosione colpevole del SSN.
A tal proposito appare utile ricordare, con l’aiuto di una recente riflessione
di Peppe
Dell’Acqua, psichiatra che ha contribuito alla nascita della psichiatria
territoriale italiana, che la violenza ai danni degli operatori e delle
operatrici faceva numeri notevoli anche prima della chiusura degli Ospedali
Psichiatrici Giudiziari (OPG), e che in una ricerca del 2015 Lorettu mostrava
che solo il 38.8% delle colpevoli era risultatə essere infermə di mente.
La cura di tali situazioni estremamente critiche non consente scorciatoie di
risposte univoche (descalation, addestramento del personale all’autodifesa o
simili), né, occorre ricordarlo, esiste la possibilità per la psichiatria,
nello specifico, come scienza, di trattare questi disturbi con una certezza di
risultato. Sicuramente, però, ciò che è richiesto da tali situazioni, è una
ricchezza di risorse sul piano del personale, una multi-professionalità reale.
Occorre dire anche chiaramente, a tal proposito, che la legge 81/2014 – che
disponeva la chiusura degli OPG – è tutt’ora irrisolta: manca una chiara
definizione dei percorsi e dei livelli di cura e di assistenza. Certo è che la
chiusura degli OPG rimane una conquista di civiltà, e non è assolutamente
pensabile rinegoziarla, ma la questione ancora aperta è in quali termini
teorico-pratici si possa realizzare un sistema di comunità giudiziario e al
contempo curante.
Ipotizzarlo non è per niente facile. Sicuramente la riforma, su tale fronte, è
ancora più incompiuta di quanto non sia quella della legge 180/1978, e richiede
indubbiamente
interventi legislativi e attuativi ulteriori. È necessario, ancora una volta,
investire tempo e risorse sotto la guida di una reale multi-professionalità,
che non releghi ai soliti “tecnici” tutta la definizione operativa, che si
avvantaggi delle voci delle scienze sociali, dell’antropologia, della
giurisprudenza, della filosofia, e di quanto altro possa arricchire la risposta
ad un bisogno complesso e mutevole.
La rivoluzione banale: tempo di agire sui determinanti di salute
Rivoluzionario, quindi, per noi attiviste della salute, è il riconoscimento
politico, finalmente inequivocabile, dei determinanti della salute: salute e
malattia sono prodotti tanto biologici quanto sociali, culturali, storici,
materiali, politici. In pochi sono ormai disposti a credere che le malattie,
tutte le malattie, possano riguardare “solo il corpo” o “solo la mente”,
perchè, al contrario, recano con sé bisogni che investono l’esistenza tutta e,
nel caso di malattie croniche o degenerative, per tutta la durata
dell’esistenza stessa.
Riconosciamo, tuttavia, in questo cambio di paradigma, ormai ampiamente
legittimato e a vario titolo, sulla definizione di salute non come mera assenza
di malattia, la necessità che le professionistə della salute si mettano in
gioco fino in fondo in interventi complessi, in cui il campo della relazione
d’aiuto sia investito tanto dalla presenza della mente-corpo delle pazientə
quanto della mente-corpo delle professionistə, le quali, per poterselo
permettere, devono in primo luogo godere di una salute buona, veramente buona.
Ma, se questo è vero, ora che i bisogni di cura sono radicalmente mutati (e non
da ieri), i professionisti e le professioniste della cura devono essere messə
in condizione di non continuare a fornire risposte uguali – monolitiche,
semplicistiche, riduzionistiche – a bisogni diversi: complessi,
plurideterminati, esistenziali.