Fonte: Corriere del Veneto 10.04.09

L’attualità del 7 Aprile a trent’anni di distanza

10 / 4 / 2009

Negli anni Novanta, ho avuto la fortuna di studiare filosofia all'Università di Padova, dove ho incontrato «buoni maestri» come Umberto Curi. Gli altri maestri, quelli «cattivi», sono dovuto andare a cercarmeli, nella facoltà di Scienze Politiche come Luciano Ferrari Bravo, rientrato al suo posto, dopo gli anni del carcere e l'assoluzione con formula piena da tutte le accuse del processo 7 Aprile, o a Parigi, come Toni Negri che teneva là i suoi seminari, costretto all'esilio dalle stesse inchieste.

Nonostante tutti gli sforzi, e dei miei «buoni» e dei miei «cattivi» maestri, temo di essere rimasto un «pessimo allievo». Ma qualcosina credo anche di averla imparata. E cerco di verificarla sull'analisi storica e politica del «7 Aprile», proposta ieri da Curi.


Il tema è se quelle vicende parlino al nostro presente. La risposta non può che essere affermativa. Non tanto perché molti tra i protagonisti di allora siano ancora in circolazione, ma in quanto la rigidità, denunciata da Curi, di chi si ostina a riaffermare le posizioni sostenute trent'anni fa, rivela la persistenza di contraddizioni reali ancora aperte, di nodi politici lontani dall'essere sciolti.
In fondo, l'equazione «movimenti sociali uguale terrorismo», o «Autonomia uguale Brigate rosse», che sottendeva il Teorema Calogero, ovvero l'ipotesi accusatoria poi demolita dalle sentenze definitive, aveva un obiettivo più ambizioso della pura e semplice persecuzione giudiziaria nei confronti dei professori di Scienze Politiche e dei militanti dei collettivi: descrivere lo scontro sociale e politico di quegli anni come prodotto di un complotto, del disegno criminale di «bande armate», significava cercare di rimuovere per via giudiziaria il conflitto sociale, di negarne la legittimità, di neutralizzarne gli effetti politici.

Una posizione che, al di là dei drammi e delle sofferenze che ha generato, mostra un'ingenuità di fondo. E' sufficiente una lettura superficiale dei classici del pensiero politico, uno sguardo alle pagine machiavelliane sugli «umori» e sul «tumulto«, per comprendere come il conflitto sociale non possa essere deciso a tavolino da qualcuno, ma sia invece fattore strutturale ineliminabile, elemento costitutivo dello spazio dell'azione politica.
E di come il tema di quest'ultima non possa che essere l'interpretazione del conflitto come leva della trasformazione, vettore di innovazione, attraverso la sua traduzione in «ordinamento», la sua messa in forma in nuove istituzioni. E non è forse questo tema di straordinaria attualità di fronte alla crisi verticale della rappresentanza politica e degli istituti della democrazia rappresentativa, oggi ben più profondamente delegittimati di quanto già non fossero trent'anni fa?
E la ricerca del nuovo può forse rimanere confinata in quello spazio politico-istituzionale della statualità moderna (con tutto il carico di violenza di cui essa è portatrice), che mostra oggi tutta la sua inadeguatezza a confrontarsi con, non dico a risolvere, i problemi globali che la crisi economica esalta nella loro drammaticità?
Non vi è forse la necessità di un tentativo costituente, di costruire nuovi istituti di democrazia e di autogoverno, a partire da domande di cambiamento radicale oggi tutt'altro che soddisfatte? Ecco perché chi rimane attaccato al passato lo fa per negare questa urgenza nell'attualità.

Vedi anche:

"Padova trent’anni dopo - processo 7 aprile - voci della città degna". Tutti i materiali multimediali della tre giorni di iniziative