La bellezza non può attendere, diceva uno slogan di qualche mese fa. La
bellezza delle persone che si stanno incontrando qua a Milano sta nel
fatto che non si accontentano delle parole, che sanno di volere mettere
in atto qualcosa di inedito. In modo determinato, aperto e inclusivo,
umile come è umile la gente che non si fida della retorica, ma cerca
veramente di capire, e per continuare a comprendere tenta i primi passi,
agendo di conseguenza. Qualcosa che non riduce la politica al suo
racconto, che non la riduce ad un commento su facebook o alla topica
per l'ennesima conferenza, al titolo per l'ennesima rivista o
all'ennesimo progetto autoriale. Tutto ciò non basta. La bellezza di
queste lavoratrici e lavoratori della conoscenza, di questi cittadini
prima di tutto, è la voglia di una politica agita, non raccontata.
Siamo irrequieti: non è vero che non abbiamo tempo, ma non vogliamo
impegnarlo in qualcosa di inefficace. Siamo stufi di avere per le mani
solo opinioni. O meglio, vogliamo che le nostre opinioni, ciò che
pensiamo, escano allo scoperto e siano il campo di battaglia su cui
giocare la costruzione del nostro futuro. Un'alternativa possibile non è
cosa da contemplare, dobbiamo metterla alla prova: prendiamoci questa
libertà, occupiamoci di ciò che è nostro per testare la realtà.
Cominciamo a capire che rimanere dei curiosi, degli attenti produttori
di lamenti, degli osservatori specializzati, o dei cinici calcolatori,
esperti nell'arte garbata del salvarsi la pelle, è ciò che più serve al
mantenimento dello status quo.
Divertiamoci, seriamente, nel testare delle alternative.
Trasformiamo la realtà che ci circonda in un serio esperimento radicale.
Insistiamo su questo aspetto perché è finito il tempo di una certa
logica negativa, che tanto ha segnato anche i linguaggi e le estetiche
degli ultimi anni. Raccontare quanto siamo diversi, nel tentativo
sincero di creare coscienza critica e cinico disprezzo verso i
dispositivi di potere e sfruttamento, è forse una strategia che ha fatto
il suo tempo e non è in grado di spiegare la sfida che ci aspetta. C'è
un'immagine, scritta dallo stesso Adorno, proprio lui, maestro di
dialettica negativa e costruzione di coscienza critica non ideologica,
che forse può aiutare a superare questo impasse. In un breve scritto
intitolato Elogio funebre di un organizzatore, ricorda la figura di
Wolfang Steinecke, un tenace organizzatore che ha salvato nella pratica
le sorti della musica moderna. Lontano dalla retorica e dal gioco delle
poltrone importanti e dei riflettori, ha avuto la sensibilità per
costruire una scuola, nessun altro avrebbe raccolto e mantenuto uniti
uomini altrettanto ribelli, scontrosi e difficili, come coloro che fanno
parte di questa scuola – se fossero stati meno difficili, avrebbero
scelto una via più facile – nessun altro avrebbe fatto scomparire con
impercettibile energia le blande autorità di cui in principio non si era
potuto far a meno e preparato un'atmosfera in cui, pur nei contrasti
più accesi, prevalse la tendenza comune alla solidarietà.
In questo senso entrare in una dialettica che non accetta lo status
quo non significa affinare strumenti critici per commentare la realtà
seduti dietro le proprie cattedre garantite o in via di definizione,
significa invece costruire spazi reali inediti dove impegnare le proprie
soggettività in modelli di gestione alternativi, partecipati, in cui
c'è spazio per tutti, per innovare realmente l'ingegneria sociale, la
ricerca e la sperimentazione dei linguaggi.
Nell'assemblea dei Lavoratori dell'arte del 23 ottobre a Milano,
sono emersi un po' di strumenti da tener presente per gli spazi che
andremo a costruire.
Durante la presentazione della bozza di statuto della Fondazione
Teatro Valle Bene Comune, Ugo Mattei richiama l'articolo 43 della
Costituzione Italiana in questo passaggio:
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o
trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad
enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese
o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici
essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale.
Il concetto è che la cittadinanza e le categorie di lavoratori sono
legittimati costituzionalmente a gestire direttamente un'attività
rilevante di pubblica utilità.
Nella scorsa assemblea abbiamo parlato molto di questo aspetto:
siamo in un momento dove possiamo rifiutare sia la logica burocratica
sia quella privatistica. Possiamo fare a meno della logica burocratica
dove la gestione di uno spazio pubblico è vincolata ad un controllo
verticistico, nel criterio della delega, spesso di spartizione partitica
delle nomine e di faticoso accesso ai servizi.
Possiamo fare a meno della logica privatistica, nel senso che ci
opponiamo a subordinare i contenuti alla quantità di soldi che sono
messi a disposizione dal privato, aspetto che condiziona gli spazi
pubblici alle proposte che interessano agli investitori.
Il nuovo statuto del Teatro Valle Bene Comune ribalta completamente
queste due logiche, indicandone una terza. La proprietà e la gestione
degli spazi pubblici è nelle mani di chi partecipa attivamente a
costruirne i contenuti. Tutti sono ammessi con pari diritti, tutti sono
uguali e tutti hanno un voto nell'assemblea che decide la gestione dello
spazio. Chi non partecipa rinuncia a preoccuparsi attivamente di quello
spazio pubblico. Chi continua a partecipare da continuità alla
gestione.
Nelle assemblee dei Lavoratori dell'arte stiamo confrontandoci
proprio su questo, formulando delle iniziative nella città di Milano per
innescare dei processi di gestione partecipata degli spazi di pubblica
utilità nel settore dell'arte e della cultura. Sottrarre questi spazi
alla mera logica dell'alleanza col privato per trasformarli in un centro
di riflessione costruttiva e critica, in cui la cittadinanza si prende
il tempo di ripensarne i contenuti e la loro gestione.
Cultura, giurisprudenza ed economie hanno senso solo all'interno di
questa tensione. Intendiamo l'arte e la cultura proprio come luoghi in
cui costruire concretamente e dal basso un nuovo immaginario sociale e
collettivo.
Sappiamo che se alla lotta contro il sistema economico, politico e
culturale, non uniamo l'esplicitazione di quale mondo vogliamo, non solo
in termini teorici ma anche reali, che significa rifiutare nella
propria esperienza le politiche messe in discussione, non può esistere
nessuna emancipazione né individuale né sociale. L'aspetto reale e
individuale di questa scommessa non è da sottovalutare, perché è uno dei
motori che sta scatenando il cambiamento più forte all'interno di nuove
pratiche sociali.
Quello che chiediamo non sono piccoli aggiustamenti o modifiche, ma
un radicale cambiamento del sistema di produzione culturale, che è
quindi anche questione di gestione economica e politica in generale.
Nonostante il nuovo paradigma che la natura dei movimenti sociali
sta mostrando in tutto il mondo, attraverso pratiche inedite di
riappropriazione e gestione dello spazio pubblico, la voce dominante, e
ahi noi non solo quella, sembra unita nel ridurre queste istanze ai
soliti due modelli di soluzione: la guerra civile o l'accettazione
acritica della democrazia rappresentativa e delle regole del mercato
capitalistico. Out out interpretativo che assicura la negazione assoluta
di qualsiasi modificazione dei rapporti sociali da parte del 99% della
società, che oggi invece indica a gran voce l'esistenza di una terza
via.
L'alternativa che si sta delineando è dunque la chiave di lettura se
si vuole cogliere la radicalità del tempo storico che stiamo vivendo.
Non ha senso parlare di rivolta destituente (o supportarla) se si
presta vera attenzione a quello che sta accadendo dall'Islanda alla
Spagna, passando per Occupy Wall Street, il Teatro Valle Occupato, gli
studenti universitari, i lavoratori della conoscenza, il referendum
italiano e altre esperienze ancora.
Oggi la categoria dell'alternativa deve partire dal presupposto contrario, ovvero dal suo carattere costituente.
Togliere la conflittualità dalla funzione negativa e difensiva
assegnatale fino ad oggi dalla vecchia politica, significa inserirla in
una traiettoria di mutamento, liberarla dalla rete d'immobilità dentro
la quale è stata catturata fino ad oggi, affrancarla dalle opzioni
nichiliste, avanguardiste, ipocrite ed estetizzanti, in altre parole,
intuire i nuovi strumenti che stanno mettendo in pratica diverse
soggettività, per contrapporsi all'unico modello di crescita e
finanziario dato per certo o, citando Jeremy Rifkin, per lottare per la
vita sulla terra.
Difficile compito, certo, ma già in atto.
Proviamo ad approfondire anche solo un paio di queste esperienze.
L'Islanda negli ultimi due anni, all'insaputa dei più e al di là
delle sue caratteristiche geo-sociali, ha dimostrato quanto la
partecipazione dal basso della cittadinanza attiva possa influire in
modo determinante ed efficace nella costituzione di politiche
governative, alternative ai diktat delle manovre finanziarie. Mostrando,
quanto meno a se stessa, come una gestione più ragionevole delle
economie possa tendere a benessere ed uguaglianza reali e smarcarsi
dall'indebitamento come condizione esistenziale e come presupposto delle
attuali modalità di assoggettamento. Assoggettamento che, come tale,
smette di essere riprodotto per essere saldato.
In questo processo, un linguaggio che fa parte oramai del nostro
dna, la rete e i social network sono stati usati non solo per costruire
conoscenza ma per costituire nuovi immaginari sociali.
Questo processo, in quanto tale, non dovrebbe mai rinunciare alle
sue caratteristiche più marcate, l'apertura e il mutamento, necessità
per altro già presenti nelle prime Costituzioni, ma mai messe in atto:
quella francese come quella americana, infatti, recitavano l'esigenza di
continue revisioni a capo di ogni generazione.
Possiamo oggi mettere in pratica questa continua frizione?
Pensiamo invece al Teatro Valle Occupato che proprio in queste
settimane sta riscrivendo lo statuto proprietario di un teatro, di uno
spazio pubblico. Uno statuto che parte dal discorso programmatico
contenuto nell'espressione Beni Comuni, che rappresenta l'infrastruttura
di questa nuova Costituente e che finisce al vaglio, per il periodo di
un anno, su un free software che offre la possibilità a tutti, o meglio,
a chi ha voglia e sente di poter contribuire, di avere il diritto di
intervenire, correggere, suggerire, riscrivere quello che sarà, di
certo, un primo modello ineludibile di riappropriazione democratica
delle istituzioni. Come dice Ugo Mattei: " A noi spetta un dover
densificato": a noi spetta ridefinire i soggetti che partecipano alla
produzione di un servizio, estendere e socializzare i modi di fruizione
del servizio stesso, affermare un nuovo tipo di proprietà comune,
alternativa tanto ai processi di privatizzazione quanto a quelli di
gestione statuale, a noi spetta, last but not least, il difficile
compito di inserire questi percorsi all'interno di processi sostenibili.
I movimenti sociali, quindi, sembra abbiano capito bene quali siano
le molteplici direzioni da testare e il perché, a differenza di chi li
osserva con timore, di chi si tiene a debita distanza o di chi non
perderà l'occasione di capitalizzarli nel tentativo più o meno conscio
di soffocarne la carica politica ed emancipatrice. Infine, se da una
parte è spontaneo notare che laddove la rivolta è colorata di nero e
fiamme c'è più prudenza a creare alternative e dunque c'è più
assoggettamento alle decisioni di pochi, dall'altra, il carattere
partecipato e costituente di questi nuovi esperimenti e linguaggi
sociali, ed il loro rapido contagio nei territori, sembrano i processi
migliori per costringere al cambiamento un modello mondiale che risulta
ad oggi, da qualunque parte lo si osservi, strutturalmente inadeguato.
Emanuele Braga e Maddalena Fragnito, Lavoratori dell'arte
Domenica 13 novembre ore 20 all'Arci Bellezza, via Bellezza 16A Milano, faremo il prossimo incontro. Tutti coloro che sono interessati sono invitati a participare attivamente.