Gli alti e bassi, ma sostanzialmente bassi,
dei cosiddetti mercati, ci fanno capire che nei prossimi anni, e per
molto tempo ancora, non ci sarà alcune «crescita»: né in Italia (dove la
manovra ha messo una pietra tombale su qualsiasi velleità di rilancio
economico), né in Europa, Germania compresa: che sconterà presto il
disastro a cui sta condannando metà dei suoi partner commerciali.
Meno
che mai negli Stati Uniti; di conseguenza soffrirà anche l'economia
cinese, dove sostituire la domanda estera con quella interna non è così
facile. Nemmeno il Brasile se la passerà più molto bene, mentre
l'economia giapponese è scomparsa dai radar.
In Italia, e in molti
altri paesi senza «crescita», il pareggio di bilancio diventerà
irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non basta per colmare i
deficit.
Così gli interessi si accumulano, anno dopo anno, e il
debito cresce, facendo aumentare a sua volta i tassi, e con essi il
deficit. Anche se prescritto dalla Costituzione (con una norma che
seppellisce tutto il pensiero economico originale del Novecento) il
pareggio di bilancio diventa una chimera.
Per anni i titoli di Stato
avevano offerto ai cosiddetti risparmiatori - cittadini che avevano un
avanzo di reddito a disposizione - una specie di cassaforte dove mettere
al sicuro il loro denaro. Ma da tempo, e soprattutto con la
liberalizzazione dei mercati finanziari, quei titoli, ormai nelle mani
di grandi operatori internazionali (compresi quelli che oggi gestiscono i
fondi dei risparmiatori), sono stati trasformati in assets su cui
lucrare, giorno per giorno, in base a variazioni dei rendimenti che chi
quei titoli li ha emessi non può più controllare. Non è vero, come ci
raccontano, che la spesa pubblica supera le entrate fiscali: in Italia
non lo fa da tempo. Sono gli interessi accumulati ad aver portato il
bilancio fuori controllo: è il meccanismo tipico dell'usura (quello dei
famigerati cravattari); a cui gli Stati di quasi tutto il mondo si sono
sottomessi: non per salvare se stessi, ma le banche e i fondi che
detengono i loro titoli.
Tuttavia la crisi finanziaria non è che un
risvolto di un meccanismo economico, quello dello sviluppo - che è poi
l'accumulazione del capitale - che si è inceppato; perché è anch'esso a
sua volta un risvolto della crisi ambientale: il pianeta Terra non è più
in grado di sostenere con le sue risorse gli attuali flussi della
produzione; e meno che mai i flussi di scarti e residui - a partire
dalle emissioni che alterano il clima - che accompagnano inevitabilmente
uno sviluppo guidato dal profitto. «L'età della pietra - diceva lo
sceicco Yamani, già ministro del petrolio dell'Arabia Saudita - non è
terminata per mancanza di pietre. Nemmeno l'era del petrolio terminerà
per l'esaurimento del petrolio». Non lo farà, anche se le riserve
tradizionali di petrolio sono agli sgoccioli: finirà perché il petrolio,
e gli altri idrocarburi, saranno sostituiti da fonti rinnovabili ed
efficienza energetica; oppure perché le loro emissioni avranno provocato
disastri tali da rendere il pianeta inagibile e ogni ulteriore
estrazione di idrocarburi impossibile o superflua.
Con il procedere della crisi, l'esito ineluttabile di uno Stato preso nella spirale di un debito insanabile come quello italiano è ciò che tutti dicono di voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad affrontare: il fallimento (default). Il problema non è il se, ma è solo il quando; e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo. Il dibattito politico, se ci fosse, dovrebbe vertere su questo. Invece tutti parlano di rilanciare una crescita che non tornerà più; o che, se anche tornasse, sarà talmente stentata da non poter interrompere quella spirale infernale. Mentre si parla di "crescita" (ma di che cosa? dei saldi contabili per fare fronte al debito) qualcuno, anzi molti, si affrettano ad arraffare tutto, prima che non ci sia più niente da prendere. Proprio come i deprecati protagonisti delle rivolte inglesi; che sono al tempo stesso il prodotto di quel saccheggio e della cultura che la civiltà dei consumi e la pubblicità promuovono ogni giorno. Ma là non si tratta di rubare uno smartphone o un paio di sniker, ma di privatizzazioni, di questi tempi vere e proprie svendite; e dopo le pessime prove - in termini di tariffe e di efficienza - di tutte le privatizzazioni realizzate negli ultimi anni. E dopo che l'Italia, ma anche Berlino, ma anche Parigi, ma anche Bolivia ed Equador, si sono pronunciati contro le privatizzazioni: non solo dell'acqua, ma di tutti i servizi pubblici e i beni comuni. Ma la democrazia è da tempo incompatibile con le esigenze dei mercati. Oggi più che mai.
Poi tocca alle pensioni (quelle dei poveri), ai salari, al welfare, alla sanità, alla scuola all'occupazione, al posto fisso, alle finanze dei Comuni: gli unici enti che sono, o potrebbero essere, vicini ai governati. Ovviamente è un saccheggio pericoloso: in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Medio Oriente - per non parlare dell'Islanda: infatti nessuno ne parla perché la strada del default è stata imboccata per scelta; e senza grandi danni, se non per i banchieri finiti in galera - domani in Italia, lavoratori e cittadini sfruttati e taglieggiati potrebbero ribellarsi. E non è detto che lo facciano in forme gentili. Londra insegna.
Per fare fronte a questa eventualità
- scrivono i corifei del saccheggio di Stato - ci vuole una vera
leadership. Quella attuale non è all'altezza: tanto è vero che quella
italiana - ma non solo quella - è stata commissariata. Ma anche quella
europea, che ne ha assunto la tutela, lascia a desiderare. E nemmeno
Obama naviga in buone acque. Mancano le idee e mancano gli uomini,
scrive sul Corriere della Sera un alfiere del liberismo, Alberto
Alesina, subito rincalzato dal suo gemello, Francesco Giavazzi, che solo
tre giorni prima si era invece accontentato - su input del suo
direttore - dell'«inventiva imprenditoriale» di Berlusconi. Ma di idee
intanto non ne tirano fuori nemmeno una, se non la solita solfa:
privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla politica e alla spesa
pubblica (continuano a pensare che la "crescita" sia una molla che
scatta da sé); e di come e dove farle nascere non parlano nemmeno (non
sarà certo la riforma Gelmini a produrre nuove idee; nemmeno quei due,
che pure la esaltano, osano sostenerlo). In queste condizioni la
leadership tanto invocata ha sempre di più l'aspetto di un "Uomo della
Provvidenza". Una débacle più sonora del pensiero unico liberista, che
ha dominato un trentennio di disastri, e che ancora pretende di
interpretare i tempi senza riuscire a comprenderli, non potrebbe
esserci. Ma in questo vuoto di conoscenze (ambientali e sociali) e di
pensiero strategico i rischi autoritari si moltiplicano.
Davanti a
noi c'è un'altra strada; perché sedi dove si producono idee le abbiamo,
anche se ancora gracili: sono i mille comitati di lotta, i centri
sociali, i circoli culturali, le associazioni civiche, alcune riviste,
molti blog, le associazioni studentesche, le pratiche alternative dei
GAS, dei DES, delle reti di insegnati, molte imprese sociali, alcune
rappresentanze sindacali.
Anche alcune idee importanti e condivise, nuove rispetto ai termini di un dibattito politico ormai sclerotizzato, ci sono. Sono quella dei "beni comuni": da difendere dall'accaparramento privato e dalla gestione burocratica e corrotta degli organismi statuali attraverso forme di trasparenza integrale, di controllo dal basso e di gestione partecipata; e da estendere a tutte le risorse naturali indivisibili, ai servizi pubblici, ai saperi. E poi l'idea della territorializzazione dei rapporti economici: mercati agricoli e alimentari a chilometri zero; rapporti diretti con i fornitori che garantiscono qualità dei prodotti, dei processi e delle condizioni di lavoro; coinvolgimento di tutti gli stakeholder (lavoratori, utenti, amministrazioni locali, associazioni, centri di ricerca, imprese fornitrici e utilizzatrici) nella riconversione di produzioni in crisi, obsolete o dannose (a partire dalle armi: meno spese, meno consumo di risorse, meno guerre); e impegno in tutte le attività di salvaguardia dei territori e della loro vivibilità. Di qui la convinzione che la salvezza non verrà dalla "crescita", che significa ogni giorno di più devastazione del pianeta, delle condizioni di vita e dei rapporti sociali; e che i vincoli imposti dai mercati - dalle parità di bilancio agli aumenti di fatturato, dal rendimento dei bot agli andamenti delle borse - non sono totem a cui ci si debba piegare. Lungo questi filoni di pensiero, e dentro queste pratiche e questi organismi, può rendere forma e formarsi una nuova classe dirigente: una cittadinanza attiva che si metta in grado di esautorare e sostituire gli uomini che oggi sono al potere, in tutti gli ambiti e a tutti i livelli, sia negli organismi statali e amministrativi, che nelle imprese: quelle che hanno sostenuto per anni Berlusconi e che oggi vogliono far pagare il costo dei loro disastri a chi non ne ha mai condiviso le responsabilità, né avrebbe potuto farlo.
Ma può un movimento
dal basso, fatto di organismi dispersi e pratiche differenti, governare
e dirigere un processo di transizione di questa portata? Che per di più
sta andando e andrà incontro a resistenze pesanti e reazioni violente?
Certamente no. Nessuno, credo, prospetta una cosa simile. Ma le forze,
le idee e la determinazione per intraprendere un percorso del genere non
possono nascere in nessuna altra sede e in nessun altro modo.
D'altronde non si tratta di processi isolati: le donne e gli uomini alla
ricerca di un mondo diverso, che lo ritengono possibile, sono milioni
in ogni parte della Terra. E se il processo avrà un seguito, anche molti
spezzoni delle attuali classi dirigenti potranno separarsi dalla
matrice in cui sono cresciute e forgiate; ma è un processo che può
svilupparsi intorno a idee e sedi che oggi occorre ancora diffondere e
consolidare.
tratto da ilManifesto