O la vita o la borsa

La società europea al bivio

4 / 2 / 2012

L'articolo che segue è parte della sezione Povera Europa dell'ultimo numero di Alfabeta2, in edicola dal 1 febbraio. Il 23 febbraio alle ore 19, a Roma, presso l' Ex Cinema Palazzo/Sala Vittorio Arrigoni, il mensile sarà presentanto dallo stesso Francesco Raparelli, da Giuseppe Bronzini, da Vladimiro Giacché e da G. B. Zorzoli.

Ce ne è voluto di tempo, ma ce l'ha fatta. Non possiamo non ammettere che l'operazione politica del Presidente è senza precedenti: la deposizione indolore di un premier eletto, ignobile, ma eletto; la costruzione di una nuova maggioranza a partire dai diktat della Bce; la demolizione, nella custodia, della Costituzione democratica. Per il «migliorista» Napolitano, dopo Amendola l'uomo più atlantico nel Pci, il traguardo di una vita. Per noi tutti l'epoca dell'austerità, che non è solo una parola, è soprattutto la violenza della disoccupazione, della povertà, della mancanza di diritti.
Intanto lo spread non accenna a calare (inizia il nuovo anno a quota 530), mentre i capitali fuggono, non solo dall'Italia, più in generale dall'Europa. Ungheria e Grecia sono ad un soffio dal default e le banche tremano, UniCredit in testa. Saranno Draghi e la sua sobrietà a salvarci da tutto questo? È ancora possibile un'inversione di marcia, prima che il convoglio-Europa raggiunga il precipizio e si ricominci a comprare il caffè espresso con mille lire? È l'occasione giusta per rispondere con Oscar Wilde: «Le previsioni sono molto difficili, soprattutto quando riguardano il futuro». Ciò che è certo è che tutti gli esiti sono possibili, la situazione è del tutto aperta e ogni apertura di possibilità è sempre, pur nella drammaticità, ambivalente.

Mentre scrivo Monti corre da una parte all'altra dell'Europa, da Bruxelles a Parigi, da Berlino a Londra. Corre per concordare ‒ dopo l'inasprimento fiscale, la cancellazione delle pensioni di anzianità e la finta patrimoniale ‒ la «fase due» del suo governo, le misure relative alla crescita: riforma del mercato e degli ammortizzatori sociali. L'articolo 18 sarà ancora al centro dello scontro, ma la partita è molto più grande. Con l'arroganza di Marchionne e Federmeccanica si chiude un'epoca, quella della contrattazione collettiva. Con Monti e la piagnucolosa Fornero se ne chiude un'altra, quella della concertazione. Dal Corsera al Sole 24 ore tutti si sbracciano a ricordarci che la concertazione era un vulnus nell'impianto democratico della nostra Costituzione. Dopo esser stata per anni l'ariete bipartisan con cui sfondare, verso il basso (sempre verso il basso), le rigidità salariali e contrattuali, oggi, sull'orlo del baratro, è solo un' insopportabile orpello arcaico. Ci vuole flessibilità in uscita, un finto contratto unico che non elimina la miriade di contratti precari istituiti dalla legge-Biagi, poi forse, Bonanni permettendo, qualche briciola per i disoccupati, chiamarlo reddito di cittadinanza sarà quasi un insulto a questa pretesa nobile.

Ma Monti non smette di correre per l'Europa per un motivo ancora più importante: salvarla, l'Europa. Salvarla da chi? Dalla recessione, dalla fuga dei capitali, dal credit crunch, dal default degli Stati sovrani, dalla fine dell'euro. In una parola: salvarla dalla Germania. Come è possibile che il paese che più ha beneficiato della moneta unica, estendendo enormemente il suo export, sia oggi l'avversario più temibile dell'Europa stessa? I motivi sono chiari, anche se non troppo evidenti: l'export tedesco ha preso un'altra direzione, Brasile, Cina, India, chiaramente Russia. L'asse delle relazioni commerciali tedesche si è completamente spostato e, con esso, anche gli interessi geo-strategici: come leggere diversamente l'avversità della Germania al conflitto Nato in Libia? La Germania pensa di potercela fare anche da sola, magari con un nuovo euro che riguardi oltre lei l'Austria, l'Olanda e gli altri paesi del nord, libero dai paesi irresponsabili, quelli che oltre ad essere indebitati non crescono più. Il fatto che anche la Francia, nella testa della Bundesbank (ma anche dei mercati finanziari), rischi questa fine, la dice lunga sulla drammaticità inedita della fase che stiamo vivendo. Monti è in accordo con Draghi e con Visco, dopo l'accordo del 9 dicembre, e l'impegno dei 26, senza la Gran Bretagna, a costituire una politica fiscale comune, ci vogliono due passaggi ulteriori: trasformare la Bce in una vera banca centrale, capace di stampare moneta e di essere, dunque, prestatrice di ultima istanza; la socializzazione del debito attraverso l'istituzione degli eurobond. Sembra assurdo dirlo, ma la pensa così anche il Financial Times. E la Germania non accetterà.

Ignazio Visco sostiene che il problema della Germania sia la sua memoria storica: l'incubo dell'iper-inflazione della Repubblica di Weimar, la rampa di lancio di Hitler e del nazismo. Con Foucault e il suo preziosissimo corso sul neoliberalismo (Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979) propongo un'altra ipotesi: la Germania sta usando la crisi per imporre il trionfo assoluto  dell'«economia sociale di mercato» nella scena europea, quel modello economico e giuridico, prima che politico, che ha contrassegnato la sua storia a partire dal secondo dopo-guerra. Se nel 1948 il problema della Germania federale era costruire uno Stato e la sua legittimità a partire dal mercato, dalla libera concorrenza e dallo sviluppo economico, oggi si tratta di fare la stessa operazione con l'Europa. Il dogma intoccabile della stabilità dei prezzi e il pareggio di bilancio devono determinare il processo costituente europeo, non c'è spazio per nient'altro e la crisi è lì a ricordarci questo. Chi non è in grado di stare al passo con questo processo sta fuori dall'Europa o ne fa un'altra, priva della locomotiva tedesca. Voi direte che questo è da sempre il progetto tedesco: dal Trattato di Roma del '57 a quello di Maastricht del '92 i dogmi della concorrenza e della moneta hanno contraddistinto fin dall'inizio la fragile costruzione comunitaria. Ma oggi che i nodi sono venuti al pettine e i differenziali fiscali e di produttività hanno aperto il fianco all'iniziativa degli hedge fund, proprio oggi è necessario lo sfondamento finale, affinché l'Europa sia tedesca, meglio, sia un'istituzione politica sovranazionale che ha il compito di favorire, con una «governamentalità attiva», le banche, il mercato e la concorrenza. Che tutto questo porti con sé una recessione drammatica, sembra non interessare la Germania, semmai la recessione riguarda i Piigs. Ma se la recessione colpisce anche la Francia e i Brics smettono di crescere? Il baratro, sicuramente il baratro.

Monti è un uomo di destra e anche lui vuole l'economia sociale di mercato. Farà del tutto perché questo sia questo il nuovo destino italiano. D'altronde anche Napolitano ha ammesso che fin dal '48 Einaudi e con lui la Banca d'Italia, nonostante la brutta parte della Costituzione relativa ai rapporti economici (gli articoli 41-42-43 in primo luogo), hanno definito questa direzione di marcia per il Belpaese. Purtroppo il trionfo del New Deal e del piano Beveridge, le culture cattoliche e marxiste, le lotte operaie e studentesche hanno differito l'impresa, ma poi, piano piano, tutto s'è risolto. Questo Napolitano, il custode della Costituzione. Insomma, Monti e Napolitano vogliono ciò che vuole la Merkel, ma non vogliono le condizioni della Merkel, perché l'Italia non ce la fa e non può farcela. Ma anche loro remano verso il baratro, perché la soluzione neoliberale alla crisi non ha futuro e di austerità si muore.

Il futuro dell'Europa dipende dai movimenti, dalla loro capacità di costruire un rapporto di forza  a loro favorevole con la governance finanziaria. Costruire l'Europa oggi significa imporre nuove regole per la finanza, la Tobin tax e una divisione netta tra le banche di investimento e quelle commerciali. L'Europa può sopravvivere solo con una politica fiscale comune e un rinnovato welfare transnazionale: reddito garantito, una rendita sociale che funzioni come elemento distributivo e anche come volano per una crescita eco-sostenibile. E le risorse? Non basta la tassazione delle transazioni finanziarie e monetarie, ci vuole un audit pubblico (e antagonista) dei debiti sovrani, affinché vengano onorati i debiti legittimi e non vengano pagati quelli illegittimi, contratti con le banche e i grandi fondi privati di investimento. Sembra strano dirlo, ma occorre avere l'ambizione di porsi lo stesso problema costituente che si stanno ponendo i mercati, rovesciandone il segno. O la borsa o la vita, dice il ritornello, o il mercato o la vita, occorre parafrasare, con la speranza che il nostro «desiderio di perseverare nell'esistenza» sia più forte di ogni miraggio economico. 

(Roma 6.01.2012)

* Direttore scientifico del Centro studi per l'Alternativa comune