Il movimento
napoletano è una delle esperienze migliori che si ricordano sulla
battaglia contro la privatizzazione dell’acqua nel nostro paese.
La
vittoria del 2006, quella mobilitazione che ci permise di portare
migliaia di persone in piazza e fermare la delibera di
privatizzazione del sistema idrico integrato delle acqua nel ATO 2
(ambito territoriale ottimale Napoli – Caserta) resterà una delle
battaglie più importanti condotte nel recente passato del movimento
napoletano.
Una mobilitazione che già quattro anni fa, ci permise
di misurarci rispetto a formule organizzative dei conflitti sociali
nuove che traevano radici dalle esperienze dei cicli di lotta di
qualche decennio prima. Senza dubbio il punto di forza per noi in
quella battaglia furono i comitati di quartiere contro la
privatizzazione dell’acqua, una rete di comitati che si snodava in
diversi punti della città. Un modello organizzativo che abbiamo
avuto la possibilità di testare ulteriormente, costruendo anche
esperienze, non solo significative dal punto di vista politico, ma
capaci anche di sedimentare la costruzione di comunità ribelli nel
ciclo di lotta contro il piano rifiuti qualche anno dopo.
Oggi, senza dubbio viviamo
uno scenario diverso.
Innanzitutto è diverso il piano vertenziale
verso il quale ci muoviamo.
L’articolo 15 del decreto Ronchi
dell’autunno scorso ha cambiato il paradigma normativa contro il
quale a cominciare da Napoli si erano mosse le battaglie contro la
privatizzazione dell’acqua qualche anno fa.
La definizione delle
risorse idriche come bene di rilevanza economica e la successiva
messa a gara del sistema idrico integrato su base territoriale ha
cambiato notevolmente in peggio il quadro legislativo.
Gli
interessi dei privatizzatori, delle multiutility, che si chiamano
Hera, Veolia, Eniacqua, sono stati messi al riparo dal governo
Berlusconi.
Ci troviamo dunque dalla alla necessita’/possibilità
di accomunare le battaglie territoriali all’interno di una
prospettiva di movimento che dai territori si contesutalizza in una
battaglia nazionale.
Ciò che è avvenuto a Napoli può senza
dubbio fornirci la cartina di tornasole ideale per misurare il
contesto, e fare tesoro delle esperienze degli ultimi anni.
Dopo
la vittoria del 2006 con il ritiro della delibera che voleva affidare
ad una società mista la gestione del sistema idrico integrato delle
acque, vi è stato un blocco sostanziale delle attività degli Ato.
Tanto che dal 2006 al 2010 l’Ato 2 si è riunito pochissime volte,
con i 136 sindaci dei comuni tra Napoli e Caserta senza prendere
nessuna decisione.
Il decreto Ronchi del 2009 ha invece generato
una ripresa frenetica delle attività di quei carrozzoni politici che
dopo lo scioglimento degli Ato (ambiti territoriali ottimali a cui
era affidata la decisione sulla gestione del S.I.I.) si annodano
nelle nuove regioni che dovranno gestire la messa a gara del sistema
idrico integrato.
Mentre la presentazione delle leggi di
iniziativa popolare sulla gestione in house dell’acqua fungeva da
anestetico delle lotte, dall’altro gli apparati gestionali
attendevano che il nuovo governo, con mani più libere del
precedente, accelerasse il piano della privatizzazione.
Siamo
assolutamente certi che la sola strada per costruire un movimento
contro la privatizzazione dell’acqua, sia la costruzione dei
comitati di quartiere nelle metropoli e nei piccoli comuni.
Forti
dell’esperienza maturata nei cicli di lotta più recenti e delle
esperienze dei comitati di quartiere in difesa della salute e
dell’ambiente, abbiamo investito nella costruzione dei comitati di
quartiere contro la privatizzazione dell’acqua.
In tutta Italia nascono comitati contro la privatizzazione dell’acqua, segnale importante di costruzione di nuovi percorsi di autorganizzazione che da un semplice movimento di opinione cominciano a compiere quel necessario ed indispensabile passa divenendo attori del conflitto.
Un percorso a cui dobbiamo guardare non solo con interesse ma con un indispensabile protagonismo, a cominciare dalla dimensione metropolitana.
Accanto a questo uno dei
primi strumenti che i comitati si sono immaginati è la raccolta
delle firme per costringere i Comuni e la Regione a modificare il
proprio statuto per definire l’acqua bene senza rilevanza
economica.
Questo manderebbe in conflitto giuridico la normativa
nazionale con quella locale interrompendo il processo e dando spazio
alle interpretazioni giurisdizionali della riforma del titolo V della
costituzione.
Una strada vertenziale, che consideriamo
contingente, utile a costruire il tempo necessario per affermare in
tutto il paese un movimento contro la privatizzazione dell’acqua
che sia più forte e maturo, ma soprattutto più radicato sui
territori.
E’ proprio il concetto di territorio su cui pensiamo
che gli bisognerebbe articolare i processi di lotta.
Ovvero la
necessità di costruire un movimento diverso da un semplice movimento
di opinione, e costruire invece un’opposizione dal basso, radicale
nei contenuti e radicata sui territori che sappia costruire la lotta
dai quartieri e dalle metropoli.
Le prospettive stesse del lavoro
politico e sociale sull’acqua devono interrogarsi rispetto a un
nuovo immaginario.
La gestione del sistema idrico integrato in
house non può alludere a confusioni rispetto
alla definizione dell’acqua come bene comune.
Anche la riforma
della Protezione Civile in S.p.a. era un processo di gestione in
house dei grandi eventi e delle emergenze, ma
fatto attraverso i poteri speciali, la restrizione delle garanzie per
i cittadini e l’ambiente, attraverso l’annullamento delle regole
di appalto, misure che il “potere pubblico” era in diritto di
esercitare.
Come ci suggerisce
recentemente Micheal Hardt, ed altri tra i quali Ugo Mattei ed
Alberto Lucarelli, non possiamo pensare che esistano esclusivamente i
termini della proprietà privata e della proprietà
pubblica.
Gestione comune significa autonomia, significa
autogoverno, significa nuove formule di immaginare la natura della
gestione stessa di un bene.
Ne’ pubblico, né privato ma comune
!
La gestione in house
lascerebbe inoltre spazio alla costituzione di aziende di diritto
privato (s.p.a.) completamente pubbliche (di proprietà di enti come
comuni, province, regioni), il che non significherebbe produrre
alternativa ad una visione dell’acqua come bene di rilevanza
economico.
Il rapporto dicotomico tra proprietà e bene comune si
annulla nella prefigurazione di una “proprietà pubblica dei beni
comuni”.
Così non è.
È il concetto stesso di proprietà
(privata o pubblica / di uno o di tutti e nessuno) che viene
destrutturato dalla dimensione del comune.
Le lotte dell’America
Latina ci possono servire da esempio parziale rispetto all’impianto
di questo ragionamento.
Una autogestione dell’acqua che si
sviluppa intorno al concetto di comune.
In questo modo abbiamo
l’opportunità di aprire la strada alla prefigurazione di
esperimenti concreti di declinazione del concetto di comune. Quelle
che sono le “istituzioni giuridiche del comune” possono
all’interno di questa lotta provare a misurasi da un lato con la
possibilità di trovarsi davanti ad un movimento reale che ne reclama
l’esistenza, dall’altro di provare a raggiungere un piano della
propria definizione più concreto.
Proprio il lavoro di Mattei e
Lucarelli di qualche anno fa andava in questa direzione.
La
manifestazione del prossimo 20 marzo insomma, va intesa come l’avvio
di un percorso di lotta da articolare in tutto il paese su base
territoriale, e non, invece, come semplicemente l’avvio di una
campagna referendaria.
Se ci sarà un referendum sarebbe opportuno
andare a votare, partecipare ad una forma di democrazia diretta
formale.
Appare evidente tuttavia che oggi la priorità del
movimento contro la privatizzazione dell’acqua va ricercata nella
necessità di un radicamento territoriale vero, nella possibilità di
intraprendere delle strade che vedano innanzitutto un livello
vertenziale a partire dagli enti più prossimi individuati come
controparte. Accanto a ciò, l’aspetto delle formule organizzative
come sopra descritte, merita senza dubbio una grande centralità ed
anche se vogliamo una discontinuità rispetto alle esperienze
precedente.
Non possiamo prefigurare una immagine stagliata all’orizzonte, come la scadenza referendaria, quando la battaglia contro la privatizzazione dell’acqua passa per la costruzione quotidiana di percorsi di conflitto.
D’altronde bisognerebbe
ragionare proprio sui risultati di un’altra esperienza simile,
ovvero la raccolta delle firme per la legge di iniziativa popolare. I
risultati sono stati non solo la assoluta mancanza di considerazione
del precedente governo di centro sinistra rispetto alla gestione
delle acque, ma ha avuto l’effetto di anestetizzare la battaglia.
Il 20 marzo può segnare un accelerazione importante per quelle
sensibilità di movimento che hanno intrapreso la battaglia contro la
privatizzazione dell’acqua ed in difesa dei beni comuni.
Nella
speranza che un’onda possa nuovamente travolgerci.