di Ashai Lombardo Arop

Abyei: una storia raccontata poco e male

22/05/2011

Utente: Ashai
26 / 5 / 2011

Dopo aver letto le quattro sintetiche righe dell'ANSA sulla presa di Abyei, da parte delle milizie nord sudanesi, avvenuta il 21 maggio 2011, ho capito che un'informazione esauriente su un argomento, dalle trame più complesse di quelle raccontate dai media più diffusi, così come la volontà da parte di quest'ultimi di ridare dignità ad un popolo martoriato, è un'utopia. Un popolo, che da più di vent'anni combatte a mani nude, in svantaggio, con nessun appoggio esterno, per ciò che considera essere il proprio diritto. La testimonianza dell'ONU, riportata dallo striminzito articolo, si esprime nei termini di “un'evoluzione rilevante”. Con quale coraggio si chiama evoluzione ciò che è un netto tornare indietro sui passi fatti di recente. Il sì di al-Bashir al referendum per Abyei era stato dato. Questo significa aver riconosciuto la voce di una maggioranza, che da anni grida all'indipendenza, alla facoltà di esercitare il proprio credo senza paura e, sì! anche di poter sfruttare liberamente le proprie risorse territoriali. Involuzione è la parola giusta, perché tornare sui propri passi e colpire a tradimento, degrada l'uomo ad un infimo livello. L'incredibile ricchezza di Abyei è stata la sfortuna del suo popolo. La fecondità del territorio, ricco di importanti corsi d'acqua, di vegetazione, di grande varietà di frutta e... di petrolio, risorse con le quali la popolazione conviveva in armonia e in rispetto delle regole dalla natura imposte, faceva troppa gola al desertico nord, che ha iniziato una repressione feroce, alla quale il coraggio e l'orgoglio dei sud sudanesi, in particolare i Dinka Ngok, non poteva non rispondere. Da qui l'inizio di un calvario di povertà, fuga, morte e solitudine di un popolo ricco, che per più di vent'anni ha dovuto rinunciare a ciò che di diritto gli spettava, come il godere del suo territorio e il professare la propria fede. La guerra del petrolio è la guerra del governo di Khartoum, degli Stati Uniti d'America, dei Paesi Arabi e di tutte le potenze che hanno poggiato sopra a questo massacro i propri disgustosi interessi. Ma ci sono uomini e donne, che ancora vivono secondo un criterio collettivo, privilegiando la comunità al singolo; che ancora ascoltano e rispettano i consigli dei saggi anziani e i racconti dei propri antenati, come una parte importante della propria storia. Donne e uomini, che praticano l'ospitalità e la relazione con l'altro, come legge divina. Mio padre, dinka ngok di Abyei, mi raccontava, che chiunque bussi alla porta di un dinka, a qualsiasi ora del giorno o della notte, deve poter essere accolto con cibo, acqua e un posto per riposare. Ad Abyei, a Juba, in tutte le zone del sud dove ancora è forte la cultura tradizionale, al di là delle religioni imposte e dei fittizi confini politici, vige un immenso orgoglio e rispetto per leggi secolari, che fino alla dipartita del governo coloniale, hanno mantenuto, nel bene e nel male, intatta la rete sociale, politica ed economica della comunità e soprattutto uno status generale di pace e rispetto reciproco; anche fra nord e sud, anche fra Dinka Ngok e Massiriya. Andare ad imporre a tale comunità nuove regole, filosoficamente e praticamente in totale contrasto con quelle vigenti da secoli, con strumenti di repressione e senza possibilità di pacifica replica, significa creare confusione dove c'era equilibrio e contrasto dove c'era alleanza. Significa guerra.

La guerra tra nord e sud è stata soprattutto una guerra di sopraffazione e autodifesa, in continui tentativi da parte del governo centrale di imporre leggi incompatibili con il carattere, gli usi e i costumi del popolo del sud. E di questo popolo fa parte anche Abyei, perché sono i cittadini di Abyei che lo affermano. E questo lo apprendo ogni giorno dalle loro bocche. Sicuramente la guerra è guerra e anche l'SPLA ha le mani sporche di sangue; ma la vera identità di questa gente, le ragioni che hanno portato un popolo pacifico alla lotta armata, nella moderna comunicazione da fast-food non si ha il tempo o lo spazio per raccontarle. Soprattutto nel nostro paese, che ancora considera l'Africa non più grande di un ghetto di periferia.

La storia dice che i Dinka Ngok hanno abitato la regione di Abyei per secoli. L'immigrazione araba nel Sudan è avvenuta solo nel XV secolo d.C., tra cui c'era la tribù dei Baggara.

Dinka Ngok, Baggara e le altre tribù della zona, hanno vissuto in pace per tutto il periodo coloniale, con accordi precisi sulla divisione dell'acqua e del petrolio. Quando il governo coloniale britannico lasciò il Sudan, nel 1956, l'amministratore di zona diede la possibilità al governatore di Abyei, Deng Majok Kuol Arop, di scegliere se far parte del Kordofan o di Bhar-el-ghazal, le due zone confinanti rispettivamente a nord e a sud. I governatori dell'area di Bhar-el-Ghazal consigliarono Deng Majok di tornare al sud; già prevedevano che l'amministrazione che stava per salire al potere sarebbe stata filo-araba e avrebbe discriminato i Dinka Ngok. Deng Majok ascoltò i loro consigli, ma scelse comunque di affidare Abyei al Kordofan, in buona fede, in nome di una secolare amicizia con la famiglia Nimir Ali Julla, all'epoca guidata dal comandante Babo Nimir e nella speranza di dare ai suoi cittadini la possibilità di strutture scolastiche migliori, dove educarsi. Si è fidato di anni di convivenza e di pace e, prima di morire, ha dovuto pentirsi della sua scelta di fiducia, vedendo realizzato tutto ciò che gli era stato preannunciato. Ai numerosi attacchi violenti, il popolo di Abyei ci mise tempo a reagire. Inizialmente cercò di affidarsi alla giustizia e al governo, di cui avrebbe dovuto far parte e da cui sarebbe dovuto essere rappresentato e difeso. Ma il governo di Khartoum ci mise poco ad appoggiare le rivolte dei Baggara contro i Dinka Ngok. Quando nel 1965 Abyei fu data alle fiamme e i Baggara bruciarono case e raccolti, Deng Majok vide con i suoi occhi l'esercito del governo di Karthoum, mandato sul luogo per ripristinare la pace, istigare i Baggara a perpetrare il rogo. Quando al-Sadig al-Mahdi ascese al potere nel 1966, fornì immediatamente i Baggara con armi più sofisticate; la maggior parte di loro erano ex soldati dell'esercito sudanese; tali armi, a partire da quel momento, furono utilizzate contro i Dinka Ngok. Da quel momento nacque l'esercito di morte conosciuto come Murahillin, che stazionò ad Abyei dal 1965, perpetrando la pratica che prese il nome di “cold blood killing” (uccisione a sangue freddo).

A livello burocratico, gli abitanti di Abyei sono sempre stati trattati come parte del sud, vedendosi negato anche il diritto di frequentare le scuole del nord ad esempio, al quale sarebbero dovuti appartenere. Addirittura le milizie del “cold blood killing” assalivano soprattutto gli studenti, obbligati ad attraversare la foresta per tornare da scuola, così da scoraggiare la popolazione a proseguire nella propria istruzione ed averne garantita una più facile sottomissione a proprio vantaggio, contando su future generazioni ignoranti. Gli attacchi dell'esercito Baggara ai Dinka Ngok, in quegli anni sono stati sempre attacchi alle spalle: ai contadini obbligati ad attraversare certi percorsi, durante la stagione delle piogge o a gruppi di persone in cerca di aiuto. Un evento clamoroso successe all'inizio del 1965, quando duecento pacifici Dinka, residenti a Babenousa e Mugled, fra i Baggara, raccolti dalla polizia per essere protetti, furono bruciati vivi nelle rispettive stazioni di polizia delle due città, in presenza degli agenti1. Questo è solo un frammento di una storia complessa, ma bisogna raccontare la storia per capire il presente. Altrimenti, si tenderà sempre a credere che il selvaggio, bifolco, muccaro africano del sud, nella sua brutale ignoranza ha perpetrato una guerra ingiustificata, fino a che l'uomo civilizzato non lo è andato a salvare. Mio zio, quando gli chiesi di recente perché, nonostante gli avessero offerto un impiego al Vaticano, fosse deciso a tornare ad Abyei e lavorare lì, incurante dei rischi a vivere in un luogo all'ombra di una guerra irrisolta. Egli mi rispose: “per avere la pace, a volte si deve fare la guerra”. Mio zio, sacerdote, mediatore culturale nel dialogo fra mussulmani e cattolici, pluri-laureato; uomo imponente, distinto orgoglioso, ironico...come mio padre, come tutti i Dinka, familiari e amici, che ho conosciuto. Ancora, nell'immaginario collettivo e a conseguenza di una diffusa ignoranza su questa vicenda, si crede che il sudanese del sud sia solo un selvaggio guerrafondaio o un ignorante vittima del proprio stesso popolo, in attesa di braccia occidentali, a dargli da mangiare come a un neonato maialino, sporco di placenta in una porcilaia. La maggior parte dei Dinka Ngok, nativi di Abyei, fondatori dell'SPLA, sono laureati, poliglotti e guidati da grandi ideali. Il popolo Dinka è un popolo libero, pacifico e, un popolo libero e pacifico è un popolo che sa lottare per la propria pace e libertà, quando se ne presenta il caso, perché non riesce a concepirsi al di fuori di questi valori. Un popolo che, invece, non ha come valori primari pace e libertà è un popolo soggetto a facile giogo, che si rimette alla legge del più ricco e non del più giusto, pronto ad abbassare la testa per un misero tozzo di pane. Un popolo senza ideali di libertà e pace è un popolo che manda a morire giovani mercenari in guerre che non appartengono loro, per proliferare i propri interessi, nascondendo i loro soldati dietro nomi fasulli, come “forze di pace”. Il popolo Dinka si è lanciato a corpo nudo contro i carri armati, ha scagliato lance contro proiettili; proiettili contro bombe; non ha delegato nessuno, si è schierato in prima linea, senza distinzione di classe sociale. Laureati e pastori, ambasciatori e contadini, donne e uomini hanno combattuto questa guerra. Facile puntare il dito e poi nascondersi, noi italiani lo sappiamo bene che significa. Sicuramente non sappiamo che significa ribellarsi ad un governo che impone leggi ingiuste, ne raggiungere il cento per cento del quorum ad un referendum. Eppure abbiamo tutti i confort; lamentiamo povertà e abbiamo la media di 2/3 automobili a famiglia; e poi treni, aerei, infrastrutture, e non riusciamo a scendere di casa per apporre, una delle poche possibilità che abbiamo, per diritto, di far sentire la nostra voce: un voto. Il 9 gennaio 2011 è stata data questa possibilità al popolo del sud Sudan e, forse perché sofferta, forse perché in un luogo dove niente si può dare per scontato e per tutto si deve combattere, forse perché a un popolo dove i bambini non sono viziati e gli adulti non possono permettersi di essere pigri; fatto sta, che il cammino è iniziato giorni e giorni prima, per arrivare in tempo ad apporre il proprio voto. A dorso di mucche, asini, cammelli; a piedi, scalzi. Con figli sulla schiena, sul petto nelle braccia; sotto il sole cocente dell'Africa equatoriale, la gente è andata, guidata da un unico miraggio comune e ha raggiunto il cento per cento della propria occasione di applicare un diritto. Che ne sappiamo noi, prostrati davanti all'ultimo prodotto televisivo di un volgare dittatore, sotto le mentite spoglie di un sarcastico pagliaccio, mossi dal desiderio di annientarlo unicamente per il più forte desiderio di prendere il suo posto. Chi sono i bifolchi, i selvaggi, i guerrafondai? Se non chi lascia che i massacri avvengano di nascosto dai loro occhi colpevoli e consapevoli; in sordina. Le guerre non si fanno solo con lance e mitragliette. Perché di caduti, nella nostra terra, ce n'é a bizzeffe, di gente in ginocchio per il male governo: anziani, giovani laureati, precari a vita, portatori di handicap di varia natura, piccoli stipendiati, operai, contadini. Tutti massacri silenziosi, avvenuti in un rispettabile paese, dove vige la legge del taglione.

Quando chiesi a mio padre, perché il popolo Dinka aveva rifiutato una religione monoteista per accettarne un'altra. Forse non era lo stesso tentativo di inculturazione da parte di un potere esterno e indifferente alle credenze e alla tradizione della comunità? Egli mi rispose così: “Quando il mussulmano ci parlò della Shari'a, ci disse che le mani dei ladri sarebbero state tagliate. Ma nella nostra famiglia, che era molto molto ricca, possedevamo tante mucche più degli altri, un giorno un povero venne a rubare. Noi sapevamo che era povero e facemmo finta di non vedere”; e poi mi disse: “quando i Padri della Chiesa vennero a parlarci di Cristo, ci dissero 'Dio è verità'. In dialetto dinka Dio si dice Nhialyic, che vuole dire 'Dio è verità'. Il prete ci parlò poi di Mosé, che divise le acque del Mar Rosso e di una vergine che si sacrificò perché il suo popolo potesse trovare la fede. L'antenato dei Dinka Ngok è Jok, che portò sua nipote, Ashai, una vergine, al fiume. Dopo aver lasciato da un po' la riva, Jok lasciò la mano di Ashai e lei si lasciò scivolare in fondo al fiume. In quel momento le acque si divisero, il popolo Dinka poté passare dall'altra sponda e fu salvo. Come vedi” continuò mio padre, “i cristiani ci raccontavano una storia simile alla nostra e decidemmo, che il nome della religione non importava, importava solo il suo credo”.

1. Alcuni dettagli storici spno estrapolati da “Abyei: the chickens come home to roost”, di Charles Deng, pubblicato sul sito sudaneseonline.com il 28 luglio 2005.