Basta firmare per non essere più complici?

7 / 5 / 2012

Decine di migliaia di firme, più o meno note, contro la violenza sulle donne. Un gesto facile, su un testo che lo rende facile, in realtà, perché nulla propone, nulla dice, se non che sono morte già 54 donne (e, in pochi giorni, il numero è già salito a 57), che questo è intollerabile, che è necessario un nuovo modo di vivere tra donne e uomini, e che qualcuno dovrebbe fare qualcosa. E così fioccano le firme istituzionali, dalla ministra Cancellieri alla Polverini. Fermiamoci qui, senza spulciare, perché le sottoscrizioni “trasversali” certamente riserverebbero ben più amare sorprese.

Le novità positive, rispetto al passato, sono senz’altro tre: l’inclusione, nel novero delle vittime, anche delle donne “poco di buono”, quelle che lavorano in strada; l’introduzione del termine femminicidio e la forte critica al gergo giornalistico sul tema.

Partiamo proprio dall’uso del termine “femminicidio”, che è frutto di un’elaborazione precisa del femminismo sudamericano, quello che analizza e combatte contro massacri, rapimenti, stupri in forma addirittura  collettiva (in Messico, in Bolivia), ma anche delle analisi delle donne dei paesi dell’Ex Jugoslavia, che hanno subito in epoca relativamente recente i femminicidi di guerra più barbari (ma nella classifica, certo ci potrebbero stare le violenze degli eserciti “democratici” nei paesi delle missioni umanitarie di guerra, dalla Somalia all’Afghanistan).

E quel termine, nell’elaborazione di tante donne che ci hanno studiato su, non equivale solo all’uccisione (singola, collettiva, seriale) di donne, o solo alla violenza sulla donna perché donna, ma include una critica impietosa e necessaria al modello statuale che ne è parte, complice ed a volte centro propulsore (come è senz’altro nel caso della violenza degli eserciti “di guerra” e “di pace”). E così, le femministe centroamericane …”arrivano a rivendicare la rilevanza penale del femminicidio, come crimine individuale, ma anche come crimine di stato, quando la violenza assume dimensioni tali per cui è evidente che il governo non riesce a garantire alle proprie consociate l’integrità psicofisica, il diritto a vivere sicure e con dignità nella comunità, nelle strade, in casa, a lavoro, e quando risulta macroscopica l’inefficienza delle istituzioni nel prevenire, perseguire, punire i crimini contro le donne” (Spinelli, prefazione “Femminicidio”).

Proviamo per un attimo a seguire il ragionamento, proviamo a chiederci se il nostro stato è esente da questo tipo di critica; basta “aumentare le pene” come chiede sempre ed a gran voce l’opinione pubblica, preferibilmente quando le violenze contro le donne sono opera di non indigeni, o stabilire che per questa tipologia di reati è sempre obbligatoria la misura cautelare detentiva (per poi farsi dire, come ovvio, che il nostro ordinamento giuridico non ammette automatismi in materia) per dire che lo stato ha fatto quel che poteva per difendere le donne? Basta approvare una o più disposizioni di legge (come quella sullo stalking,  che  pure indubbiamente  ha fornito qualche strumento utile in più ) o ripromettersi di farlo?

La realtà della violenza, prevalentemente domestica, sulle donne, il numero impressionante di vittime che in questi anni sta funestando le nostre cronache quotidiane, necessita sicuramente di molto di più, di interventi sociali, economici, culturali, che garantiscano alla donna oggetto di violenza la possibilità di fuggirne; necessita senz’altro, sul piano della giustizia, di un sistema, non solo punitivo, ma anche preventivo, più rapido ed efficiente. 

Necessita anche, va detto, di soggetti preparati e realmente motivati ad intervenire: quante volte le donne si rivolgono a CC o poliziotti che consigliano un po’ di pazienza, di comprensione per il marito/compagno violento, o dichiarano falsamente di non poterci fare nulla se l’evento non si ripete ? Senza parlare di tutte le volte che autori delle violenze contro le donne sono proprio “rappresentanti delle forze dell’ordine”. Ecco, uno stato che si muove contro la violenza, ad esempio, non può certo tenersi in grembo carabinieri o poliziotti autori di reati di questo genere, no? eppure…

Uno stato che promuove il rispetto delle donne sul lavoro, ad esempio, non può accettare che la televisione di stato imponga alle proprie dipendenti clausole contrattuali che le discriminano in caso di maternità… L’elenco potrebbe continuare a lungo.

Insomma, lo stato non lo fa di sicuro, e non basta una firma istituzionale, neppure dell’intero esecutivo, a convincerci che lo farà, mentre con l’altra mano continua a firmare tagli ai servizi indispensabili all’autosufficienza delle donne, alla possibilità di vivere dignitosamente, a ribellarsi.

Sì, perché alle donne serve soprattutto la possibilità di ribellarsi, autonomamente da un marito, compagno, padre, padrone e violento, senza incappare in un carabiniere-poliziotto maschilista e violento, senza doversi vendere per essere accettata, e libera di svolgere le proprie attività senza per questo rischiare la vita (come invece le ordinanze puritane sulla prostituzione stanno facendo).

Forse è quindi ora di chiedersi se invece di continuare a chiedere il nulla, non sia meglio iniziare a praticare la solidarietà, l’autogestione da parte delle donne, in prima persona. Forse questa strada potrebbe contribuire a creare quei rapporti di forza necessari ad instaurare il rispetto delle donne, in casa, a lavoro, ed anche nei confronti dello stato.

Firmiamo pure, ma con l’altra mano impariamo ad organizzare una risposta ed una richiesta seria, precisa.

Donne in movimento