Con
queste parole, Walter Benjamin impartiva una lezione di metodo critico
che continua a valere: quando di fronte ad accadimenti politici ci si
appella all'eccezione – oppure ci si indigna denunciando un regresso
rispetto a una presunta norma di civiltà – ciò significa semplicemente
che non si è capito nulla o non abbastanza, che non si dispone di
strumenti adatti a comprendere il proprio tempo. A partire da questa
considerazione – assunta come strategia metodologica – è possibile
costruire una riflessione sugli scandali sessuali che hanno scosso la
cronaca italiana delle ultime settimane, cercando di sottrarsi sia alla
trappola del cinismo che a quella del moralismo.
«Lo stupore non è filosofico». In prima istanza, la massima suggerisce
di sgomberare il campo dalle posizioni che – se pur in modi e con
intenti differenti – considerano l'accaduto una deviazione rispetto alla
regola dell'esercizio del potere, il risultato scabroso di vizi e
perversioni private da cui difendere il corpo sano della democrazia.
Questa, come si evince dai maggiori quotidiani nazionali, è l'opinione
dominante nella sinistra istituzionale, condivisa anche da molti
cittadini italiani e fondata su una sorta di soglia etica minima,
equiparabile al buonsenso. I comportamenti del premier – si legge nei
vari editoriali e appelli – offendono la dignità delle donne e della
democrazia. Da questo teorema, piuttosto riduttivo, deriva un sentimento
diffuso d'indignazione, una pratica collettiva di sdegno morale che
tuttavia non tarda a mostrare inclinazioni ambigue e politicamente
inconseguenti, quando non pericolose.
Dietro l'indignazione, infatti, si nascondono spesso voyerismo,
moralismo e sessismo. Quest'ultimo, in particolare, sembra un vizio da
cui il discorso pubblico italiano fatica a liberarsi al punto che, a
volte, i commenti superano ampiamente i fatti. Quale dinamica perversa
regge infatti la logica secondo cui l'esistenza comprovata di uomini
spregevoli (ottuagenari arrapati che bramano minorenni) combinata
all'esistenza di donne spregiudicate (giovani che si vendono a
ottuagenari per realizzare ambizioni personali) spinge un intero paese a
cercare di dimostrare che esistono anche “altre” donne? Perché
l'attestazione di soggettività sembra così facilmente revocabile a un
genere in quanto tale (che per inciso rappresenta più della metà della
popolazione mondiale) non appena qualche appartenente al genere stesso
smentisce/trasgredisce il ruolo della donna “per bene”, lasciando così
emergere tutte le contraddizioni che covano nella doppiezza della morale
pubblica italiana?
E perché tante sentono improvvisamente di doversi mostrare
intelligenti, di dover provare al pubblico e alla società di essere
diverse? Si è letto forse qualche editoriale cimentarsi nella
costruzione di sillogismi sbilenchi volti a dimostrare l'ovvio, ovvero
che sebbene Berlusconi sia un uomo, ciò non implica che tutti gli uomini
siano Berlusconi? Si è forse suggerito ai giovani italiani di pensare
ad Albert Einstein, nel caso l'esistenza di uomini gretti li avesse
fatti dubitare della loro identità? E perché allora l'esistenza di Marie
Curie o di altre donne eccezionali dovrebbe far espiare il fatto che
qualcuna mercifica la propria esistenza per brama di potere? Perché
ancora una volta l'identità delle donne viene ricondotta ai due
archetipi – la puttana e la santa – incarnati di volta in volta da
figure reali differenti?
Se
il paradigma dello scandalo nasconde queste e altre trappole, può forse
essere utile capovolgerlo, individuando, nell'eccezione, la norma. Non
la normalità, come potrebbe intenderla il cinico e disilluso che bacchetta il moralista, ma la regola di una concezione della sovranità.
Se,
infatti, lo scandalo consiste nel tradimento di un modello preciso del
potere sovrano che si presumeva assodato, potrebbe darsi il caso,
contrario, per cui gli avvenimenti recenti – non più scandalosi, ma per
questo non meno scabrosi – esplicitino la natura di una figura sovrana
diversa e inattesa. L'indecenza sostituisce la decenza. Il vizio privato
prende il posto delle virtù tradizionalmente richieste all'uomo
pubblico (decoro, dignità, rettitudine, etc...). L'abuso reale del
mandato democratico rimpiazza la sua teorizzazione e concezione
moderna.
Quando
ciò accade, il potere si mostra in veste “ubuizzata”, grottesca e
paradossale, ma non meno autoritaria. Berlusconi incarna perfettamente
questa forma della sovranità, che mentre fa spregio delle regole in nome
della libertà (parola d'ordine del suo “popolo”), attua una politica di
esaurimento materiale delle possibilità di autodeterminazione dei
soggetti.
Le giovani donne che oggi si autoprostituiscono alla corte di Arcore
possono allora essere considerate una sorta di realizzazione perfetta
del modello lavorativo/esistenziale che ogni giorno è imposto a
un'intera generazione.
L'affermazione
non è da intendere in senso metaforico – secondo la massima cinica per
cui tutti ci prostituiamo in un modo o nell'altro per un poco di denaro –
ma in senso più specifico e preciso. In primo luogo in quanto il lavoro
– e in primis quello femminile – si svolge oggi in un contesto
prostituzionale allargato in cui il corpo (o parti di esso) è sempre
considerato merce di scambio potenziale. Spesso in forma erotizzata –
come nel settore commerciale, dove la donna è sempre portatrice di un
valore aggiunto che transita da lei all'oggetto – ma non
necessariamente. Si pensi ad esempio al lavoro di cura e al suo
sfruttamento più radicale incarnato nella figura della badante, a cui il
corpo viene letteralmente sottratto per farsi oggetto di lavoro: a
essere venduto non è solo il tempo, ma sono anche la giovinezza, la
forza, la salute.
Solo
una morale doppia, professata in malafede, può reputare scandalosa la
vendita del corpo, mentre accetta senza battere ciglio un modello
produttivo che non può farne a meno. E proprio l'incapacità di
tematizzare le contraddizioni sul piano politico costringe il dibattito
in un moralismo chiassoso ma innocuo, capace di imputare responsabilità
soltanto ad una società dello spettacolo fluida e post-moderna. Senza
negare il ruolo che massmedia e stereotipi svolgono nella formazione
degli immaginari collettivi, appare tuttavia importante sottolineare
come il modello auto-imprenditoriale non costituisca soltanto un
miraggio televisivo, ma l'ideologia che regola le scelte del governo in
materia di welfare e lavoro.
Il Libro bianco del
ministro Sacconi, infatti, propina a ogni cittadino un modello
reddituale basato su una regola banale: più ci si inventa, si è
versatili e intraprendenti, più strada è possibile compiere. Ovvero: le
condizioni di vita materiale dipendono dall'impegno soggettivo del
singolo, indifferentemente dalle condizioni di partenza e dalle
possibilità di accesso al reddito. In questo quadro, che rimuove
completamente ogni asimmetria di potere tra i soggetti sociali, le
ragazze di Arcore non rappresentano un'eccezione rispetto a una gioventù
sana, ma semplicemente una parte di essa che applica le regole del
Ministro alla lettera: auto-imprenditoria e rimozione dei rapporti di
potere.
Non
appena si lascia il terreno dell'indignazione, ci si sottrae alla
dicotomia «donne per bene» e «donne per male». Non appena si smette di
provare stupore, per analizzare e provare a capire, i problemi prendono
forma. Ci si lasciano alle spalle cinismo e moralismo. La si fa finita
con la cronaca e con gli scoop. E l'eccesso diviene semplicemente una
figura di verità che illumina il potere, le sue forme e le sue
manifestazioni.
A chi dunque, sconcertato e stupito, si chieda dove siano le donne di
questo paese non risponderemo impersonando l'immagine di “ragazze per
bene” contrapposte alle presunte “ragazze per male” o dibattendoci per
mostrare un'intelligenza e una forza che sappiamo di possedere.
Risponderemo piuttosto che ci troviamo nei luoghi in cui quotidianamente
si giocano i conflitti reali di questo paese, dove si costruiscono le
condizioni del nostro essere e divenire donne. «Dove siete ragazze?», titolava qualche giorno fa un editoriale firmato da Concita De Gregorio.
Ebbene
eccoci: nelle lotte contro il modello di welfare alla Sacconi che ci
vuole auto-imprenditrici anziché soggetti attivi entro relazioni
materiali ben definite; nelle lotte universitarie contro una riforma che
dietro lo slogan meritocratico nasconde l'umiliazione dei saperi e
l'addomesticamento alla precarietà; nelle lotte di autodeterminazione –
come quella piemontese contro la delibera Ferrero – contro chi pretende
di espropriarci della libertà di scelta sulle nostre vite; nelle lotte
per il territorio – ad esempio quella Notav – perché nelle lotte
popolari di resistenza sappiamo immaginare un’alternativa allo sviluppo
predatorio e parassitario del tardo capitalismo; nelle lotte
antirazziste, perché non vogliamo che la presunta difesa dei nostri
corpi, in nome della quale si legittima ogni ideologia securitaria, sia
l’alibi dietro cui nascondersi per non affrontare la verità, senz’altro
meno rassicurante, che la maggior parte delle violenze sulle donne
avviene per mano del partner o ex, familiari, o conoscenti.
La domanda corretta per noi è questa: “Dove siete voi, giornalisti e intellettuali?”
È l'ultima chance che avete per riconoscere l'unica promessa di futuro che cova in questo paese e iniziare a raccontarne le battaglie, a capirne la passione e le ragioni. Potreste contribuire a ingrandirle, anziché soffocarle con il chiacchiericcio dei vostri salotti, dove, di certo, non ci troverete.
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Laboratorio Sguardi sui generis, Torino.
http://sguardisuigeneris.blogspot.com/
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