Marco Letizia, attivista No Ponte

L'illusione del lassaiz-faire e la questione Ponte sullo Stretto

Il 29 Novembre il Movimento No Ponte si riunirà dalle 16 in poi nei locali del Guernica, alla luce delle nuove dichiarazioni di Ciucci e Zamberletti circa l'interesse dei cinesi e sulla riapertura della partita Ponte da parte del Governo. Ecco un contributo che tenta di inscrivere la questione Ponte all'interno dei meccanismi di captazione del comune da parte degli attori del capitalismo finanziario-corporativo.

Utente: marlet
20 / 11 / 2012

"Protestare in nome della morale contro eccessi od abusi

è un'aberrazione che assomiglia alla complicità.

Non c'è da nessuna parte abuso od eccesso, ma dappertutto un sistema"

(Simone De Beauvoir)

 

Noi al libero mercato non abbiamo mai creduto. E continuiamo a non crederci. E continuiamo a ripetere che la crisi non è il frutto di un uso distorto degli strumenti finanziari e di una casta ladra ed incapace. O quantomeno, riteniamo che questi siano epifenomeni di un processo di smembramento e di frantumazione generale della società. Riteniamo che questo sistema economico fin dalle sue fondamenta, e non nelle sue perversioni, sia corrotto da un paradigma autoritario e spietato, tale che tutto ciò che noi chiamiamo "abuso", "eccesso" - come ci insegna Simone De Beauvoir - è in realtà il prodotto della coerenza interna del sistema. Il neoliberismo ha trovato la sua fonte ispiratrice nella corrente di pensiero della scuola di Chicago capitanata dal mistico Milton Friedman: egli sostiene che solo impedendo le intromissioni esterne (in generale, l'intervento pubblico in economia) si possa costruire un sistema di interconnessione perfetto, autoregolamentato e in grado da sé di perseguire l'equilibrio. Le leggi di mercato sono, secondo i neo-liberisti, le leggi della natura. Il problema dei sistemi politici è quello di intromettersi troppo nell'economia ed interferire con il normale svolgimento di processi naturali del mercato. Il neo-liberismo è un processo di auto-poiesi regolativa, normativa e direttiva: il mercato da sé decide, costruisce, stabilisce equilibri tra le forze in campo, crea occupazione e sviluppo. Lo Stato ha solo il compito di regolare i rapporti intersoggettivi amministrando la giustizia, senza entrare nel merito dei rapporti economici che il mercato struttura. Dunque, ogni svolta verso il neo-liberismo prevede una triade di provvedimenti: deregulation, privatizzazioni e abbattimenti di diritti sociali, le sole chiavi di volta per rilanciare la crescita in un sistema dove l'intervento pubblico che fa leva sull'inflazione, e dunque sul debito, corrompe la naturale armonia tra domanda e offerta che, in presenza di un libero mercato, naturalmente si raggiungerebbe.

 

Su questa ipotesi mistica, che da ormai lungo tempo ha travalicato i confini accademici, si regge tutto il castello di carte dell'economia contemporanea: ma c'è da dire che alle leggi del mercato, in fondo, non ci credono nemmeno i liberisti. Laddove queste suggestioni hanno avuto una loro applicazione la presenza dello Stato nell'economia, incubo di ogni liberista, è stata sempre più forte, in taluni casi violenta e autoritaria. Pensiamo al Cile, paese governato da Salvador Allende con un consenso popolare enorme e con un progetto politico, ispirato dalle teorie dello sviluppo di matrice keynesiana, volto a guadagnare sempre più spazi rispetto all'azione di predatori e multinazionali, attraverso un grosso programma di nazionalizzazioni. Il neoliberismo è stato imposto con la forza bruta di uno Stato autoritario, da una contro-rivoluzione dall'efferata violenza, condotta dalle forze armate del paese in collusione con la Cia, e con il finanziamento di un numero considerevole di organizzazioni statunitensi ed europee, pubbliche e private (tra cui anche il Vaticano e la Democrazia Cristiana). I massacri negli stadi non sono stati solo degli effetti collaterali dell'applicazione forzata del liberismo, ma uno strumento fondamentale per attuare il piano di distruzione di un'intera cultura fondata sulla solidarietà sociale e sulla reciproca mutualità: per disfacimento dello Stato i Chicago Boys intendevano di fatto, il disfacimento e l'annientamento di una determinata base sociale, della collettività sulla quale un sistema politico di stampo redistribuzionista si fondava. Era la distruzione della trama di relazioni e della cultura cooperativista che un intero popolo stava costruendo in quegli anni di incremento della prosperità econimica e con prospettive di crescita ancora superiori. Il Cile di Pinochet, a questo riguardo, è solo un esempio, forse uno dei più estremi ed inquietanti. Emblematiche sono di certo le parole di Sergio de Castro, ministro dell'economia di Pinochet, e allievo di Milton Friedman (al quale proprio in quegli anni è stato conferito il premio Nobel), circa la necessità di una svolta autoritaria per affermare le politiche di deregolamentazione del mercato: al tempo del golpe, "l'opinione pubblica era quasi tutta contro di noi, quindi avevamo bisogno di una personalità forte che mantenesse la linea politica [...]. Infatti un governo autoritario è il più adatto alla salvaguardia della libertà economica, perchè fa del potere un uso impersonale". Torture, rapimenti e omicidi erano perfettamente coerenti con la prospettiva della libertà individuale in campo economico:" la gente era in prigione perchè i prezzi potessero essere liberi", commenterebbe Eduardo Galeano.

 

Ma anche laddove le forze autoritarie non impugnano le armi in nome del Capitale, le strategie dei neo-liberisti prevedono, forse come "male necessario", la presenza dello Stato: una presenza che è sempre positiva, anzi fondamentale. Torniamo in Italia. Il caso Alcoa è esemplare: un'impresa multinazionale minaccia lo Stato di chiudere poichè il costo dell'energia è troppo elevato per mantenere il livello occupazionale (600 dipendenti). All'epoca, il governo Berlusconi concesse all'azienda un «rimborso relativo all'uso dell'energia elettrica», per un totale di due miliardi di euro nel 2009, più un miliardo e mezzo nel 2010 e quattro miliardi e mezzo nel 2011. In totale, l'Italia ha versato alla multinazionale statunitense otto miliardi di euro. Unica contropartita: mantenere lo stesso livello di occupazione. Fortuna che a Milton Friedman la morte ha risparmiato la visione di questo deplorevole interventismo di Stato. Peccato che a beneficiarne, però, siano stati quelli che finanziavano le ricerche di Friedman, cioè le società finanziarie multinazionali: la Goldman Sachs, attraverso Citigroup, è il principale azionista dell'Alcoa con il 19 per cento, poi c'è Mediobanca con il 10 e Bank of America con il 9. Inoltre, Unicredit può vantare crediti nei confronti dell'Alcoa per sette miliardi e mezzo di euro. Le stesse società che, secondo i liberisti, dovrebbero da sole costruire un intero sistema economico mondiale, senza intervento pubblico e senza interferenze esterne. Se a questo quadro aggiungiamo che oggi l'Alcoa ha nuovamente minacciato la chiusura perchè le condizioni economiche"non permettono la continuità produttiva dell'impianto" abbiamo perfettamente capito qual'è il trucco che viene mascherato dall'ideologia del libero mercato. Da un lato, dunque, i neoliberisti conducono un attacco ideologico al settore pubblico e ai beni comuni in nome della concorrenza perfetta e del libero mercato; dall'altro, gli stessi soggetti operano per un forte investimento nel consolidamento corporativo tra politica, imprenditoria e settori finanziari al fine della massima captazione e accumulazione delle risorse comuni. Tutto ciò è possibile farlo solo utilizzando lo Stato, cioè un apparato pubblico di coercizione. 

 

Nessun sistema come il neo-liberismo sfrenato, infatti, ha bisogno di così tanto Stato: ha bisogno di uno Stato asservito al potere corporativo del "settore privato", mentre la vita privata, ma soprattutto la vita comune dei singoli, viene asservita al potere dello Stato. Uno Stato debole con i forti e forte con i deboli: per rendere possibile il continuo processo di smembramento dei servizi pubblici e le continue attività predatorie nei confronti dei beni comuni è necessario un forte potere autoritario che, di volta in volta, sfrutti le crisi e i periodi di transizione mettendo da parte ogni possibile confronto democratico, che imponendo alla società, con la forza "neutrale" della tecnica e della scienza economica, continui trattamenti shock: manovre, tagli, memorandum, abbattimento dei diritti del lavoro, privatizzazioni, rimozione di cavilli burocratici e di vincoli ambientali. La giustificazione di questa macelleria sociale avviene oggi, in Europa, paventando la prospettiva del default: mantenere sempre attivo l'allarme e paventando continuamente la prospettiva di un collasso generalizzato del sistema, il debito pubblico viene utilizzato, in più modi, come strumento di ricatto sociale. Alle politiche di austerità non c'è alternativa. Ma - ci assicurano - grazie a queste manovre, che stanno creando le condizioni per gli investimenti privati e che stanno mettendo al sicuro i conti pubblici, domani ci sarà la crescita. E se la crescita non ci sarà? Secondo i liberisti il problema non è la loro teoria (essendo appunto il mercato una legge della natura): il problema è che non si è adeguatamente provveduto a rimuovere tutti quegli ostacoli di ordine normativo che impediscono il pieno dispiegamento della libera iniziativa economica.

 

E' chiaro che politiche così impopolari e anti-sociali, e ideologie così autoritarie non potrebbero avere una tale legittimazione se non ci fosse un terreno di coltura che ne permetta la crescita e il dispiegamento: questo terreno è la crisi. La crisi è il crollo di un vecchio sistema, ma è allo stesso tempo la continuazione forzosa degli stessi meccanismi che l'hanno prodotta. La crisi è una partita aperta, una lotteria: apre uno spazio di lotta tra forze. La crisi è, nel bene o nel male, il momento di una trasformazione. E' il momento in cui il corso lineare del tempo viene infranto da una serie più o meno coerente di stati di eccezione, che mettono a nudo con chiarezza le forze in campo. Solo una crisi verticale e radicale quale quella odierna, però, può aprire praterie agli attori dei mercati finanziari e alle politiche neoliberiste. Lo diceva, con una forte carica profetica, anche l'arciere di punta del neoliberismo: "Solo una crisi - reale o percepita - produce vero cambiamento. Quando quella crisi si manifesta, le azioni intraprese dipendono dalle idee che sono in circolo. Questa, io credo, è la nostra funzione basilare: sviluppare alternative a politiche esistenti, tenerle in vita e a disposizione finchè il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile" (Milton Friedman, 1982). La teoria di Friedman ci da gli strumenti e delle chiavi di lettura precise per interpretare i cambiamenti in atto, ovviamente in una prospettiva radicalmente opposta alla sua. Come ha mostrato esemplarmente Naomi Klein nella sua opera Shock Economy, solo uno stato di stordimento generale può produrre le condizioni favorevoli a rendere agibili provvedimenti altrimenti impossibili: "se una crisi economica è abbastanza grave - un crollo della valuta, un crac del mercato, una forte recessione - mette in secondo piano tutto il resto, e dà carta bianca ai leader per fare tutto ciò che è necessario (o ritenuto tale) spacciandola per risposta a un'emergenza nazionale. Le crisi sono, in un certo senso, zone franche della democrazia: momenti in cui le regole normali del consenso vengono sospese" (Naomi Klein). Anche se ci sarebbe da aprire un capitolo a parte sulle "normali regole del consenso", e su quanto anche queste siano, specie in Italia, uno strumento non neutrale e non padroneggiabile dalla gran parte delle persone che poi le regole le subiscono (giuridicamente e mediaticamente), gli effetti della shock economy descritti dalla Klein, in fondo, noi li abbiamo già visti anche in Italia e il dispositivo ermeneutico che la giornalista americana ci fornisce mi sembra perfettamente calzante. Basti guardare la gestione dell'emergenza post-terremoto a L'Aquila oppure la gestione dell'emergenza rifiuti a Napoli. E le centinaia di altri casi in cui le sospensioni del diritto divengono più frequenti delle sue applicazioni, in vista di una definitiva cristallizzazione dei nuovi dispositivi di captazione di risorse e appropriazione di territori e servizi comuni, testati durante lo stato d'emergenza. 

 

E' chiaro che non possiamo trasferire in Italia il dispositivo della shockterapia per come Naomi Klein ce lo presenta nei suoi casi paradigmatici, che sono l'uragano Katrina e lo Tsunami (sul versante disastri ambientali) e le guerre al terrorismo con il processo di occupazione-distruzione-ricostruzione dell'Iraq appaltato da Bush alle società private che operano in campo bellico. Usando un esempio derivato dal campo medico, potremmo dire che nei casi citati dalla Klein siamo in presenza di un malore improvviso e fulmineo, come un infarto; mentre nel nostro caso lo shock arriva a dosi e non tutto in una volta, come fossimo dei malati cronici. E le cure? Nei paesi sudamericani, in Cina e in Indonesia, il pacchetto delle riforme neoliberiste è stato approvato tutto in una volta. Qui da noi, in Europa, tranne che in Grecia, le riforme vanno avanti come una flebo, poco alla volta ma con una costanza inesorabile.

 

Nelle agende dei governi e delle forze politiche della destra neoliberista (e anche in molte di quelle del centrosinistra), uno dei volani della crescita economica è quello della realizzazione di infrastrutture. Il rilancio dell'economia si dà solo attraverso un programma di accrescimento della rete dei trasporti e dei nodi di comunicazione, reale e virtuale. E qui veniamo al dunque. Il Ponte sullo Stretto, dato quasi per sepolto in questi ultimi mesi, viene rilanciato con forza attraverso alcune dichiarazioni congiunte di Zamberletti e di Ciucci secondo i quali il fondo sovrano della Cina e alcune società sarebbero pronte, o quanto meno interessate, alla realizzazione dell'opera. Con questa mossa, dall'alto valore ideologico, le lobby del cemento capitanate da Impregilo sperano di poter tenere in vita il dispositivo Ponte ancora a lungo, in modo tale da riuscire a risucchiare altra liquidità. Perchè se è vero che al liberismo e all'autosostentamento delle attività private (specie se si tratta di infrastrutture) non ci credono nemmeno i liberisti, di fronte a queste dichiarazioni dobbiamo subito allertarci,visto che da più parti è stato ormai ampiamente dimostrato che il Ponte sullo Stretto non è un'infrastruttura che si paga da sé. E questo i cinesi lo sanno. E se non lo sanno se ne accorgeranno presto. 

 

Il Ponte, che nei deliri di onnipotenza di Silvio Berlusconi sarebbe dovuto essere il volano della crescita del meridione, non sarebbe dovuto costare un euro allo Stato: i finanziatori avrebbero ricevuto la loro ricompensa attraverso la gestione dell'opera per un determinato numero di anni. Invece fino ad oggi sono stati spesi più di 500 mln di euro senza nessun ritorno occupazionale e produttivo per il territorio siciliano e calabrese. L'ipotesi cinese forse non è una bufala: in fondo chi ha liquidità disponibile ha la necessità di depositarla da qualche parte, per farla fruttare. Il Ponte potrebbe rappresentare tutto questo. Ma se ciò dovesse avvenire, scordiamoci che questo processo sarà indolore per la collettività e per le casse pubbliche. Oltre gli immensi danni ambientali e oltre la privatizzazione di un'area territoriale vastissima, l'eventuale inizio dei cantieri del Ponte rappresenterebbe l'ennesima sconfitta per un'intera collettività, scippata ancora una volta delle sue risorse. Il Ponte, come tutte le grandi infrastrutture, non è stato a costo zero e non lo sarà nemmeno con l'intervento dei cinesi: il modello Ponte è un dispositivo per tenere aperto un canale di finanziamento collaterale a quello bancario. La grande opera serve come giustificazione ideologica per l'accaparramento di risorse comuni. La lotta, a questo punto, non può più essere quella tra chi dice "Ponte Si" e chi dice "Ponte No": la battaglia deve essere condotta su un terreno più ampio, quello della crisi economica e quello della captazione e del dirottamento delle risorse collettive verso i grandi contractor.

La questione che oggi bisogna affrontare è quella di riuscire a disvelare, attraverso l'esempio del Ponte, il dispositivo ideologico che tiene in vita l'economia dei disastri che ha causato la crisi, inscrivendola all'interno del rapporto strettissimo tra lo Stato, il mondo finanziario e l'impresa multinazionale, tre figure in crisi che cercano di pepetuare il dominio sulla e della ricchezza sociale attraverso nuovi dispositivi di captazione speculativa delle risorse (vedi ad esempio l'utilizzo dei project bond). Ma attraverso un'attenta lettura della crisi, bisogna evidenziare allo stesso tempo il ruolo ideologico-politico che giocano i progetti per le grandi infrastrutture come il Ponte. Se l'ipotesi dello Shock e dello Stato d'Eccezione è il paradigma per interpretare i nostri tempi, bisogna già da subito prepararsi e costruire reti-di-resistenza e alternative all'economia dei disastri: quando arriverà il prossimo colpo non potremo farci trovare impreparati.