Aquí estamos, aquí siempre fuimos

Dall'occupazione di Insurgencia a StopBiocidio, passando per il movimento di Chiaiano. Dieci anni di movimenti alla riconquista dei territori

11 / 11 / 2013


UN FIUME IN PIENA


Il 16 Novembre Napoli sarà invasa da una delle più imponenti manifestazioni popolari degli ultimi anni. Un fiume in piena, come recita lo slogan di lancio, l'hashtag che sta invadendo la rete, l'ambizione spregiudicata che sta in testa alle centinaia di attivisti ed attiviste che stanno lavorando instancabilmente per vincere questa scommessa. Un fiume con centinaia di piccoli affluenti, che da mesi stanno già straripando in tantissimi comuni del nord della regione, su quelle terre appellate negli ultimi anni con mille mortiferi nomi: terra dei fuochi, paesi dei veleni, triangolo della morte.
Questa immensa presa di coscienza collettiva si respira dappertutto. Mentre bevi il caffè al tavolino di un bar di un quartiere popolare, mentre ordini un mobile ad una commessa dell'Ikea, mentre fai la fila alla posta.
Ovunque, la metropoli, parla, con rabbia e indignazione, di biocidio.
Bisogna vivere questi giorni campani strada per strada per capire fino in fondo come si traduce il portato collettivo di almeno quindici anni di lotte instancabili, in un contagio di sapere diffuso, reticolare, capillare che oggi non lascia scampo ad alcun populismo offensivo.
Ha probabilmente poco senso interrogarsi oggi su quale sia stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso saturo da troppo.
Se le ennesime dichiarazioni di un Ministro della Repubblica che, solo pochi mesi fa, ribadiva l'assenza di un nesso causa-effetto tra le malattie tumorali e il disastro ambientale campano, sostenendo che l'incremento spaventoso dei tassi di tumore fossero causati dagli stili di vita dei campani. Dichiarazioni che facevano eco a quelle identiche del ministro tecnico Balduzzi di qualche mese prima.
Se lo straparlare del super-pentito Carmine Schiavone , che negli ultimi mesi ci ha restituito il quadro di uno Stato più che assente, più che complice, vero e proprio protagonista di sversamenti ed avvelenamenti. Dichiarazioni che fanno ancora più rabbia se si pensa che il Ministro dell'Interno in quel lontano 1997 era proprio Giorgio Napolitano, figlio cinico di queste terre, che ancora una volta, in nome di equilibri di potere, è stato complice della secretazione di quelle carte.
O se piuttosto la semplice e meravigliosa sedimentazione di un lavoro costante di comitati, gruppi informali, cittadine e cittadini, spesso offesi da accuse di nimbismo, che hanno portato avanti senza posa battaglie anche durissime, in barba alle misure cautelari, alle denunce e al carcere.
Quello che ci consegna il presente è un'assunzione moltitudinaria e per questo imprevedibile di un termine, il biocidio, che serve a raccontare compiutamente l'assassinio indiscriminato delle forme di vita tutte, su un pezzo di territorio sconfinato, che giorno dopo giorno si allarga a macchia di leopardo a tutto il sud.
Non è un tema semplice da affrontare, lo abbiamo sempre saputo.
Siamo dinanzi ad un salto di qualità politico rispetto alle battaglie “vertenziali” contro i siti di stoccaggio, gli inceneritori o le discariche.
Ci sono voluti più di quindici anni per rintracciare un minimo comune denominatore attorno alla cosa più singolare che riusciamo ad immaginarci: la morte.
Non ci sono fabbriche dove si sono esalati gli stessi fumi, non c'è un accertato incidente nucleare. Per anni c'è stata solo la conta anomala degli scomparsi famiglia dopo famiglia, dolore dopo dolore.
L'unica cosa in comune e che lega assieme queste orribili ed inspiegabili storie di malattia e morte è il territorio, il luogo in cui il bios si articola in tutte le sue forme.
Un territorio d'altra parte vastissimo, che la speculazione edilizia ha trasformato in una enorme distesa di isole di cemento, cinte dai terreni gonfi di rifiuti tossici, legate l'una all'altra solo da orribili statali.
Le comunità della provincia napoletana e casertana hanno cominciato a parlarsi a partire da una slow violence efferata a cui sono stati sottoposti e dallo sgomento per la quantità di morti per tumori, morti che hanno cominciato ad essere “inspiegabilmente” anche i bambini. Le madri di questi bambini, hanno cominciato ad esprimere il coraggio e la rabbia e stanno trovando nelle mobilitazioni di questi mesi una prospettiva collettiva di riscossa, fondendo il singolare di una dolorosa esperienza personale, nel comune della rivendicazione di giustizia.
Come la madri di Plaza de Mayo, combattono una battaglia contro poteri radicati e diffusi capaci di nascondersi dietro gli alibi della politica, l'intoccabilità della magistratura, l'imponenza dei grandi clan.



UNA SINGOLARITÀ IMMERSA NELLA MOLTITUDINE


A partire da questo quadro composito e però espansivo, ci collochiamo, come soggettività organizzata in un momento particolare della nostra storia. Tra pochi mesi il primo spazio che abbiamo occupato, Insurgencia, compierà dieci anni. Questo autunno, l'irruzione nella metropoli di un tema che non abbiamo mai voluto declinare in senso esclusivamente ambientalista e a cui d'altra parte non abbiamo mai smesso di prestare tempo ed attenzione, ci pare il modo migliore per cominciare a "festeggiare".
Dieci anni fa decidemmo, non per caso, di occupare uno spazio in periferia, a ridosso di alcuni dei quartieri più difficili della città.
Eravamo giovanissimi e venivamo dai collettivi studenteschi dell'area nord di Napoli. Conoscevamo la periferia meglio del centro e la lezione che ci portavamo dietro dalla stagione del movimento No Global e dalle giornate di Genova, era innanzitutto quella di imparare a declinare le battaglie contro il capitalismo globalizzato e predatorio, sui nostri territori, guardando particolarmente al modello zapatista.

Sapevamo che di contraddizioni che palesavano l'ingiustizia di un mondo che stava cambiando in senso sempre più anti-sociale, il nostro territorio era gravido.
E così a partire dal 29 Agosto 2004 ad Acerra, pochi mesi dopo l'occupazione di Insurgencia, è iniziata una storia che ci ha visti su ogni barricata, aizzata contro lo scempio della gestione del ciclo dei rifiuti. 
Quelle campane, sono tutte storie legate dal filo della creazione strumentale dell'emergenza. Abbiamo scritto e detto tanto in questi anni su come ad Acerra, Giugliano. Pianura, Chiaiano e Terzigno si sia sperimentata inmodo inedito la destituzione della democrazia rappresentativa e dei suoi organi formali a favore di un intervento condiviso delle governance economiche e politiche. I cittadini e le cittadine di quei territori sono stati coattamente espropriati di ogni possibilità di decidere, e, laddove dimostravano (come è sempre accaduto) una attitudine particolare alla ribellione, fermati con l'esercito e con l'inasprimento delle pene.
Eppure niente di tutto quello che accade oggi e che qualcuno potrebbe definire erroneamente un movimento di mera opinione, sarebbe stato possibile senza quelle tappe così significative nella storia dei conflitti sociali non solo locali, ma dell'intero paese.
Il debito di questo fiume in piena che dalla provincia sta per invadere la città, verso chi ha trascorso centinaia di notti insonni a presidiare i mille cantieri, è infinito ed impagabile.
Noi, dal canto nostro, non abbiamo mai preteso di fare l'avanguardia, neppure quando, nel 2008, arrivarono a Chiaiano, a pochi passi da Insurgencia, in pieno stile commissariamento, con un cartello di corresponsabili che coinvolgeva tanti dei poteri forti locali e nazionali, con nomi e pedigree (come quello di Gianni De Gennaro) che avevamo già incontrato nelle piazze dei movimenti alter-mondisti e che avevano già dimostrato una condotta da macellai cinici e impuniti.
Abbiamo sempre creduto fosse giusto mischiarci tra quelle donne e quegli uomini che disobbedivano allo Stato prima e all'esercito poi, utilizzando i propri corpi a difesa della nostra terra. Abbiamo portato in quella lotta la cultura politica e il pensare globale che avevamo imparato nelle strade e nelle piazze no global, i simboli dello zapatismo, lo stile spregiudicato e coraggioso dei ragazzi e delle ragazze dei centri sociali, tuttavia siamo sempre stati nel mezzo. Quello stare nel mezzo ci ha fatto diventare grandi. Sappiamo di dovere a Chiaiano moltissimo della storia che festeggeremo il 5 Gennaio, nella data del compimento dei dieci anni.
Sappiamo che quella lotta vera ci ha proiettati fuori dallo spazio giovanilista in cui eravamo cresciuti e dentro la reali complessità della metropoli.
Anche se si è perso allora e la discarica è stata aperta, provocando un peggioramento estremo delle condizioni di vita e di salute di chi abitava ed abita quelle zone, a Chiaiano è rimasto vivo per tutti questi anni un Presidio permanente, che, a partire da una conoscenza capillare del territorio e da un'insofferenza profonda per quella occupazione vergognosa da parte dell'esercito, non ha mai smesso di lottare per la chiusura della discarica. Ha vinto tre anni dopo. E neppure dopo quella vittoria è tornato a casa. Si è moltiplicato, ha contagiato gli altri territori circostanti. E' nato un comitato anche nella vicina Mugnano fatto di cittadini e cittadine che, a partire dalle contraddizioni sui temi ambientali, si è posto immediatamente come soggettività che rivendicava più complessivamente il diritto alla città. Siamo stati e siamo cellule di questi corpi così. Abbiamo sperimentato e sostenuto gli esperimenti di autonomia che l'area nord ha vissuto e vive tutt'oggi, le occupazioni, le campagne, la promozione di welfare dal basso. Abbiamo costruito un pezzo di quella metropoli policentrica e diffusa che l'urbanistica neoliberale ha provato a distruggere. Proprio in questa prospettiva, abbiamo sperimentato negli anni l'incosistenza della categoria di “n.i.m.b-y.” (sigla per «not in my back-yard», indicante l'ipotetica matrice identitaria ed individualista delle battaglie territoriali). In primis, abbiamo compreso nell'esperienza di lotta come il “partire da sè” sia un valore aggiunto e non un limite: quando un tumulto è vero non parte da un sostrato ideologico ma da una bisogno concreto e da una spinta desiderativa reale. In seconda analisi, i movimenti territoriali – in particolare quelli contro discariche ed inceneritori – non si sono mai fermati alla singola vertenza ma hanno sempre avuto una spinta generalizzante e soprattutto hanno sempre avuto la capacità di generare saperi sociali che hanno permesso di alzare il tiro sparando dritto all'origine delle questioni.



PER UN'ANTIMAFIA DI BASE E ANTICAPITALISTA


Proprio la forza generalizzante dei movimenti ci ha portati a Chiaiano, insieme alle reti territoriali, a metterci in gioco per avere protagonismo anche nella riappropriazione popolare e nella riqualificazione dei terreni confiscati alla camorra proprio di fronte alla discarica. Abbiamo rivendicato la gestione di quei terreni, connettendoci pure ad esperienze di anticamorra di base. Abbiamo ragionato sul fatto che il Movimento anti-discarica di Chiaiano sia stato un movimento immediatamente anti-mafia, dati gli interessi contro cui ha combattuto e nonostante le mistificazioni di media e di alcuni magistrati che hanno provato, senza alcun fondamento, ad identificare le donne e gli uomini in lotta come amici dei camorristi. La presenza su quei beni confiscati delle comunità che hanno lottato sul territorio, deve garantire un presidio contro nuove speculazioni da parte tanto delle criminalità organizzate quanto delle solite lobbies che sovente determinano le scelte istituzionali. Inoltre il lavoro con fondo ci permette di sviluppare progetti che vedono coinvolti detenuti ed ex detenuti, maggiorenni e minorenni , che collaborano alla riqualificazione dell'area e partecipano a iniziative di autoformazione sottraendo tempo alla detenzione e consentendoci di sviluppare una prossimita con quella che solitamente è la forza-lavoro sussunta dai capitali criminali.

Del resto non ci è mai sfuggito che lottare contro la devastazione dei nostri territori significa essere anti-capitalisti e che essere anti-capitalisti dalle nostre parti significa porsi criticamente il problema delle mafie. Proprio per sbugiardare la retorica banale ed inefficace (perchè falsa) che racconta la camorra come un fenomeno slegato dai processi di accumulazione capitalista abbiamo preso più volte parola su questi difficilissimi temi. Abbiamo messo faccia a faccia la complessità della composizione sociale e di classe  investita dal fenomeno, dimostrando che né il silenzio né il giustizialismo sono l'antidoto migliore per affrontare un sistema di potere che si serve in maniera parassitaria delle fasce subalterne della metropoli, approfittando del ricatto tra disoccupazione e sfruttamento a cui le giovani generazioni sono sottoposte. E' il modello TINA (There is no alternative), un modello che declina il neoliberismo nella crisi, che racconta al meglio il paradigma culturale e politico che regge la forza dei grandi clan. 
Con la parola camorra ci sentiamo di sintetizzare la modalità di applicazione di un modello di sviluppo, che declina il sistema capitalista su un determinato territorio, quello campano. Un modello concreto di cui troppo spesso si conosce solo un volto, quello che è abituato a sussumere le attività illegali ed informali. L'altra faccia, quella meno nota alle cronache, è quella “produttiva”, che da una parte investe nell'edilizia, nell'industria e nella distribuzione, nel terziario e finanche nella finanza, mentre dall'altra produce classe dirigente, vere e proprie governance che negli anni  hanno destituito  gli apparati statali, imponendo la tempistica e la protervia tipica del governo dell'eccezione. Questa è a nostro avviso una delle ragioni politiche per le quali la Campania era evidentemente il teatro migliore per mettere in scena vent'anni di gestione emergenziale sul tema dei rifiuti, dopo il precedente commissariamento sul terremoto. Una storia fatta  di shock costanti ed economicamente vantaggiosissimi, per quegli attori , quasi sempre gli stessi, che hanno “gestito” e “governato” lo spazio delle emergenze. 
Questi sono alcuni dei presupposti per i quali leggiamo da sempre la questione rifiuti non come un'anomalia, un falla del sistema. 
La camorra di fatti, nella migliore rappresentazione della figura mediatrice tra economia e politica, ha offerto alle imprese italiane e a tante imprese europee, la possibilità di smaltire i propri scarti industriali a un costo quasi nullo se paragonato a quello dello smaltimento legale. Il fenomeno ha avuto proporzioni talmente grandi ed ha coinvolto un numero di imprese così vasto da non rendere sostenibile la teoria della perimetrazione netta tra legalità ed illegalità, tra criminalità ed attività produttive. 
Le vicende dello smaltimento dei rifiuti in Campania è una delle storie del capitalismo italiano e siamo convinti che non sia un caso che il main stream abbia cominciato a prestare attenzione ad esse proprio quando la piccola e media impresa vivono una crisi dai tratti irreversibili.

L'Italia ha d'altra parte una storia longeva, fatta di cinismo e brama di profitto, senza cura dei costi ambientali e sociali.



DA NAPOLI NORD A MEZZOCANNONE OCCUPATO: RICONQUISTA DEI TERRITORI E DIRITTO ALLA CITTÀ


In questi stessi anni, oltre a radicarci in periferia e ad ibridarci coi movimenti territoriali, abbiamo tessuto nuovi rapporti pure con le soggettività che quotidianamente abitano il centro della città. Si tratta di studenti, precari dell'università, della cultura, di settori avanzati del terziario.

Questa ulteriore contaminazione ha permesso alla nostra collettività di allargarsi e soprattutto di generare nuovi progetti politici, nuove occupazioni, nuove battaglie. Nel giro di un anno, ovvero dal novembre 2011 al novembre 2012, tutti insieme abbiamo compiuto altre tre occupazioni.
La prima è stata il D.A.d.A. , il Dipartimento Autogestito dell'Alternativa, ovvero una sperimentazione di università autonoma a partire dalla riappropriazione di uno spazio abbandonato proprio nella centrale di uno dei più grandi atenei del mediterraneo, la Federico II. Con questo esperimento abbiamo iniziato pure a declinare, tramite percorsi di autoformazione e di ricerca indipendente, un'elaborazione intorno al rapporto tra saperi e territori, alla possibilità di valorizzare il general intellect prodotto tra le donne e gli uomini coinvolti nei movimenti in difesa di beni comuni, alla critica verso la pretesa di oggettività delle scienze mediche e tecnologiche, alla costruzione di una storia dell'ambientalismo popolare.
Un anno dopo per l'appunto, dopo le giornate di contestazione al Governo_Monti, abbiamo costruito la campagna NapoliChoosySide che ha portato alla riappropriazione di Mezzocannone12Occupato e di quello che abbiamo rinominato Auditorium “Carla e Valerio Verbano” nell'adiacente civico 14. Si tratta di stabili universitari abbandonati da anni. Queste ultime occupazioni hanno coinvolto altre e altri giovani “neet”, soggettività provenienti dalla precarietà diffusa, artiste ed artisti della scena culturale underground di Napoli. Anche in questo caso la contaminazione è stata reciproca. Il ragionamento sulle periferie e quello contro la devastazione ambientale si sono intrecciati in questo caso con una spinta alla riqualificazione culturale dal basso per il centro della città e alla creazione di ambiti per invogliare una produzione immateriale che sia indipendente dal modello di sviluppo dominante. Il frutto di questa interazione è stato l'apertura di un dibattito e la diffusione di pratiche, entrambe intorno al tema del “diritto alla città”. Diritto alla città, per noi tutt* non è qualcosa da tradurre in normativa ma qualcosa da agire direttamente. È in primis la rivendicazione della decisione sulle sorti della città e della sua area metropolitana: da un lato reclamare con mobilitazioni che invadono le strade e con la costruzione di presidi permanenti, dall'altro assaltando la proprietà parassitaria pubblica e privata per la riappropriazione di spazi nonché di mezzi di produzione. La direzione diventa quindi quella di una coalizione sociale tra diverse soggettività metropolitane e tra diverse comunità territoriali per la costruzione di un modello di sviluppo alternativo e di una idea di città, rispetto a quelli che stanno fallendo davanti agli occhi di tutti, in termini economici ma anche di impatto sociale ed ambientale, con la devastazione tanto della biosfera quanto del tessuto relazionale di interi territori.



Il BIOCIDIO: UNA CRITICA COMPLESSIVA, UN PROBLEMA EUROPEO


Premessi tutti i ragionamenti basilari indicati fino ad ora, ci troviamo oggi nella situazione in cui le lotte territoriali di migliaia di donne di uomini, da Acerra a Chaiano passando per Terzigno e Giugliano, tra i meriti che le contraddistinguono stanno esprimendo in maniera potente quello di catalizzare il dibattito pubblico, oltre che sul tema dei siti e delle modalità di smaltimento, anche su quello contiguo dei traffici di rifiuti industriali e tossici. Il ponte tra le due tematiche è stato ovviamente costruito in virtù della logica e del meccanismo comuni che stanno alle fondamenta di entrambi i fenomeni. Contestualmente tutto ciò si è rapidamente connesso con altre insorgenze di e per i territori, seppur non basati sulla questione dei rifiuti: tutte le mobilitazioni contro le grandi opere, quelle contro le speculazioni dopo le calamità naturali, quelle che lottano per le bonifiche di aree industriali dismesse.

Da queste connessioni è nato il termine “biocidio”, l'uccisione di ogni forma di vita nel senso biologico e sociale, la sintesi di uno scenario apocalittico, ma anche la strada verso la riscossa. Il “biocidio” o esiste e lo si affronta nel complesso delle sue contraddizioni, oppure si nega, assecondando l'assurda epidemia che sta colpendo le nostre terre. Affrontarlo significa essere all'altezza del moto di indignazione che sta pervadendo la città e la provincia, significa non avere paura del meticciato culturale che si produce nelle assemblee e nella discussioni pubbliche, ma neppure assecondare marce di indignazione senza prospettiva. Affrontarlo significa inoltre capire che in gioco c'è il diritto a restare, il diritto a scegliere dove vivere la vita senza che lo scenario di una strage tolga la speranza. Significa capire che la complicità tra il peggioramento delle condizioni materiali e l'incremento della disoccupazione, unite con la possibilità concreta di ammalarsi, sta privando le nostre terre di migliaia di giovani e giovanissimi.

Ecco perché ci premeva prendere parola a partire da una parzialità per ricostruire soggettivamente alcuni dei passaggi analitici e politici che hanno prodotto la costruzione del 16 Novembre.

La grande scommessa di questa data è, dal nostro punto di vista, quella di riuscire ad inserite la rabbia verso la devastazione ambientale, tematica certamente generale e paradigmatica di un modello di sviluppo sbagliato, dentro un orizzonte di indignazione più complessivo.

È inoltre necessario che l'universo complesso ed eterogeneo delle lotte europee in difesa della salute e dell'ambiente, a partire proprio dai costi sociali che la stessa devastazione ambientale porta con sé, si connettano alle mobilitazioni che rivendicano reddito, welfare, diritti. Una prospettiva materialista non può che fuggire una perimetrazione asfittica ed “ambientalista” di quello che è accaduto in Campania. Il termine “biocidio” e la corretta definizione dello stesso a partire dalla differenza qualitativa che passa tra bios e zoé serve proprio a spingere in questa direzione. Ecco perché ci siamo posti immediatamente,, il problema della connessione delle lotte contro il “biocidio” con il piano europeo. Ecco perchè saremo a Francoforte dal 22 al 24 Novembre per lavorare ad una assunzione produttiva di questo termine e soprattutto del portato decennale di lotte territoriali, al fine di contribuire alla costruzione di quello che consideriamo il vero terreno rivoluzionario contemporaneo: quello che mira alla costruzione di un'Europa dei conflitti.

Fa gioco in maniera ancora più efficace la cartografia che si scriverà il 16 novembre in Italia. Quattro grandi appuntamenti, su quattro temi concatenati: il biociodo campano, la difesa di un'esperienza virtuosissima di occupazione ed autogestione a Pisa , la mobilitazione contro uno dei vergognosi centri di tortura e detenzione per i migranti a Gradisca ed il corteo che attraverserà la Valle per dire ancora una volta no alla Tav. Questa composizione meticcia e moltitudinaria che si mobiliterà in maniera diffusa per i commons e per la democrazia dimostrerà che ognuna di quelle piazze ha parlato e conosce le altre e con esse è complice e solidale, è quella che deve permetterci un salto di qualità politico, che fuori da ogni passione estetica e da ogni postura evenemenziale, fa tesoro delle storie singolari longeve dei singoli territori e, producendo linguaggio ed immaginario comune, getta nuovamente i beni comuni sul terreno della conflittualità, ri-afferma l'impossibilità di negoziazione della liberà di tutte e tutti le donne e gli uomini, e cammina verso una prospettiva di cambiamento radicale. Per noi l'obiettivo che deve darsi questo movimento deve essere quello di creare dei poli di presidio fisico e permanente, riprendendo sia l'esperienza delle lotte territoriali avute in Campania sia quelle che ci arrivano dal piano internazionale, una fra tutte quella di Gezi Park e Piazza Taksim ad Istanbul. Per questo riteniamo che sia molto importante che, alla fine del corteo del #16Nov. si inizi almeno simbolicamente ad evocare un'accampata per comunicare l'immaginario di permanenza che caratterizza questa insorgenza.



La comunità ribelle di Lab. Occ. Insurgencia e MezzocannoneOccupato