In anteprima l'editoriale del nuovo numero della free press romana DINAMO, numero interamente dedicato al tema del lavoro autonomo nella Capitale

Gli Invisibili, il lavoro che cambia

Ambivalenza e virtù del lavoro autonomo di nuova generazione

15 / 3 / 2010

Parlare di lavoro, di questi tempi, significa parlare del lavoro che si perde. Che poi siano per la maggior parte i giovani a perderlo il lavoro è un'altra ovvietà a cui ci si abitua, così pare, senza troppa rabbia. Ancora, il lavoro perduto, quello che fa notizia, è quello dipendente, quello operaio: da Termini Imerese agli stabilimenti della Alcoa, sono i concentramenti industriali a rompere il silenzio ‒ grazie soprattutto alla determinazione degli operai ‒ e a riproporre, nell'opinione pubblica, il dibattito sulla crisi che la comunicazione politica ha già da tempo marginalizzato.

Eppure il lavoro è diventato anche e soprattutto molto altro e di questo “altro” non si parla o se ne parla poco, sicuramente la sinistra non ne parla quasi mai. Che proprio questa rimozione sia all'origine della disfatta delle sinistre è cosa ormai nota, anche se, salvo alcuni casi virtuosi, raramente questa consapevolezza diffusa si trasforma in ricerca politica concreta. Viene da ridere, infatti, quando Brunetta propone il reddito per i bamboccioni e il sindacato risponde difendendo le pensioni: il primo propone di estendere le garanzie ai giovani ‒ per la maggior parte precari e privi di diritti ‒ togliendole ai vecchi; il secondo si arrocca a difesa dei vecchi fregandosene della miseria dei giovani. Una risata amara che parla del disastro italiano, un paese a doppio statuto (del lavoro e dei diritti), dove solo la famiglia compensa il vuoto istituzionale, oltre che economico.

Ma cosa la sinistra si ostina a non capire e come la destra conquista uno spazio elettorale sempre più solido? Che cos'è propriamente il lavoro oggi, quale il vuoto di diritti che gli si accompagna? Sono queste le domande attorno alle quali si compone il dossier di DINAMO che avete tra le mani. Domande scomode, che spesso ricorrono, ma alle quali quasi sempre si risponde con formule inefficaci. DINAMO ha deciso di entrare nel dibattito a gamba tesa, occupandosi, ad esempio, di quel lavoro di cui solitamente si occupa solo il Corriere della sera (le inchieste sugli «indipendenti» di Dario Di vico) o, nella concretezza politica, il Pdl e la Lega: il lavoro autonomo di nuova generazione, il popolo della partite Iva. Cosa si cela, materialmente, dietro quel mostro noto alle pubbliche cronache solo per l'intemperanza fiscale? E nel tentare di tratteggiare carne nervi e sangue di questo mostro DINAMO prova a dire altre due cose fondamentali: in primo luogo, così come in passato il lavoro autonomo di nuova generazione è stato anche il frutto della defezione di massa dal lavoro normato, altrettanto oggi potrebbe essere una risposta (soggettiva) alla crisi e alla disoccupazione; in secondo luogo, le imprese sociali che riguardano i luoghi dell'autogestione sono, a pieno titolo, forme di lavoro autonomo che investono il terreno della democrazia come prassi costituente. Due terreni di ricerca su cui vale la pena insistere, per cercare di definire meglio il problema.

E' fondamentale, quando si parla di lavoro autonomo, sciogliere un'ambiguità: oggi lavoro autonomo può significare sfruttamento e precarietà. Autonomi sono, almeno formalmente, i lavoratori a progetto (co.co.pro.), così come la partita Iva viene imposta dalle imprese ai propri dipendenti per avere risparmi fiscali e per scaricare il rischio verso il basso. L'indipendenza, dunque, non è sempre il frutto di una scelta soggettiva, il più delle volte, anzi, è il risultato della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Laddove invece l'autonomia viene preferita al lavoro dipendente, con fatica si sfuggono le maglie dell'auto-sfruttamento più feroce, l'unica arma per rispondere alla competizione che a volte, quando ad esempio si parla di terziario avanzato (servizi e produzione di beni immateriali), supera i confini nazionali. Così come fanno fatica, i lavoratori autonomi italiani, a competere nel mercato internazionale, stretti dalla fiscalità e dall'assenza di tutele.

Il mondo del lavoro autonomo è indubbiamente controverso, ambivalente, ma nello stesso tempo occupa una scena sempre più significativa all'interno del mercato del lavoro. Una scena che pesa numericamente, a volte decisiva sul terreno dell'innovazione, ma che è leggera come una piuma sul terreno dei diritti. Dalle forme della contrattazione atipica allo sviluppo delle piccole imprese (intendiamoci, figure soggettive non riducibili l'una all'altra in termini lineari) un tratto comune emerge con forza e con drammaticità: completa assenza di diritti. Welfare e garanzie, in Italia, continuano ad andare a braccetto con il lavoro dipendente, altrettanto il sindacato fa convergere i suoi sforzi, sempre più fragili, nella difesa dei garantiti, dimenticando che le giovani generazioni sono per la maggior parte prive di futuro o, piuttosto, partecipano di una fiscalità i cui benefici non le riguarderanno mai. E la sinistra, mentre nel paese si discute di riforma degli ammortizzatori sociali, continua a canticchiare il solito ritornello, con qualche piccola aggiunta di folclore. Nessuna forza politica, se non le destre, attraverso la retorica della riduzione delle tasse o la provocazione della coperta troppo corta e dello scontro generazionali (togliere diritti ai vecchi per dare reddito ai giovani), affronta il problema.

Rimettere al centro il problema del lavoro significa partire da qui, partire dalle trasformazioni del modo di produrre e dalla qualificazione soggettiva che questa mutazione porta con sé. Indagare il nesso tra precarietà e lavoro autonomo, tra nuova qualità della cooperazione produttiva e estensione dei dispositivi di sfruttamento, significa rimettere la cultura politica del cambiamento sulle gambe, dopo averla fatta camminare, per troppo tempo, sulla testa, goffa e un po' nostalgica. Altrettanto, prendere sul serio questa nuova scena, con la sua ambivalenza, vuol dire affrontare senza timidezze il problema del welfare universale, della continuità di reddito, della ridefinizione delle misure fiscali.

Come comunica la ricerca politica di DINAMO con questa sfida? Già nel primo numero abbiamo anticipato il problema, in questo numero si tratta di entrare nel merito. In che modo, infatti, la cooperazione produttiva che attraversa la scena dei centri sociali ha a che fare con il tema del lavoro e, più in particolare, del lavoro autonomo? E' possibile pensare quelle pratiche di democrazia e di mutualismo che costituiscono la cifra dell'autogestione nel senso di una fuga tutt'altro che marginale tanto dal lavoro dipendente, quanto dalla crisi economica e dalla disoccupazione? Sembra evidente allora che parlare di conflitto sociale significa immediatamente parlare di territorio, di nuova qualità produttiva, di istituzioni. Socialità, cultura, formazione, assistenza, cura dell'ambiente, sono queste le attività (di «autovalorizzazione» – per dirla con parole vecchie) che definiscono la proposta politica dell'autogestione: politica e produzione vivono un intreccio decisivo laddove il lavoro diventa costruzione di impresa sociale! E questa ibridazione coinvolge anche il terreno istituzionale, non soltanto dal punto di vista della trasformazione delle istituzioni di prossimità esistenti, ma anche e soprattutto dal punto di vista della fondazione di nuove istituzioni sociali. Cosa significa, infatti, federalismo municipale o welfare locale se non questa sinergia di pratiche politiche e nuova capacità costituente?

Riprendiamo a parlare di lavoro a Roma, dunque, ma facendolo già immaginiamo una nuova sfida politica per la città.