Ora si comincia a parlare di default (fallimento) come esito - o come soluzione - del debito pubblico italiano. La discussione assume aspetti tecnici, ma il problema è politico e merita approfondimenti sui due versanti. Dichiarare fallimento imboscando dei fondi, è truffa. Ma è truffa anche se una condizione insostenibile viene protratta oltre ogni possibilità di recupero; in particolare, per spremere quelli che si riesce a spennare con la scusa di rimettersi in sesto, prima di dichiarare che «non c'è più niente da fare». Proprio quello che l'Unione Europea e i suoi governi (e non solo la Bce) stanno chiedendo a Grecia, Portogallo e Irlanda, ma forse anche all'Italia.
C'è chi, senza escludere il default, vede una soluzione alla crisi del debito nell'uscita dall'euro. Il problema, vien detto, non è tanto il debito pubblico quanto il debito estero; in cui si riflette la perdita di competitività del paese, costretto dalla propria inflazione e dalla minore "produttività" a finanziarsi all'estero per importare più di quanto esporta. L'uscita dall'euro consentirebbe un recupero di competitività attraverso la svalutazione - oggi resa impossibile dalla moneta unica - riequilibrando così, con maggiori esportazioni, i conti con i paesi che, come la Germania, possono evitare di rivalutare la loro moneta e perdere competitività proprio grazie all'appartenenza all'eurozona. L'aumento delle esportazioni produrrebbe, sostiene per esempio Alberto Bagnai, «risorse sufficienti a ripagare i debiti, come nel 1992. Se non lo fossero - aggiunge - rimarrebbe la possibilità del default ... come hanno già fatto tanti paesi che non sono stati cancellati dalla geografia economica per questo». Ma una svalutazione - posto che l'uscita dall'euro sia praticabile - basterebbe a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell'Italia, o quella di altri paesi dell'eurozona in difficoltà? In altre parole, costando il 15 o il 20 per cento in meno le auto della Fiat prodotte con il metodo Marchionne - a cui forse Bagnai attribuisce eccessiva credibilità - potrebbero ancora sottrarre consistenti quote di mercato alla Volkswagen? O costando il 15 o il 20 per cento in più l'Italia cesserebbe di importare turbine eoliche dalla Danimarca e pannelli fotovoltaici o impianti di cogenerazione dalla Germania, mettendosi finalmente a produrli in proprio? O ancora, con la lira l'Italia potrebbe tornare a esportare arance - raccolte con manodopera schiava - nei paesi dove l'organizzazione commerciale degli agricoltori spagnoli le ha portato via il mercato? Eccetera.
Non siamo più nel '92; da allora non è cambiato solo il
secolo, ma tutto il contesto. Forse ora, e in futuro, il problema non è
esportare (o tornare a esportare) di più, ma importare - per quanto è
possibile - di meno: produrre di più in loco (o il più vicino
possibile) quello che si consuma; e consumare o utilizzare di più
quello che ogni comunità è in grado di produrre. Non con il
protezionismo, predicato a fasi alterne dalla Lega (e un tempo anche da
Tremonti), ma inattuabile nel contesto odierno; bensì con una
progressiva riterritorializzazione dei processi economici con cui
accompagnare l'inevitabile e non più rimandabile conversione ecologica
di produzioni e consumi.
Ma in Italia ogni possibilità di recupero
risulta inibita dalla scomparsa del concetto stesso di politica
industriale, che altri paesi hanno invece in qualche misura mantenuto,
nonostante che sulle scelte di fondo la delega ai "mercati", cioè
all'alta finanza, sia per tutti totale. Quello che ora manca è una
politica industriale adeguata ai tempi, cioè a una crisi ambientale
planetaria che rende inutile e dannoso rincorrere chi ci ha da tempo
superato in settori - come quello dell'auto - destinati a immani crisi
di sovrapproduzione. E che impone invece di attrezzarsi per svolte
improcrastinabili con progetti e produzioni ecologiche dal sicuro
avvenire (anche di mercato, se per "mercato" si intende non lo
strapotere del capitale finanziario, ma uno dei modi per mettere in
rapporto produzione e consumo).
In gioco ci sono questioni come efficienza e conversione
energetiche; agricoltura e alimentazione a chilometri zero; mobilità
sostenibile (proprio mentre Fiat chiude l'unica fabbrica di autobus
urbani del paese); manutenzione del territorio e del patrimonio
edilizio e storico esistente; gestione accurata di risorse e rifiuti;
accoglienza ed educazione per tutti; e una ricerca mirata a tutti
questi obiettivi. Se iniziative del genere venissero finanziate invece
di dissanguare i lavoratori per pagare gli interessi sul debito, ben
venga il default; costringerebbe i responsabili dell'eurozona a correre
ai ripari.
Diversi economisti pensano invece che il default degli
Stati membri si possa evitare, e non solo procrastinare, se un organo
dell'eurozona rilevasse - magari "sterilizzandoli" con un rinvio a
lungo termine del loro rinnovo - i debiti degli Stati membri in
difficoltà; o una loro quota consistente. È la proposta degli eurobond;
per alcuni sono "la soluzione"; per altri - come l'agenzia di rating
S&P - non farebbero che trasferire lo stato comatoso dai paesi
beneficiati a tutta l'eurozona. Default per tutti.
Ma gli eurobond difficilmente potrebbero risolvere il
problema; nemmeno nella versione proposta da Prodi e Quadrio Curzio, che
ai bond emessi a copertura dei debiti di alcuni Stati ne affianca
altri per finanziare un programma europeo di Grandi opere. Con
l'intento di promuovere quello che l'Italia e altri paesi non riescono a
fare da soli: "rilanciare la crescita" - da tutti considerata la
strada maestra per azzerare il deficit e ridurre il debito - avendo
però messo "al sicuro" i conti pubblici. Ma quella crescita non è così
facile "rilanciarla": in Italia non c'è più da tempo e sta non a caso
svanendo anche in paesi fino a ieri considerati "locomotive"
economiche.
Inoltre, la principale iniziativa europea per produrre
crescita si chiama Ten (Rete transeuropea di trasporto). Anche se con
gli organi di governo che l'Unione si è data non sembra che per ora ci
siano molte altre modalità di intervento praticabili, proposte del
genere sono comunque inaccettabili.
È con quella iniziativa, infatti, che oggi si cerca di
giustificare lo scempio del Tav in Valsusa, che persino l'Economist
considera uno spreco. Ma non è di Grandi Opere che c'è bisogno, bensì di
tante "piccole opere" di manutenzione del patrimonio esistente e di
conversione ambientale nei settori portanti della vita economica e
sociale. Interventi concepiti, progettati, realizzati e gestiti a
livello quanto più decentrato; e sottoposti a un controllo dal basso -
analogo a quello richiesto per la gestione dei "beni comuni" - imponendo
a tutti regole di trasparenza integrale. Esattamente l'opposto di quel
che succede sia in Valsusa che altrove. Il Tav infatti non è un caso
isolato; rappresenta in modo paradigamatico il modus operandi di
un'economia governata dalla grande finanza.
Dove, proprio come in
Valsusa, progettazione ed esecuzione di opere gigantesche - costose,
inutili, altamente dannose e completamente dissociate dalle esigenze del
territorio - vengono realizzate a spese delle finanze pubbliche
mediante una catena senza fine di appalti e subappalti sottratti a
qualsiasi controllo; e devono essere imposte con la forza - o, in altri
casi, fatte svanire con una improvvisa delocalizzazione - tanto che in
Valsusa si è arrivati a schierare i carri armati (sì, i carri armati) e
2000 militari per aprire un cantiere.
Il problema allora non è "costituzionalizzare" il
pareggio di bilancio per soddisfare il capitale finanziario che tiene
in pugno le politiche, non solo economiche, degli Stati con il
controllo dei debiti pubblici; né promuovere, con interventi senza
senso e prospettiva - e senza ricadute per lavoro e occupazione - una
crescita del Pil evanescente, nel vano tentativo di azzerare il deficit
con le imposte ricavate da un ancor più evanescente aumento dei
redditi.
Il problema è invece quello di imporre con lotte e
mobilitazioni le misure necessarie per recuperare risorse da chi le ha e
non ha mai pagato. Ma non per buttare il ricavato nel pozzo senza
fondo degli interessi sul debito. Quello che occorre è mobilitare le
risorse sia finanziare che umane - le conoscenze e i saperi diffusi; la
fiducia reciproca che si crea nella lotta - necessarie alla
riconversione ecologica del tessuto produttivo. Non saranno né questo
governo né il prossimo a promuovere o consentire una svolta del genere.
Ma se non si mette in chiaro che quel debito non va saldato e che è
inevitabile affrontare il rischio di un default, ancorché selettivo, si
lascia la palla in mano a chi sostiene, e sempre sosterrà, che ai
diktat della finanza "non c'è alternativa"; azzerando così qualsiasi
prospettiva di riscatto sociale e politico. Per questo è bene capire a
che cosa si va incontro e come far fronte a un default; e qui un
maggiore impegno degli economisti che condividono queste prospettive
sarebbe benvenuto.
Tratto da Il Manifesto del 13 settembre