E’
chiamata la città dei due mari. Il Mar Piccolo, specialmente, che in
un tempo non troppo lontano era battuto dai pescatori giorno e notte,
ed era ricoperto, quasi per intero, di allevamenti di cozze. Quegli
stessi mitili ora avviati alla distruzione forzata, a causa
dell’avvelenamento prodotto, in tutto il corso del Novecento, dagli
scarichi dell’arsenale militare. Già all’inizio del secolo,
infatti, la Marina militare, avviando la costruzione di una grande
muraglia a protezione e difesa del cosiddetto interesse nazionale
privò la città dell’affaccio sul mar Piccolo che allora era
caratterizzato dalla presenza di sorgenti di acqua dolce sottomarine
di origine carsica note come "citri" che svolgevano una
funzione regolatrice del sistema biomarino, limitando, così, gli
aumenti di salinità e di temperatura durante il periodo estivo e
rifornendo costantemente il sistema di una, non certo trascurabile,
massa d’acqua ( circa un milione di tonnellate di acqua al giorno).
1
Miscelando
acqua dolce e acqua salata, dunque, e attraversato da correnti ben
temperate, il mar Piccolo era dotato delle condizioni ideali per
favorire la crescita dei pesci. Ma in quel bacino d’acqua che un
tempo carezzava la città e la sfamava, non c’è soltanto dal 1889
l’arsenale della marina militare italiana. C’è infatti,
anche, la S.a.r.a.m, acronimo di scuola addestramento reclute
aeronautica militare, ubicata sul secondo seno del Mar Piccolo,
realizzata dalla Marina militare negli anni 1914-15 per ospitare la
stazione idrovolanti che dal 1923 “appartiene”, è proprio il
caso di dirlo, all'Aeronautica Militare, divenuta infine dal 1°
novembre 1977, la sede della Scuola Addestramento Reclute. Ma non
solo, perché questa base ospita anche il centro operativo Namsa Sud,
organismo della Nato che si occupa di fornitura, manutenzione,
approvvigionamento, trasporto, assistenza tecnica per circa 30
sistemi d'arma e apparati delle nazioni che aderiscono al sistema di
difesa Nato, e a cui l'Aeronautica Italiana assicura la vigilanza
esterna e l'assistenza logistica. Si tratta in sostanza, di un
deposito sotterraneo di rifornimento: il più grande del Sud Italia,
che serve tutte le basi aeree dell’Italia meridionale e viene
periodicamente rifornito con petroliere che entrando nel bacino del
mar Piccolo espongono quelle acque, e i cittadini stessi, a gravi
rischi.
Ma quel lago salato, da cento anni, ormai, è una zona
quasi totalmente militarizzata.
E’un’area sottoposta a
segreto militare, una zona di interesse nazionale e dell’alleanza
atlantica. Pertanto non è possibile sottoporre quel particolare
specchio d’acqua alle analisi delle acque per poter rilevare
eventuali tracce, di prodotti chimici e residui di idrocarburi,agenti
inquinanti e cancerogeni, ma anche di eventuali rifiuti tossici e
speciali.
Ai fanghi inquinati dei fondali in Puglia c'è da
stare attenti. La scorsa settimana i carabinieri del Noe di Lecce
hanno scoperto che 20 mila tonnellate di fanghi del dragaggio del
porto, in particolare dell’area ex Belleli, sono stati stoccati
illecitamente e tombati nelle campagne tra Brindisi e Taranto,
sepolti tra gli ulivi, con il loro concentrato di piombo e cromo.
L’altro mare, il Grande, rimasto nell’immaginario collettivo
“come
il luogo della sfida e del pericolo: il serbatoio dei sogni e delle
paure, la strada senza ritorno per quella minoranza di marinai che
hanno levato l’ancora per lidi sconosciuti, salutati con invidia
dai tanti che sono rimasti attaccati allo scoglio antico”
2,
è come se fosse stato nascosto, in larga parte, dalle numerose
servitù militari presenti. Anche, qui, una base navale a comando
italiano dotata di alcune infrastrutture Nato, come quelle per il
rifornimento. Iniziata a costruire alla metà degli anni ottanta,
mentre la “cortina di ferro” che separava Europa occidentale ed
orientale stava per crollare e la guerra fredda per finire.
Ed
anche il modello di difesa Nato stava per mutare. Fu così, dunque
che a Taranto si impose la costruzione della nuova base militare,
atta ad ospitare l'unità dell'Alleanza Atlantica, inclusi i
sottomarini a propulsione nucleare. Nonostante l'energia nucleare sia
stata bandita dalle navi civili per la sua intrinseca pericolosità,
ed i reattori di cui sono dotati i sommergibili siano del tutto
identici a quelli delle centrali nucleari. Sono solo più piccoli,
con minore potenza, ma comportano allo stesso tempo un maggiore
rischio di fuoriuscita di radioattività, in quanto sono meno
schermati e protetti, per poter mantenere la leggerezza e la
manovrabilità del mezzo. Le poche indagini fatte fin ora segnalano
una presenza, seppure debole, di Cesio radioattivo nei fondali. Ma
anche qui, il segreto militare di fatto ha sempre impedito i
monitoraggi necessari al rilevamento dei livelli di radioattività
nelle acque, nonostante, appunto, diversi studi indipendenti abbiano
già rilevato tracce di Cesio 137, che sono imputabili solo al
transito di unità militari a propulsione nucleare.3
Senza pensare, poi, che i reattori dei sottomarini a propulsione
nucleare, sono soggetti ad urti e scontri, come è già avvenuto, in
realtà, tante altre volte nella storia.
Con cosa? Con una delle
circa 350 petroliere che ogni anno giungono nel porto di Taranto4.
Dato che sul lato est di Mar Grande, si trova la grande raffineria
Eni che affina il petrolio che giunge dalla Basilicata. Lungo la
Strada Statale 106, la via del sole, direttrice laterale che
congiunge l’asse viario dello Jonio con l'Adriatico, e che collega
Taranto a Reggio Calabria. Due luoghi urbani dove si specchia il
passato e il presente del mito della modernizzazione industriale,
consumata e fallita nell’estremo lembo del meridione italiano. E ci
mancò davvero poco che la Gas Natural ci realizzasse anche un
rigassificatore, nel porto di Taranto, proprio a circa 700 metri da
quella raffineria. Solo la potenza di un movimento, allora, erano i
primi anni del 2000, riuscì a bloccare quell’ennesima opera
inutile ed impattante. In quel mare che i tarantini chiamano il
“Grande”, e che si apre a perdita d’occhio oltre il ponte
girevole, (la lingua di ferro che collega la città vecchia alla
nuova) di cui la città non ne detiene praticamente più la
sovranità5.
Il porto ed i suoi traffici regnano sul mare di Taranto.
A fare la parte del leone c'è la società armatoriale taiwanese
Evergreen, che, impiegando poco più di 700 lavoratori a termine, dal
2001 a oggi ha visto i suoi bilanci crescere vertiginosamente. E da
qualche mese, allo stesso tempo, precipitare con la stessa
repentinità, in seguito al blocco delle navi cariche di minerali
dirette all’Ilva. Il 10 aprile prossimo, intanto, a Roma, nella
sede del Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti si terrà la
conferenza dei servizi che dovrà dare l’ultimo, definitivo,
consenso ad una maxi opera che rischia di prefigurarsi come
l’ennesimo scempio ambientale. Un progetto presentato nel 2008, che
a Luglio 2012 ha ottenuto il parere positivo della commissione V.i.a.
- la valutazione di impatto ambientale - e della V.a.s. - la
valutazione di impatto strategico - da parte del Ministero
dell’Ambiente, per installare in mar Grande, a circa 100 m della
costa, tra punta rondinella e la foce del fiume Tara, dieci aereo
generatori posti su torri alte ben 110 m, dalla potenza complessiva
di 30 megawatt di energia elettrica. A completare l'opera la
realizzazione dei relativi cavi sottomarini per la conduzione
dell’energia che, immessa nella rete nazionale , dovrebbe
alimentare proprio il porto mercantile. Un progetto da circa 63
milioni di euro, per la cui realizzazione, sia la Regione Puglia che
la sovrintendenza ai beni paesaggistici e per ultimo anche il comune
di Taranto ( parere non vincolante) hanno espresso parere negativo.
Ma il Ministero, a sua volta, ha già respinto le opposizioni degli
enti locali, e così la maxi opera si farà.
Non va certamente
meglio lungo la costa ionica – salentina, in provincia, un mare in
massima parte cristallino ed incontaminato ma la cui ricchezza viene
continuamente messa a rischio dalla pessima gestione di depuratori e
scarichi a mare da parte di istituzioni e amministrazioni pubbliche.E’
di qualche giorno fa la notizia, che la holding facente capo all’ex
senatore del psi Nicola Putignano già coinvolto in qualche vicenda
giudiziaria da cui è passato comunque indenne, si è aggiudicato
l’appalto per la costruzione di un depuratore, la cui realizzazione
è stata fortemente contestata dalle comunità locali, e che
servirebbe alcuni comuni della provincia orientale, Sava, Manduria,
Avetrana e le loro rispettive marine. Un’opera avversata, dunque,
perché prevede lo scarico dei reflui a mare. Che danneggerebbe per
sempre un’oasi incontaminata, un’area di interesse comunitario
come la fascia costiera denominata Torre Colimena facente parte
dell'agro del Comune di Manduria. Preoccupa che la giunta regionale e
soprattutto l’ex Assessore alle Opere Pubbliche, Fabiano Amati, non
abbiano ascoltato minimamente il grido di dolore delle comunità
locali consentendo un vero è proprio scempio. Sia il presidente
della Regione Puglia, che l'Acquedotto Pugliese si sono sempre
rifiutati, infatti, di ritirare il bando per la costruzione del
depuratore consortile di Sava e Manduria, che prevede, appunto, lo
scarico a mare dei reflui. L'acquedotto pugliese e il presidente
Vendola hanno sostenuto fino alla fine, che lo scarico a mare è
l'unica soluzione possibile, in barba alla volontà degli enti
locali, alle direttive della comunità europea sul rispetto
dell'ambiente, sulla balneabilità delle acque, ed infine, sul
trattamento delle acque reflue. E tutto per permettere all’azienda
del potentissimo ex senatore di fare scempio della nostra costa
orientale, dopo che ormai più di dieci anni fa ha speculato su
quella occidentale. All'epoca Putignano con i soldi di un
finanziamento comunitario pari a circa duecento miliardi di lire,
iniziò l’edificazione a Castellaneta del progetto “Principessa”,
dal nome della pineta "Principessa”, una grande area rurale,
al limite della costa, al centro dello Jonio. Il progetto prevede la
nascita di hotel a cinque stelle, villaggi residence, decine di
ristoranti, campi da tennis ed anche un campo da golf, il
tuttoedificato al confine della riserva biogenetica Stornara. Tutto a
beneficio della speculazione edilizia.
Sempre nella provincia orientale, Lizzano, piccolo comune della provincia circondato da vitigni, ulivi, e da un mare cristallino. Un luogo che doveva essere un’oasi nella provincia avvelenata, ma che oggi presenta notevoli problemi ambientali, paragonabili, fatte naturalmente le debite proporzioni, a quelli della stessa zona industriale di Taranto.
La discarica Vergine sorge proprio su questo territorio. A complicare
il quadro ambientale del piccolo comune c’è anche qui, la
questione dello smaltimento acque reflue del depuratore consortile.
Che vengono convogliate nel canale naturale Li Cupi ed attraverso il
quale vengono scaricate, poi, proprio nel tratto di mare fiore
all’occhiello della marina di Lizzano denominato Il canale. Un
sistema di smaltimento, che dal 2009, ha però fatto registrare le
prime disfunzioni igienico-sanitarie. Un torrente naturale, il Li
Cupi, deputato alla sola raccolta delle acque piovane e che ha visto,
poi, crescere a dismisura la sua portata a causa dell’affluenza
degli scarichi provenienti dal depuratore. Causando grossi problemi
agli agricoltori, i quali sono danneggiati dallo straripamento
periodico del canale, che provoca l'allagamento costante dei terreni,
con ripercussioni sulle coltivazioni. Ai cittadini, che sono esposti
a pericolose contaminazioni della falda. E ai turisti, costretti alla
balneazione in acque che stando ad analisi effettuate
dall’associazione "AttivaLizzano", e contestate, però
dall’Arpa, conterrebbero alte concentrazioni di batteri fecali. I
diversi casi di gastroenteriti, dermatiti e infezioni cutanee
insorgenti nella popolazione, specie nel periodo estivo, costrinsero
nel maggio scorso il sindaco ad emanare un’ordinanza urgente con la
quale si dispose il convogliamento in deroga delle acque reflue in
falda, fino al 30 settembre di quest’anno. Solo un palliativo,
però, giunto anche tardivamente, che ha consentito parzialmente di
recuperare in extremis la stagione balneare, ma che non ha risolto i
problemi a monte.
Quella che abbiamo appena raccontato è la
storia di come hanno distrutto il mare di Taranto. Quella città che
non può servirsi, come vorrebbe, delle sue ricchezze marine, oltre
che già, di gran parte del suo territorio.
1 Cit. Il tempo del mare, catalogo dell’ esposizione permanente della miticoltura a Taranto. Materiali prodotti dal centro studi di documentazione e ricerca Le sciaje
2 Cit. Roberto Nistri, Taranto a vita bassa, Scorpione editrice
3 Cit www.globalproject.info/itNon solo Ilva. Il racconto di una provincia avvelenata
4 Dati ufficiali dell’assessorato alle risorse del mare del Comune di Taranto
5 Cit. Ornella Bellucci, “Il mare che non c’è” in il Corpo e il sangue d’Italia, minimum fax, 2007
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*Gaetano De Monte, 28 anni, giornalista pubblicista ed attivista dell' Archeo Tower Occupata. Attualmente collabora con il quotidiano “Taranto oggi”, il più odiato dall' Ilva. Si occupa di questioni ambientali, malaffare, politica e conflitti nella città più inquinata d'Italia per emissioni industriali