With or without you

25 / 10 / 2011

Sono passati circa 10 giorni dalla manifestazione del 15 ottobre. Tanti hanno scritto ed analizzato. Noi abbiamo preferito leggere molto ed ascoltare. Leggere i tanti contributi, alcuni condivisibili, altri meno, altri ancora pessimi. Ascoltare soprattutto cosa avevano da dire quelle reti sociali in cui siamo impegnati quotidianamente: gli studenti delle scuole, gli studenti delle università, i cittadini delle comunità resistenti, i precari e gli intermittenti. Quello che segue dunque è un’analisi politica che tiene conto delle impressioni e degli interventi di tutte le assemblee che si sono succedute in questa settimana nelle reti sociali in cui siamo appunto impegnati.

Il 15 ottobre 2011 nasce come una mobilitazione internazionale, lanciata sulla scia dei fenomeni di mobilitazione contro la crisi e le politiche di austerità che si sono sviluppate in tutto il mondo. Dalla Spagna a Wall Streets, dalla Grecia al Cile, le mobilitazioni contro la crisi globale hanno affermato la centralità dell’opposizione ai dettami della Bce e della Federal Reserve come unica possibilità di uscita da un processo di impoverimento globale, di sottrazione dei diritti sia sociali e civili che sindacali, e alla sottrazione di sovranità operata dagli organismi sovranazionali verso la dimensione della politica e della governance degli stati nazione. Un vento che è arrivato nel contesto italiano che risultava e risulta essere più complesso ed anomalo rispetto al resto dell’Europa e del contesto statunitense o latinoamericano. Nel nostro paese la manovra finanziaria agostana ha aperto una stagione di definitivo sovvertimento delle regole d’ingaggio nel conflitto capitale/lavoro. La distruzione del contratto collettivo nazionale, i tagli agli enti locali che smantellano le politiche sociali ed i servizi alla persona a cominciare dalla sanità fino a trasporti, la libertà di licenziare ed un aumento progressivo, in forza di tali misure, della precarizzazione dell’esistenza intesa in tutta la sua fenomenologia biopolitica, ci disegnano un contesto in cui la necessità di opporsi alle politiche di austerità calate dall’alto dalla Bce ci impone la necessità di immaginare un processo di costruzione di alternativa politica, sociale e culturale vera nel paese.

Abbiamo inteso da subito partecipare alla costruzione di ambiti di discussione, confronto e promozione dell’iniziativa politica a intorno al tema dell’alternativa. Il contenitore di Uniti per l’alternativa è stato per noi una scelta precisa in termini di ragionamento complessivo intorno alla fase, in termini di costruzione di relazioni politiche con tutti quelli che si ponevano le nostre stesse domande. Come sempre abbiamo provato a fare, intendiamo il camminare domandando come un esercizio positivo di costruzione di una linea politica in cui l’incontro con i simili e gli affini avviene sempre in una vocazione maggioritaria. Abbiamo smesso di porci il problema di parlare a chi si autodefinisce movimento preferendo l’indirizzo di parlare alla società tutta. Innanzitutto perché pensiamo che i movimenti siano cosa diversa dalle realtà organizzate. I movimenti si danno infatti su processi di mobilitazione sociale e produzione del conflitto che costruiscono luoghi politici e fisici in cui il confronto sia orizzontale e vero. I movimenti determinano da soli la loro esistenza, le loro pratiche, i loro metodi di confronto. I movimenti sono sempre di natura maggioritaria. La relazione tra le strutture organizzate è altra cosa: troppo spesso è politicista, intrisa di tatticismo e scelte che sono poco strategiche. L’epifania dei movimenti impone invece scelte strategiche. Per noi diventa dunque una scelta strategica fondamentale il fatto di parlare ai tanti e di costruire una condivisione di obiettivi, pratiche, dando insieme forme all’alternativa. L’alternativa per noi è intesa come un processo costituente e plurale, quindi non come una dimensione già data e definita. L’alternativa non può certo passare esclusivamente attraverso i processi elettorali, ma, seppure deve tenerne conto, deve essere innanzitutto una dinamica di costruzione dal basso, dentro i tessuti sociali, attraverso il conflitto, di modelli di società altra. L’interrogativo più importante davanti alla crisi globale per noi resta uno e sempre lo stesso : oltre l’esistente, che mondo vogliamo?

Certo non è il socialismo reale. Per noi è un processo più complesso per il quale siano punti irrinunciabili una nuova idea di redistribuzione della ricchezza contro lo sfruttamento, la difesa dei diritti sociali, civili e sindacali, la riconversione ecologica agita come antitesi di questo modello di sviluppo, il governo dal basso dei beni comuni, la fine della stagione della precarizzazione del lavoro (dalla legge Treu a quella Biagi). Un mondo fondato sulla libertà dei singoli e delle comunità e non sul profitto dei pochi.

Dal 15 ottobre noi c’aspettavamo l’affermazione di un movimento reale nel paese. C’aspettavamo l’inizio di una fase di accumulo di consenso intorno alle proposte dei movimenti, la condivisione piena nel paese dell’individuazione del nemico nella Bce, nelle politiche di austerità, oltre che nel morente governo Berlusconi. Tutto ciò che è avvenuto prima del 15 ottobre, dai Draghi ribelli al sanzionamento delle agenzie di rating, ha contribuito a costruire quella dimensione in cui anche le pratiche, agite sui singoli territori, divenissero attrattori di consenso verso la giornata di mobilitazione nazionale. Il 15 ottobre, per noi, doveva essere l’apertura di una fase di movimento reale, da riportare in tutto il paese, da implementare raccogliendo pienamente lo spirito, le modalità e la forza di ciò che arrivava da #occupywallstreet, dagli indignados spagnoli, dalle mobilitazioni degli studenti in Cile. Un vento sociale che ci sembra porsi il nostro stesso interrogativo : che mondo vogliamo ? Ponendosi in questo modo sul terreno della costruzione dell’alternativa, distante, lontana, incompatibile con una visione del conflitto in cui lo “smash” risulta propedeutico all’assenza di possibilità di costruzione di un futuro diverso, proponendosi soltanto come sinonimo di guerra civile permanente, che non agisce mai su terreno della progettualità e dell’uscita da questo modello di sviluppo. Solo quella fase di accumulo avrebbe potuto dare forza e vocazione maggioritaria a quella che possiamo definire un generoso attivismo messo in campo dalle realtà organizzate. I risultati francamente deludenti dello sciopero del 6 settembre e di quello dei sindacati di base, era stato assorbito o con silenzio oppure con una esaltazione testimoniale della presenza di un insorgenza sociale nel paese che in realtà non c’era e che magari dopo il 15 avrebbe avuto modo di cominciare a crescere.

Ecco, per noi quelle centinaia di migliaia di persone hanno dimostrato la disponibilità ad affermare l’esistenza del movimento contro la crisi nel paese, si sono misurate con l’interlocuzione con la politica, si sono misurate sul come condividere le pratiche e la sostanza di una fase nuova.

Il 15 ottobre è invece stato un disastro, nonostante l’enorme partecipazione in termini numerici ha mortificato la presenza di centinaia di migliaia di persone. Cittadini, operai, lavoratori, studenti, in una composizione sociale e politica diversa rispetto a quella del 14 dicembre 2010, quando fu il movimento degli studenti (reale, vero, conflittuale e maggioritario) a caratterizzare la composizione della giornata. Una composizione sociale che ci immetteva subito sul terreno della ricomposizione di classe, passaggio fondamentale per il consolidamento e la sedimentazione nella società di un movimento. Ci siamo trovati davanti a chi ha deciso che quella giornata non dovesse parlare a tutti e tutte nel paese. Elementi che, con orgoglio, rivendicano il fatto di aver impedito che quel pezzo di paese si confrontasse sul tema dell’alternativa.

Esiste un tema serio. E’ il tema della democrazia nella scelte delle pratiche all’interno dei movimenti. Una parte minoritaria, che non vuole parlare a nessuno se non a se stessa, autocompiacendosi in un turbinio morboso di estetica machista, ha sovradeterminato tutti/e gli altri/e.

Per noi è inaccettabile. Abbiamo imparato dalle comunità resistenti cosa vuol dire la condivisione delle pratiche tra i tanti, le sole che abbiano un efficacia rispetto ai processi reali. Lo abbiamo imparato a casa nostra, a Chiaiano e nelle altre comunità resistenti, ne abbiamo avuto conferma a Vicenza ed in Valle di Susa, anche questa domenica quando i valsusini in migliaia hanno violato la zona rossa e hanno tranciato le maglie delle reti del cantire. La condivisione delle pratiche, la costruzione di consenso che produce la legittimità di esse, è un metodo su cui non siamo disponibili ad accettare nessun tipo di prevaricazione. Abbiamo imparato dal movimento degli studenti come anche le pratiche radicali, agite da una composizione giovanile, possano costruire intorno ad esse una legittimità ampia ed una riproducibilità diffusa. Noi veniamo dalle esperienze dei centri sociali, crediamo nella disobbedienza sociale come pratica collettiva e condivisa, pensiamo che la radicalità delle pratiche debba essere commisurata alla riproducibilità moltitudinaria delle stesse ed alla capacità di costruire consenso intorno al movimento. Ed è, forti di questa provenienze, di questo dna, che il tema violenza/non-violenza, non lo poniamo neppure.

Il 15 ottobre non abbiamo visto questo. L’unica eccedenza che si è prodotta è stata la partecipazione e la volontà di arrivare a Piazza S.Giovanni. Pensiamo che chi era in piazza il 15 ottobre era lì innanzitutto perché voleva starci e voleva testimoniare di non voler pagare la crisi, prodotta dalle banche. E’ lo sviluppo di un processo più lungo che può portare ad un utilizzo delle pratiche differenti, mantenendo sempre il metodo della condivisione. Un movimento doveva affermarsi e autorappresentarsi. Le fasi di utilizzo di altre pratiche erano ancora da venire, e nessuno poteva permettersi di deciderle in anticipo. Non c’è nessun parallelismo possibile né con il 14 dicembre del 2010 né con i movimenti che si sono dati in questi anni.
Sulle pratiche la pensiamo così. Dopo il disastro del 15 ottobre pensiamo che bisogna rompere ogni tipo di ambiguità. O si è chiari sul metodo oppure no. Se si è nell’ambiguità, si lascia spazio a pericolosi fenomeni di restrizione degli spazi di agibilità dei movimenti. Per questo pensiamo che oggi questo per noi sia un discrimine. Decidiamo come e con chi tenere le relazioni in base a questo metodo, ritenendo al tempo stesso deleterio chi invece pensa il contrario. Proviamo sconforto nel vedere come nel resto del mondo il 15 ottobre abbia aperto una fase nuova in cui i movimenti sono più forti, mentre in Italia siamo piombati in una fase repressiva con poca legittimità nel paese.
Ci sembra chiaro che la dimensione della risposta alle cariche di Piazza S.Giovanni debba essere slegata dal contesto di Via Labicana e Via Cavour. Quando non ci si pone il problema della lettura di ciò che si fa, la repressione ha gioco facile per provare ad annientarti. I caroselli di piazza S.Giovanni sono stati criminali e la difesa di chi era in quella piazza è legittima. Il richiamo al “ci poteva scappare il morto” di Maroni ci lascia dire che se qualcuno ti vuole ammazzare bisogna difendersi. E quel qualcuno aveva dei blindati enormi ed era scagliato sulla folla a tutta velocità.
Il dibattito sulle pratiche introduce da parte di qualcuno una dicotomia che riteniamo infantile. Rabbia/indignazione vengono posti nei ragionamenti come due sentimenti dicotomici. Nulla di più puerile. Il problema non è mai di forma ma sempre di sostanza. Il tema dell’indignazione è stato usato dai movimenti per ampliare il consenso e la partecipazione intorno alla mobilitazione del 15. Francamente nulla di più legittimo e semplice da fare. La rabbia e l’indignazione non hanno dicotomia. Ma al giochetto bambinesco preferiamo definire la nostra rabbia, come una rabbia degna così come ci insegnano gli zapatisti, come abbiamo visto fare ai movimenti reali, alle comunità resistenti, a chi fa del metodo della condivisione, della costruzione di legittimità e consenso e della vocazione maggioritaria, del parlare ai tanti/e, un tratto caratteristico.
Rigettiamo anche alcuni toni da sociologia spicciola o da antropologi allo zoo.
Siamo sempre stati molto attenti alla fenomenologia sociale che si sviluppa nei conflitti, sia a casa nostra, sia nel paese. Siamo sempre stati attenti a comprendere la composizione sociale che agisce i conflitti. Allo stesso modo abbiamo colto sempre sfumature interessanti da queste letture, utili però per contribuire a costruire una visione sull’indirizzo dei movimenti. Ma solo a questo. La sociologia non sostituisce la politica. Mai.
Francamente, noi siamo nella terza città d’Italia, senza dubbio la più depressa socialmente ed economicamente, veniamo da un centro sociale di periferia, abbiamo un composizione del quadro militante e della nostra area sociale che viene dalle periferie. Sappiamo benissimo che se alla “lotta contro il sistema” non si unisce l’esplicitazione di quale mondo vogliamo per uscire dalla povertà, non può esistere nessuna emancipazione.
L’emancipazione di quelle sacche sociali passa attraverso l’affermazione di una società alternativa. La beozia non cambia il mondo. L’emancipazione sociale sì.

Quindi permetteteci di non provare alcuna fascinazione per gli autodefiniti “smasher di periferia”, permetteteci di non preferire mai l’estetica alla sostanza. Permetteteci di definire il ruolo dell’intervento politico nelle periferie delle metropoli fuori dall’assunzione spicciola e completa dei comportamenti sociali che quel mondo produce. L’esclusione sociale è frutto delle dinamiche neoliberiste. Anche i toni in cui essa si manifesta lo sono. Noi siamo contro il neoliberismo, per questo pensiamo che bisogna agire sul piano biopolitico e solo attraverso di esso si può affermare il cambiamento. Assumere di netto quegli atteggiamenti in termini neutrali, è controrivoluzionario.

Lo scenario che viene fuori dal 15 ottobre rischia oggi di distruggere quello che faticosamente e con grandissima generosità, con tante realtà organizzate, avevamo contribuito a costruire. Non parliamo solo degli sforzi fatti da Uniti per l’alternativa ma anche di quelli fatti da tutti gli altri pezzi del coordinamento 15 ottobre e che trova punti di sintesi sulla disamina della giornata. Siamo finiti lì dove proprio non dovevamo finire, nella stretta repressiva, nell’assurgere del tema violenza/non violenza come discernente la qualità politica dei movimenti ( solo il non violento è bello!), una dimensione che, viste le misure repressive, potrebbe metterci in una angolo a difenderci da misure straordinarie in un calderone in cui magari ci potrebbe finire anche il Pd, soggetto che proprio il movimento avrebbe dovuto travolgere. Il divieto alle manifestazioni nella capitale, le ipotesi di leggi speciali e di estensione del Daspo alle manifestazioni politiche, le fidejussioni a garanzia dei cortei, per non parlare del parallelo con la legge Reale che ha distrutto una generazione tra carcere, omicidi di stato e scelte sbagliate delle organizzazioni, spostano profondamente il ragionamento politico sul piano della forma, obliando le divaricazioni politiche che ci separano di fatto da Bersani e Camusso. Siamo disarmati davanti ad un attacco senza precedenti al diritto al dissenso. Fino anche la Fiom ha difficoltà oggi a recuperare quegli spazi distrutti come le utilitarie in fiamme su Via Cavour, figuriamoci le realtà più piccole. In tutto questo le condizioni per far sviluppare un movimento vengono ridotte all’osso.

Abbiamo assistito ad un fenomeno di delazione di massa che si è sviluppato attraverso i media main stream ma anche attraverso i social network da twitter a facebook, fenomeno che è stato aiutato da una giornata che risulta illeggibile ai più. Toni di una violenza inaudita in un paese in cui la realtà del carcere e della repressione sono sconosciute ai più e dunque di facile semplificazione nella espressione di violenza verbale. L’operazione di Repubblica e Corriere della Sera fa stare tranquilli i poteri forti, prova ad annullare la possibilità di dissenso, ponendo tutto sul piano dicotomico tra vandalismo fine a se stesso e adesione passiva ai dettami della Bce, e si esemplifica perfettamente con Angeletti della Uil che dice “meno cortei ci sono e meglio è”. Se oggi avessimo avuto un 15 ottobre diverso anche i media main stream avrebbero dovuto fare i conti con il consenso e la legittimità che il movimento avrebbe guadagnato. Mentre Repubblica spara nel mucchio e ripropone il tema violenza/non violenza (spauracchio da agitare davanti alle insorgenze sociali a causa della mancata storicizzazione degli anni settanta in Italia) il Corriere della Sera prova a fare un’operazione ancora più feroce, ovvero quella di generare una macchina del fango nei confronti di quella parte di realtà organizzate che lungi dall’assumere la non violenza tout court come dogma, provano ad avere una vocazione maggioritaria nel paese interrogando la politica e costruendo anche attraverso di essa l’alternativa.

Siamo messi male. Ma dobbiamo provare ad uscire fuori dall’angolo.

Dobbiamo riprendere quel lavoro che con grande generosità in tanti, anche da posizioni differenti, avevamo iniziato. Così come Uniti per l’alternativa anche altri contenitori avevano, con letture e prospettive diverse, provato a stimolare la crescita del movimento. Oggi l’acqua del mare è uguale per tutti. Dobbiamo riprenderci le piazze, dobbiamo riprendere le lotte dai territori ai luoghi politici come le università, le scuole e le fabbriche, dobbiamo riaffermare l’esistenza di un pezzo del paese incompatibile con la Bce e con l’austerità. Dobbiamo esporre il viso ed il corpo al vento di #occupywallstreet ad esempio, provando a far vivere in maniera intelligente la giornata del 11.11.11. Nel resto del mondo come detto il 15 ottobre è stata altra cosa, per questo è nato un nuovo appuntamento internazionale che in Italia si potrebbe agire sui territori diventando uno dei momenti da cui far passare la voglia di riaffermare l’esistenza del movimento, stavolta con maggiore intelligenze e assoluta indisponibilità alla prevaricazione su metodi e pratiche. Mentre bisognerà seguire l’evolversi dei divieti di manifestazione nella capitale, il modo migliore per uscire dall’angolo è non stare fermi. Le lotte degli studenti devono tornare dentro scuole ed università, guardando alla data del 17 novembre, le lotte delle comunità resistenti devono ritessere i fili del ragionamento e riproporre protagonismo sociale moltitudinario attraversando anche la manifestazione nazionale del 26 novembre prossimo che reclama l’adeguamento di governo ed enti locali alla vittoria dei referendum sull’acqua. Insieme dobbiamo provare a intrecciare i piani. L’esistenza di un movimento reale contro la crisi che abbia ampio consenso nel paese, è una condizione senza la quale non si può costruire la dialettica con la politica sul terreno dell’alternativa. Una condizione che per noi è essenziale anche rispetto alla dialettica con il mondo della politica istituzionale. D’altronde come detto anche la dialettica con la politica istituzionale sul terreno dell’alternativa non può che passare attraverso il conflitto. In fin dei conti non chiediamo piccoli aggiustamenti o velleitari modifiche agli assetti sociali esistenti, ma uno stravolgimento radicale del modello di sviluppo e di redistribuzione delle risorse, e sappiamo che questo non può avvenire in modo pacificato. Scendere sul terreno della dialettica con quel mondo per noi si esplicita nel rimanere fuori dai partiti, ma solo se il movimento è forte possiamo percorrere quella strada mantenendo salda l’autonomia dei movimenti e riuscendo ad incidere.

Digerito il 15 ottobre, dobbiamo riaprire spazi con chi sta ai patti e chi è fuori dalle ambiguità. Vogliamo però porci fortissimamente il tema di come cambiare questo paese, di essere incisivi, di rompere il meccanismo di alternanza Pd/Pdl per decomissariare il paese, per rispondere alla crisi di sovranità con una idea forte di democrazia. Proprio quella democrazia che è andata a braccetto con il neoliberismo per decenni e che oggi proprio il neoliberismo vuole distruggere. Davanti alla crisi di sovranità così esplicitata, e alla modificazione sostanziale delle metropoli post-moderne, non sappiamo se esiste di fatto una società civile a cui rivolgersi, intesa nelle declinazioni novecentesche che abbiamo già conosciuto da Gramsci a Weber. Sappiamo che però c’è bisogno di alleanze tra quelli che la crisi la stanno pagando in prima persona, per rispondere all’offensiva di banche, agenzie di rating e creditori. E’ il tema di questa alleanza che sta al centro delle prossime mosse che dovremo fare. Su tutto questo siamo pronti a confrontarci con chi era a Roma il 15 ottobre, con chi era a Piazza Esedra, con gli studenti che erano a Piazza Aldo Moro, con chi si è difeso a Piazza San Giovanni, con chi ha portato il corteo fino al Circo Massimo ed oltre, camminano fino a tarda sera per le strade della capitale. A tutto il resto è lasciata l’arida strada del conato identitario.

Laboratorio Occupato Insurgencia, Napoli

Ottobre 2011