La tempesta dopo la tempesta

Brevi note sulle elezioni, la crisi economica e il collasso dei riformismi

5 / 4 / 2010

Nella giungla dei commenti post-elettorali meritano attenzione particolare gli editoriali pasquali di Tito Boeri (Così il carroccio conquista il Nord, la Repubblica) e di Ernesto Galli della Loggia (Un futuro per la Lega, Corriere della Sera). Indubbiamente entrambi tirano le fila di una discussione che ha solcato l'intera settimana dopo il voto, componendo con agilità temi e questioni sollevate da altri commentatori. Il successo della Lega, infatti, per molti è stato occasione di discutere della forma partito: da Diamanti a Cazzullo tutti convengono sul fatto che la Lega è un partito assolutamente “tradizionale”, radicato nel territorio, forte ideologicamente, popolare ma nello stesso tempo attraversato da un'opzione di potere fortemente centralizzata, composto di un personale politico umile e laborioso. Nei ritratti della conquista delle regioni rosse (Emilia e Toscana), che Cazzullo ci propone sul Corriere della Sera, emerge con chiarezza la qualità di una militanza assai poco liquida, per nulla spocchiosa nei confronti dei rapporti di produzione, capace di riempire il vuoto politico e sindacale con un groviglio passionale estraneo al formalismo giuridico della sinistra e dei forcaioli dell'ultima ora. Un partito leninista, azzardano alcuni, convinti di insistere, attraverso lo spettro bolscevico, sui tratti arcaici e dunque in nessun modo adeguati al presente della forza politica di Bossi e di Maroni, di Zaia e di Cota. Ma sul peso delle spinte neofeudali all'interno della crisi della globalizzazione bisognerebbe insistere con capacità analitiche serie, non con la presunzione un po' ridicola di chi pensa di stigmatizzare la Lega come un contrattempo passeggero dell'epoca che ci tocca in sorte.

Ma in che modo Boeri e Galli della Loggia ci dicono cose utili su cui riflettere? Il pregio dei due commenti è quello di insistere su alcuni elementi che pur essendo stati il motivo dello sfondamento elettorale della Lega, ne costituiscono il pericolo più feroce. Boeri parte da una domanda semplice quanto importante: come è possibile spiegare il rapporto positivo tra i «piccoli» e la Lega laddove l'attuale governo nazionale (di cui la Lega è parte) è il governo che non ha saputo far nulla di fronte alla sparizione – determinata dalla crisi economica ‒ di 300.000 lavori autonomi e del 16% delle piccole imprese? Eppure la Lega in questi due anni ha governato, non ha avuto di certo un ruolo marginale, le responsabilità sono sotto gli occhi di tutti. A guardare con maggiore attenzione, però, Boeri ci fa notare come la Lega abbia imposto una strategia anti-crisi molto precisa: Cassa Integrazione in deroga, quella pagata da tutti i contribuenti e non dalle imprese e distribuita con assoluta discrezionalità politica; distribuzione, altrettanto discrezionale ed esterna alle leggi di bilancio, di sussidi e sostegni a questo o a quel distretto, a questa o a quell'area produttiva (sia nel senso geografico, sia nel senso della specificità del prodotto). Contributi discrezionali, appunto, affidati alla politica locale, ai territori più decisivi dal punto di vista elettorale. Una “politica di classe” dentro la crisi, molto precisa, selettiva, parziale: salvare alcuni settori e non altri, salvare alcune zone geografiche del paese e non altre. Quando si riconoscono i tratti salienti della militanza leghista (dai gazebi al paziente intervento di fabbrica, dall'amministrazione locale al rapporto con i «piccoli») non bisogna mai perdere di vista la crisi, la sua potenza, la sua profondità: dentro la crisi la spinta politica e ideologica della Lega costruisce specifiche alleanze sociali, federa le paure, organizza gli egoismi. A questo punto, però, il mandato è completo: la Lega ha tutte le carte in tavola per dare risposte efficaci. Ma sarà davvero possibile portare a termini il federalismo? E ancora, sarà sufficiente il federalismo per mettere a riparo i «piccoli» da una crisi che non si ferma? Riusciranno le camice verdi a tenere i cinesi fuori dalle regioni in cui governano (tenendo in conto che la Cina, assieme agli Usa, è la più grande potenza economica mondiale)? Un altro modo per dire: è possibile effettivamente respingere o congelare il processo di globalizzazione? Senza alcun ottimismo facile riteniamo di poter dire che in questo groviglio di problemi si annidano sciagure future per chi ha promesso davvero tanto e ora, almeno sul piano formale, non ha più ostacoli di nessun genere.

Galli della Loggia ci presenta una Lega come partito figlio maturo della crisi della rappresentanza politica. Se la Dc e il Pci avevano un riferimento e un respiro popolare, la Lega è a tutti gli effetti un partito del popolo. Salta la mediazione di un personale politico qualificato, di un'élite colta che con il popolo non poteva che intrattenere un rapporto «paternalistico»: la Lega (e basta passare in rassegna le vicende biografiche specifiche, da Zaia a molti altri) è il popolo che si fa immediatamente amministrazione e politica. Un passo ulteriore, nell'erosione della rappresentanza politica tradizionale, anche rispetto al populismo mediatico dell'«imprenditore politico». Eppure, continua Galli della Loggia, una classe politica così territorializzata, pragmatica e antistatalista, di fronte a un successo elettorale largo come quello dello scorso 29 marzo non può non fare i conti con un'investitura e una responsabilità politica di natura più generale, quanto meno nazionale. L'editorialista smentisce la possibilità di farla breve con il federalismo e prefigura, facendo leva sul ruolo assolto fin qui da Maroni in qualità di ministro degli Interni, una Lega impegnata, da partito nazionale, nella riforma costituzionale. Non si tratta semplicemente di una speranza, ma di un'indicazione politica specifica che viene recapitata alla Lega dal giornale padronale più autorevole. In che modo sarà possibile per la Lega conciliare le istanze specifiche che ne hanno garantito lo sfondamento elettorale con le esigenze dei poteri forti? Come tenere assieme la radicalità delle pretese sociali con le responsabilità di governo qualora la strada verso il federalismo si dovesse dimostrare più impervia del previsto? Domande a cui probabilmente Bossi, forte del successo, sta già cominciando a rispondere, scambiando con il presidenzialismo di Berlusconi e Fini il federalismo padano. Di certo se dall'altra parte il Partito di Repubblica (vedi l'editoriale pasquale di Eugenio Scalfari) non vede l'ora di sedersi al tavolo, tutto fa credere che in qualche modo potrebbe anche farcela. Ma il problema comunque rimane aperto e il tempo che viene sarà indubbiamente teatro di una verifica severa.

In ultimo alcune battute sulle questione che più stanno a cuore ai movimenti, consapevoli di anticipare per cenni cose che andrebbero approfondite con maggiore rilassatezza e in modo rigorosamente collettivo. Una breve lista di problemi, per esser chiari, su cui cominciare positivamente a “sbattere la testa”.

La crisi economica è un fatto strutturale e non congiunturale, questo ce lo siamo già detti da un po', ma rischiamo, ogni volta, di dimenticarcelo. Dire che la crisi è di tipo strutturale significa fare i conti con un passaggio epocale che insiste su un periodo medio-lungo e che richiede una risposta politico-strategica misurata altrettanto sul lungo periodo. In questa prima fase della crisi che, ricordiamoci, è stata anticipata dal tentativo golpista dell'amministrazione Bush al seguito del collasso della New economy (marzo 2000), le destre, almeno in Europa, si presentano come forze politiche e sociali in grado di dare risposte efficaci (almeno sulla carta) alle paure, fin da subito generate dalla globalizzazione, ma oggi quanto mai più esplosive. Xenofobia e razzismo, cifre passionali delle destre, fanno rima con istanze neo-protezioniste sul terreno economico e neo-identitarie o tradizionaliste sul terreno culturale e politico. La crisi, come ci siamo detti anche in passato, sta producendo quelle che Deleuze e Guattari avrebbero definito delle spinte riterritorializzanti e, dentro queste spinte, il discorso delle destre è, per adesso, imbattibile.

La crisi si è presentata politicamente attraverso la grande svolta americana di Obama. Svolta epocale, indubbiamente, che per adesso si è attestata su un terreno molto, troppo fragile. Il successo sulla riforma sanitaria ha rappresentato una piccola luce in uno scenario riformistico ancora timido, se non inesistente. Altrettanto la riqualificazione multilateralista della politica americana ha trovato due ostacoli non facili: per un verso la Cina e la sua crescita economica inarrestabile, per l'altro l'Iran e l'insistenza della minaccia atomica. Al tonfo in Afghanistan, dove il “pacifismo” obamiano si è scontrato con l'inasprimento bellico, ha fatto seguito l'insuccesso di Copenhagen siglato a Singapore: anche questi elementi segnalano la fragilità della proposta riformista americana, proposta, occorre ricordarlo, che ha vistosamente insistito sul carattere irreversibile della globalizzazione e delle sue spinte deterritorializzanti. Salta all'occhio, dunque, come sia difficile per i movimenti riprendere in mano un discorso propriamente incentrato sulle spinte deterritorializzanti laddove queste ultime, sul piano del comando, stanno subendo continui blocchi. Il movimento alterglobalista è nato infatti all'interno di una fase profondamente espansiva della globalizzazione, della New economy e della nuova egemonia del capitalismo cognitivo. Eppure proprio in un momento in cui sembra saltare definitivamente il rapporto tra comando e sviluppo, tra sfruttamento e riformismo, sarebbe interessante cominciare a ripensare un lessico propriamente globale dei movimenti, nella consapevolezza che soltanto una nuova e positiva spinta deterritorializzante può riaprire i giochi di fronte ad un processo di nuova accumulazione capitalistica (quella definita dall'espropriazione dei nuovi commons, cognitivi e cooperativi oltre che ambientali) che, almeno in Europa, spesso e volentieri preferisce il neofeudalesimo di Bossi al floridismo (il riferimento è al sociologo americano Richard Florida) un po' molliccio delle socialdemocrazie.

Abbiamo fin troppo sottovalutato in questi anni il peso e il ruolo di una chiesa largamente controriformistica. Le parole di Bagnasco a sostegno della Polverini nel Lazio esplicitano una scelta politica specifica delle gerarchie cattoliche, è inutile far finta di niente e pensare che c'è un solido voto cattolico antiberlusconiano. Vale la pena, inoltre, leggere con attenzione le mosse americane anti-Vaticano, mosse che evidentemente segnalano un problema non più provinciale nel rapporto tra ipotesi riformiste (il riferimento è all'ipotesi obamiana) e spinte ecclesiastiche controriformistiche (pensiamo, per dirne solo una, al rapporto tra fede e scienza, più in generale al tema del biopotere).

E' necessario iniziare un discorso di nuova natura sullo statuto della società dell'informazione. Con troppa facilità abbiamo creduto – peccando anche di fiducia progressista ‒ che l'egemonia del capitalismo cognitivo portasse con sé l'affermazione di pratiche culturali e politiche avanzate o “positive”. Non abbiamo fatto i conti ‒ ed è il caso di cominciare a farli seriamente ora ‒ con le gerarchizzazioni e le segmentazioni violentissime determinate dal comando lungo la nuova scena produttiva. Precarietà, ma più generalmente povertà, accompagnano in modo costitutivo l'affermazione di una nuova soggettività produttiva immersa nei flussi comunicativi, linguistici, affettivi. E dentro questa stratificazione emergono con forza passioni tristi dirompenti: invidia, risentimento, angoscia, paura. Altrettanto, non ci siamo mai interrogati seriamente su cosa significa ignoranza nella società interamente mediatizzata e della scolarizzazione di massa. L'uso di Facebook e dell'iPad e una laurea in economia e commercio non definiscono necessariamente un soggetto ricco (eticamente) e creativo (politicamente). Costruire una critica politica dell'ignoranza dentro le società complesse – per citare Alberto De Nicola ‒ è un compito indispensabile non tanto per le scienze sociali, quanto per il desiderio sovversivo e per l'organizzazione delle lotte. Senza moralismi, infatti, dobbiamo dirci che intellettualità di massa e populismi possono tranquillamente andare a braccetto e l'Italia dimostra in modo lampante questo fenomeno.

Non si può rispondere allo sfondamento della destra e delle leghe solo con un tiepido discorso difensivo o marginalmente resistenziale. La tentazione del margine, in una fase come questa, è assolutamente dirompente, sia dal punto di vista politico (della pratica e del pensiero) che da quello esistenziale. Un margine spesso carico di distacco nei confronti della catastrofe sociale (che si traduce volentieri nella deriva della singolarità nuda e nichilista) oppure teso verso la scelta consolatoria di nuove e vecchie identità. Bisogna, di converso, riprendere a pensare in grande, nella consapevolezza che di ferri utili, nella cassetta degli attrezzi, ne sono rimasti pochi, se non pochissimi. Pensare in grande significa interrogare anche i limiti dei movimenti. Se vogliamo guardare all'unico grande movimento di massa che in Italia si è opposto al dilagare delle destre la nostra mente deve necessariamente fare riferimento all'Onda. L'Onda è stato sicuramente un movimento straordinario, per intensità ed estensione, eppure non è riuscito a vincere. I motivi sono indubbiamente diversi – la debolezza e il ritardo del sostegno sindacale, il voltafaccia del partito dei Rettori e di Repubblica, la fragilità, quantitativa oltre che strategica, del capitalismo cognitivo in Italia, l'anomalia istituzionale berlusconiana, il collasso radicale degli istituti di mediazione sociale ‒ ma ciò che ci interessa ora e fare i conti con l'effetto dell'insuccesso. L'impotenza scontata dall'Onda, infatti, ha determinato un'immediata ricaduta antipolitica, ricaduta che, non è difficile intuirlo, è stata in larga parte capitalizzata dal dipietrismo e dal grillismo, in generale dal viola di Facebook e dei blog. Sarebbe assai piacevole pensare che l'Onda semplicemente si è tradotta nell'astensionismo di massa, grande protagonista di questa tornata elettorale, ma non è del tutto così. Una parte significativa di quella soggettività che abbiamo visto all'opera con l'Onda non intravede prospettiva di movimento nel blocco politico e democratico che sconta il paese ed è dentro questa disillusione che le manette e il merito diventano elementi decisivi per il cambiamento. Possiamo pensare che l'anticapitalismo è talmente maturo che tra poco nessuno andrà a più a votare o forse, in modo meno arrogante, dovremmo fare i conti con la nostra capacità o incapacità di vivere i movimenti con forza innovativa, oltre che strategica. C'è davvero bisogno di una New thing, di una nuova cosa, e solo prendendo sul serio il mondo che c'è e non quello che dovrebbe esserci possiamo cominciare ad immaginarla.

Salento, Pasquetta 2010