Un movimento globale contro il capitale finanziario e la sua crisi

Da #occupywallstreet a #occupyeverywhere

Dagli USA due articoli di Heather Gautney e una video intervista con Michael Hardt

11 / 11 / 2011

La presa di strade e piazze, di luoghi pubblici di fronte alle sedi delle istituzioni finanziarie e delle banche in tutto il mondo, segna la giornata dell'11.11.11. E' un movimento globale caratterizzato da una circolarità planetaria, che nasce nelle piazze del Mediterraneo, da Tahrir e Puerta del Sol a quelle italiane del dicembre 2009. Esso afferma una domanda di democrazia reale contro la dittatura dei mercati finanziari, rivendica i bisogni e i desideri del "novantanove per cento" contro l' "un per cento" la cui logica di rapina, di privata appropriazione di ciò che è comune, ha originato la crisi e ne guida la gestione capitalistica. Con i contributi di Heather Gautney e di Michael Hardt cerchiamo di capire quali siano i caratteri originali della protesta cresciuta nelle città americane e quale significato essa assuma su scala mondiale.

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dal Washington Post del 10 ottobre 2011

Cos’è «Occupy Wall Street?». La storia di un movimento senza leader.

 

di Heather Gautney *

 

Arrivata alla sua quarta settimana, l’occupazione di Wall Street è diventato un fenomeno nazionale. Il presidente se ne sta interessando, le celebrità passano a curiosare e le pizzerie stanno aggiungendo ai propri menù la pizza «OccuPie». C’è addirittura un videogioco, «Occupy», in fase di sviluppo. Il movimento ha inoltre sfornato centinaia di «Occupy» territoriali in rete con il nazionale «Occupy Together». E oggi si parla anche di globalizzarsi: «Occupy the world» (Occupa il mondo).

Le menti più vivaci vogliono sapere: chi sono queste persone? Cosa chiedono esattamente? Chi è o chi sono i loro leader?

Questioni su cui il movimento è stato subito chiaro, questo è un movimento senza leader e senza un una lista o elenco ufficiale di richieste.

Non ci sono esiti programmati né una base o un portavoce. Nel movimento «Occupy» siamo tutti leader.

Non si tratta tuttavia solo di un disordine fascinoso. Lo slogan - «Siamo tutti leader» - rappresenta una pratica reale e al contempo ha una sua storia.

Negli anni ’60 e ’70, le femministe convocavano incontri d’autocoscienza con l’obiettivo di politicizzare le diverse forme di oppressione femminile che prendevano corpo nel privato. Le donne dei ranghi inferiori presto si stufarono però di essere escluse dai circoli più ristretti di leadership dove si decideva tutto, dalle istanze alle richieste. Si erano cioè stancate dell’ipocrisia generalizzata sui ruoli di genere. Per questo, l’autocoscienza femminista rifuggì una leadership formale: ciascuna esperienza e opinione individuale andava valutata con pari dignità. Il personale divenne così il politico.

L’autocoscienza è stata anche il cuore e l’anima dell’attivismo omosessuale. Il processo di condivisione di storie di coming-out nell’ambito di un contesto libero ha infatti aiutato molti a liberarsi dal peso del pregiudizio. Anche in questa situazione, queste storie venivano narrate in un ambiente non coercitivo e privo di leadership tale da dare la forza a omosessuali e lesbiche di lottare in nome dei propri diritti e lasciarsi alle spalle una vita fittizia di segretezza sessuale. Entrambi i movimenti, gay e femminista, hanno avuto impatti enormi nella vita americana. Il movimento omosessuale ha liberato la nostra sessualità e quello femminista ha cambiato alla base il modo in cui si relazioniamo l’un l’altro, sia come uomini che come donne. Il tutto senza una leadership centrale.

Acceleriamo ai tardi anni ’90, quando nel mondo emersero reti di protesta contro il WTO, il G8 e la Banca mondiale. Questa volta furono sviluppo impari, debito e neoliberalismo ad assumere centralità, al pari delle preoccupazioni ambientaliste e della povertà mondiale. I manifestanti erano allo stesso tempo «anti» e «alter» globalizzazione. Flussi liberi di informazione si opposero al sistema dei brevetti, la libertà di movimento delle persone all’immigrazione controllata e il libero commercio al Nafta (North American Free Trade Agreement).

Le reti dell’alter-globalizzazione crearono un vero movimento dei movimenti, che non era governato o controllato da alcuno di loro. Negli Stati Uniti, collettivi anarchici riunirono centinaia di gruppi con l’obiettivo di organizzare azioni di protesta, conferenze e intervento nelle comunità. Alle riunioni ogni gruppo metteva davanti un suo esponente, formando così un cerchio più interno mentre gli altri si sedevano dietro, creando una ruota umana con portavoce. Non c’erano leader con incarichi di lunga durata perché ciascun partecipante era in realtà un leader. Invece di creare una linea di partito, quest’amalgama di movimenti operava secondo linee strategiche, principi procedurali - chiamati Principi di Unità - che riflettevano il loro orientamento anti-autoritario e anti-discriminatorio.

Certo, per mettere in pratica tutto questo bisogna possedere una percentuale di buona fede. Radicarsi in un processo di consenso parte dal presupposto etico che prendere decisioni non è una gara, non si tratta cioè di convertire gli altri a un modo di pensare. Si tratta invece di raggiungere un compromesso. Per ciascun coinvolto, c’è un punto di vista da prendere in considerazione. Si può senza dubbio produrre confusione, ma l’efficienza non è la misura del successo in questo caso. La misura è la Democrazia.

In un modo simile ai movimenti femministi e dell’alter-globalizzazione, questi gruppi oggi voglio evitare di replicare le strutture autoritarie delle istituzioni cui si oppongono. In parte questa è la differenza che c’è tra loro e i Tea Party. «Occupy» non diventerà mai un braccio del partito Democratico perché il partito Democratico è parte del problema. Questi manifestanti vogliono anticipare all’interno della loro organizzazione la società libera che vogliono creare. E vogliono manifestare contro la cultura corrotta e ipocrita della politica mainstream e di Wall Street proprio agendo con integrità.

Il movimento «Occupy» è un laboratorio di democrazia partecipata. E’ un corso intensivo di massa di leadership. La maggior parte degli attivisti hanno un’istanza, un problema o un’idea politica specifica che per loro ha un significato e un valore e su cui hanno sviluppato competenze. «Occupy» è al contempo uno spazio concreto e virtuale per mettere queste istanze ed esperienze insieme senza che una posizione o un punto di vista abbia la precedenza. Questo movimento non fa suo il principio competitivo - «la mia istanza è più importante della tua» - che sta ostacolando il Congresso mentre il Paese lentamente si sgretola.

Implicitamente in questa struttura c’è anche un rifiuto del narcisismo tipico della leadership «so cosa è meglio per voi», attualmente diffusissimo in questo Paese in cui i legislatori non tengono in considerazione i bisogni e i desideri delle persone che pretendono di rappresentare. Il fallimento della democrazia rappresentativa negli Stati Uniti è forse il problema più serio del nostro tempo e il movimento «Occupy» è un sintomo della crisi di legittimità. Le persone non credono più che i propri leader stiano per iniziare a mettere alla sbarra il sistema. Pensano che noi possiamo fare meglio. Siamo tutti leader.

 

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dal Washington Post del 21 ottobre 2011

 

Perché «Occupy Wall Street» non vuole avere a che fare con i nostri politici

 

di Heather Gautney *

 

E’ questa la democrazia? Questa è probabilmente la prima domanda che si è scatenata nel turbinio di tende, insegne, elicotteri e motociclette della polizia che hanno animato le proteste di «Occupy Wall Street». Ci sono però anche altre due domande che dovremmo porre. La democrazia è in qualche modo possibile in un contesto di estrema instabilità e ineguaglianza sociale? In un contesto in cui l’1 per cento della popolazione possiede e governa il restante 99 per cento? E chi, tra i nostri distinti candidati per il 2012, davvero vuole ridurre queste percentuali?

Finora, il movimento «Occupy» ha barrato nell’urna «Nessuno di loro». E da metà settembre ha deciso di auto-rappresentarsi nelle strade. Se si pensa che in piazza non ci siano richieste concrete - politiche - si rivolga allora uno sguardo più attento: tutto è politica, dall’educazione alla casa, dalla sanità all’ambiente, all’energia e alla sicurezza. E queste questioni sono lì per essere afferrate. Sono infatti istituzioni (scuola, sanità, casa, ambiente, energia, sicurezza) che hanno bisogno di essere sistemate e tutte sono appunto in lizza.

C’è anche però il pizzaiolo iper-ricco e ultra-conservatore, Herman Cain (http://it.wikipedia.org/wiki/Herman_Cain). Cain non ha niente se non il suo disgusto per «OccuPie». E’ troppo impegnato a difendere la sua controversa proposta di tassazione, la 999 (http://www.hermancain.com/999plan o http://www.washingtonpost.com/politics/herman-cain-tweaks-999-plan-to-include-opportunity-zones-for-lower-income-americans/2011/10/21/gIQAfBlh3L_story.html), per prendere in considerazione i bisogni del 99 per cento. Non è una provocazione. Ci vuole una persona speciale per prendere a calci i propri concittadini americani quando già a terra e i suoi commenti «piagnucoloso» e «americano geloso» (http://articles.latimes.com/2011/oct/09/news/la-pn-cain-occupy-wall-street-20111009) non fanno altro che questo. Penso che sia saggio dire che «Occupy Cadillac» non è nell’agenda del movimento.

Stupisce davvero che la gente di «Occupy» non voglia avere a che fare con il circo elettorale? Perché un movimento di base, non corporativo si dovrebbe affiancare a queste persone? Se sa tanto di corruzione e puzza di corruzione, allora probabilmente è corruzione.

Queste azioni di auto-rappresentazione - o democrazia diretta - non sono prese in considerazione dai politici mainstream né dai loro esperti. «Occupy» non parla la lingua di partito o dell’ideologia e questo dato non porta bene a un sistema basato su seggi elettorali e pensiero prevedibile e riduttivo. I movimenti sociali sono, per loro stessa natura, complessi, naturali e indeterminati. Operano ai livelli più profondi di come percepiamo l’un l’altro e del mondo dove viviamo.

Questo movimento non fa eccezione. Non si può ridurre questo genere di protesta pubblica a dicotomia come liberale e conservatore, o Blu e Rosso. E nemmeno si può liquidare come marginale o anti-americano. «Occupy» è un movimento popolare, non un Tea Party, è l’atto di unirsi per se stessi è tanto americano quanto la torta di mele.

Nonostante la sua apparente lontananza dalla politica, il movimento «Occupy» ha ricevuto menzioni onorevoli ai più alti livelli di governo, per quanto io sospetti che questo abbia più a che fare con i seggi e le circoscrizioni elettorali e non con una compresione sincera del movimento. Dopo che un sondaggio di Time Magazine ha rivelato che il 54 per cento degli americani sostiene questi sobillatori, i nostri politici hanno iniziato a prestare attenzione. «Occupy» al momento è più popolare tra gli americani del Congresso - e questo deve davvero dare fastidio.

Quel 54 per cento sta probabilmente alla base del cambio di vedute notturno di quel voltagabbana di Mitt Romney (http://it.wikipedia.org/wiki/Mitt_Romney). Il 2 ottobre, Romney ha definito i manifestanti «pericolosi» sobillatori di «guerra di classe». La settimana successiva ha ritarato il giudizio e espresso «preoccupazione» per quel 99 per cento. Tutto di un colpo quel multimilionario, guru del privato, è diventato un uomo della gente. Chi se lo aspettava?

C’è poi Barack Obama. L’uomo che tutti avremmo voluto amare. Con il suo tipico fascino, ha simpatizzato con gli occupanti, ha detto che non tutti nell’America delle corporazioni giocano secondo le regole e, ancora una volta, ci ha portato a fare una passeggiata per Main Street. Ma nel solco di guerra tra Main Street e Wall Street, Obama ha esplicitato da che parte sta. Basta guardare il lungo elenco di contribuenti alla sua campagna da Wall Street. Sfortunatamente, Mr President, sei chi ti circonda. 

Alla fine della giornata, Romney, Obama e Cain sono solo sintomi di un problema ben più profondo. L’esperienza corporativa è diventata un lasciapassare aureo per il potere politico e il cerchio più interno è essenzialmente chiuso all’uomo medio, a prescindere dalla sua conoscenza e esperienza.

Le nostre alte istituzioni politiche ed economiche non sono strutturate per niente come corpi rappresentativi. Piuttosto, l’idea della rappresentanza è usata per legittimare i larghi poteri decisionali dell’elite governante. Poche persone stanno al timone di quest’enorme barca e alcuni di loro sono incompetenti. Le falle nello scafo si espandono di giorno in giorno, il 99 per cento si sente impotente a cambiare rotta e stare a galla.

Il movimento «Occupy» è in un indicatore di quest’impotenza. Indica però anche una direzione. L’aspetto radicalmente democratico e senza leader di questo movimento pone la domanda di come cooperazione e cura reciproca può prendere il posto della competizione come principio di fondo nella costruzione di comunità e istituzioni sociali. I nostri insegnanti lo sanno già. Hanno scoperto che la maggior parte dei bambini impara meglio in gruppi di mutuo sostegno, lavorando con una varietà di persone in situazioni produttive e intime.

Invece di inseguire il gioco di chi è la colpa di chi ha fatto questo casino, forse i nosti amministratori eletti dovrebbero prendere in considerazione le suggestioni degli americani su come ripulirlo. O forse il movimento «Occupy» introdurrà nuove istituzioni, più egalitarie nonostante l’esistente, che sono in grado di rispettare le richieste di una democrazia veramente partecipativa. Non quelle che ci hanno detto che abbiamo ma quelle che noi, il 99 per cento, davvero ci meritiamo.

 

* Heather Gautney, PhD, è professore assistente di sociologia alla Fordham University e autrice di «Protest and Organization in the Alternative Globalization Era» (Palgrave Macmillan).

Intervista a Michael Hardt

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