Ad una settimana dal piano europeo. Tanto rumore per nulla!

Tre proposte per un new deal europeo

19 / 5 / 2010

Dopo che è scoppiata la crisi dei subprime ed è evaporata la bolla immobliare, i principali operatori finanziari (non esistono i mercati finanziari o i risparmiatori, ma solo le società finanziarie che operano in condizioni di quasi monopolio nel definire le strategie di investimento: vedi L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia, Einaudi, Torino, 2009) si sono trovati nella necessità di individuare una nuova “convenzione” in grado di indirizzare le proprie attività speculative. Una “convenzione” si manifesta quando i principali operatori finanziari individuano un campo sufficientemente ristretto e omogeneo nel quale investire (vedi A. Orléan, Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria e altri saggi, Ombre Corte, 2010). Nel corso degli anni Novanta, la convenzione finanziaria dominante era costituita alle nuove tecnologie informatiche (sfruttamento del general intellect), negli anni Duemila, si è fatto riferimento, da un lato, al ruolo della Cina come economia trainante la domanda mondiale (dopo l’entrata nel Wto, nel dicembre 2001), dall’altro, al bi/sogno della casa di proprietà soprattutto nei mercati anglosassoni e in Spagna.

Per capire le fibrillazioni di questi giorni è necessario analizzare quale/i nuova/e convenzione/i possa/no emergere. E’ a partire dal mese di gennaio che è in atto una certa attenzione sui titoli di stato greci, al punto che l’attacco speculativo al bilancio pubblico greco può dare adito alla possibile nascita di una nuova convenzione. La Grecia presenta delle caratteristiche particolari che la possono rendere sensibile alle attività speculative. Il suo Pil è pari circa al 3% di quello dell’Europa dei 27, quindi marginale, e il 70% dei titoli di debito pubblico sono detenuti all’estero. In altre parole, la Grecia pesa poco nello scacchiere europeo (e quindi può essere lasciata al suo destino) ed è fortemente dipendente dalle gerarchie finanziarie internazionali. Quale miglior caso per testare la validità di una nuova convenzione finanziaria che ha come oggetto di speculazione i bilanci pubblici europei, quindi il livello di welfare dei cittadini europei? Un welfare, per di più, fortemente indebitato per gli interventi a fondo perduto resi necessari per impedire fallimenti bancari e finanziari dopo quello disastroso della Lehmann Brothers?

Sappiamo come è andata: dopo che nei mesi di febbraio e marzo, il differenziale dei tassi d’interesse pubblici greci rispetto a quelli tedeschi è salito da 2 a 7 punti, il governo greco (che aveva pure ereditato dal governo precedente una contabilità “creativa” sul modello Tremonti) si è trovato nella difficoltà di vendere i propri titoli pubblici, nonostante il crescente rendimento degli stessi. La dipendenza dagli investitori istituzionali esteri è stata in questo caso fondamentale. Il declassamento poi da parte delle agenzie di rating ha fatto il resto.

L’Europa non si è mossa subito. Gli interessi nazionalisti e corporativi, in particolare della Germania e della Merkel, hanno giocato un ruolo importante. La tentazione di approfittare della crisi greca per verificare la possibilità di un’Europa (e di un’Euro) a due velocità è stata fortissima. La costruzione di un’Europa ristretta, di serie A, fondata sull’asse franco-tedesco, rispetto all’Europa mediterranea di Serie B , non è mai definitivamente scomparsa dalla scena politica, soprattutto in un contesto dove l’Europa rischia di trovarsi schiacciata nella competizione tra Usa e Cina. E’ tale tentazione che giustifica la costruzione dell’Europa solo sul pilastro monetario e il mantenimento di politiche fiscali nazionali. La non esistenza di una politica comune di budget europeo, tuttavia, oggi si sta rilevando un boomerang. Il ritardo con cui l’Europa è intervenuta e solo dopo che il Fmi aveva imposto alla Grecia il controllo del suo bilancio pubblico e l’obbligo di adottare politiche lacrime e sangue, ha consentito alla speculazione internazionale di allargarsi anche al mercato delle valute, prendendo di mira l’Euro. La crisi greca, il tentativo di estenderla ad altri paesi di peso politico sicuramente maggiore, l’inesistenza di una strategia fiscale comune europea, il ritardo con cui la stessa Europa si è mossa per fronteggiare tale situazione di instabilità: sono tutti elementi che hanno depotenziato l’immagine dell’Euro e creato aspettative di svalutazione. Non è affatto un caso, che dopo il pacchetto di misure straordinarie (il cd. Piano europeo) del valore di 500 miliardi di euro (estendibile a 750 miliardi, se si rendesse necessario l’intervento del Fmi) varato nella notte tra l’8 e il 9 maggio scorso, l’euro non era in gradi di recuperare sul dollaro, mantenendosi allo stesso valore del venerdì precedente. E ciò avveniva in un contesto in cui le borse brindavano all’immissione di nuova liquidità, all’ulteriore privatizzazione del welfare, alle garanzie poste sulle esposizioni bancarie. A una settimana di distanza, nonostante tutte le assicurazioni, l’euro continua a svalutarsi, e le borse non sono state in grado di arrestare la caduta. Alla speculazione sul welfare europeo, si è così aggiunta la speculazione sull’euro.

Ad una settimana di distanza dell’intervento europeo targato Ecofin, dunque, la situazione non è migliorata. I grandi operatori finanziari dettano ancora legge. E ‘ necessario un cambio di rotta e nuove proposte di intervento di politica economica. Esse possono essere discusse a due livelli: il primo riguarda interventi tecnico-politici in un ottica di breve, brevissimo periodo, il secondo presuppone un intervallo e un’azione politica e sociale di più lunga durata.

Nell’immediato si possono intraprendere tre percorsi, diversi, ma unificati dall’obiettivo di migliorare la governance dell’Europa nello scacchiere mondiale e rafforzare la sua credibilità nei mercati finanziari.

  1. Costituire una società di rating europea, indipendente e autorevole, effettivamente autonoma dagli interessi che agitano i mercati finanziari. A tal fine, essa non può essere privata, ma deve essere sottoposta all’egida della Banca Centrale Europea, con la nomina di esperti, nominati dalle Banche Centrali dei vari paesi europei (una sorta di Authority). In tal modo, potrebbe essere rotto il monopolio attualmente gestito dalle società americane, in collusione con gli investitori istituzionali che lì operano.

  2. Introdurre una sorta di tassazione sulle speculazioni in valuta dello 0,01% sul modello “Tobin Tax” (richiesta peraltro avanzata già in sede europea e nel G20 sia dalla Svezia che dalla Gran Bretagna, nei tempi più drammatici della crisi del 2008-09). Il gettito che ne deriva venga gestito direttamente dalla Comunità Europea e non dai singoli stati, per la creazione di un fondo che vada a costituire l’embrione di un budget europeo come condizione preliminare per definire una politica fiscale comune.

  3. Presentare un piano di coordinamento delle politiche fiscali nazionali con effetto immediato, che non sia esclusivamente rivolto alla riduzione della spesa pubblica (come deciso nel Piano d’intervento Europeo) ma che sia invece finalizzato alla creazione di budget fiscale europeo, emissione di bond europei di debito e acquisto di titoli di stato (come già in minima parte prevede il piano europeo). E’ necessario definire le tappe e i tempi per creare un bilancio pubblico europeo ed un unico parametro deficit /Pil.

Gli interventi summenzionati richiedono una volontà politica in grado di sancire a livello istituzionale europeo una sorta di nuovo “new deal” così da portare a compimento in modo effettivo l’unità economica e sociale dell’Europa. Non crediamo che al momento vi siano le condizioni perché si arrivi a ciò. Quasi tutti i governo europei hanno matrice liberista e social-liberista (Germania, Spagna, Portogallo, Grecia) o ancor peggio nazional-corporativa (Francia, Italia). Ciò che manca all’Europa, troppo rinchiusa su stessa e sui propri istinti individualistici, è una visione in primo luogo culturale e poi sociale in grado di intervenire, analizzare, inchiestare le nuove forme di accumulazione e di valorizzazione e la nuova composizione del lavoro vivo, sempre più condizionata dalla precarietà. Il campo di azione e di battaglia politica è la ridefinizione di un welfare in grado di favorire la costruzione di un variegato fronte sociale anti-liberista e nello stesso tempo di superare la fase della sola opposizione e resistenza alle misure recessiva e regressive che oggi si vogliono porre in atto in nome della stabilità dei bilanci. Il nostro orizzonte di welfare è oltre il workfare e il welfare pubblico-keynesiano del dopoguerra: è il common-fare, ovvero il welfare europeo del comune. Il primo pilastro è la garanzia di reddito incondizionato, individuale, ai residenti (e non solo ai cittadini), il cui ammontare è oggetto di vertenza sociale, finanziato dalla fiscalità generale (e non dai contributi sociali), grazie alla tassazione progressiva della proprietà intellettuale, dello spazio come fattore produttivo e di speculazione, della rendita finanziaria, nonché delle forme patrimoniali della ricchezza. Il secondo pilastro è l’erogazione di servizi pubblici (casa, mobilità, istruzione e salute) e comuni (beni ambientali, quali acqua ed energia, beni relazionali - quali socialità, alloggio e cura, beni cognitivi – quali conoscenza e formazione).

Una tale proposta di welfare rappresenta ad oggi un possibile strumento perché non solo si attui una distribuzione del reddito più equa ma anche perché si sviluppino quelle condizioni reali di scelta del lavoro, di vita e di sostenibilità sociale in grado di avere ricadute positive sulla struttura economica attuale, unico antidoto per combattere la speculazione e fuoriuscire dal guado della crisi.

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