“Brexit or not? Here it comes, you can’t hide it”

Commento sul voto britannico al referendum –colpevoli e nemici in un’Europa in disgregazione

25 / 6 / 2016

Ad un anno di distanza dal referendum greco, in cui ai cittadini ellenici venne chiesto di esprimere il loro parere, favorevole o contrario alle misure di austerità imposte dall'Europa neoliberista e dai creditori, l’altro referendum tanto atteso - in Gran Bretagna - ha dato il suo responso finale. Alla fine ha vinto il Leave. Anche in questo caso il voto di sfiducia verso le istituzioni e la governance europea ha sopraffatto il volere delle élite e dei mercati finanziari.

Attenzione, non bisogna però equiparare i due casi, la #Grexit è l’ipotesi che prevedeva (o che prevede tuttora) l’uscita dall’Eurozona (e non dall’UE!) di un paese che rappresenta solamente il 2% del Pil dell’intera Unione Europea. Paese stretto dalla morsa dell’austerità, avvolto nella spirale di disoccupazione e povertà, costretto a continuare con la ricetta degli aggiustamenti strutturali dopo il “colpo di stato” post referendum dei creditori. Nel caso della Gran Bretgna, invece, in molti, soprattutto i social democratici alla Matteo Renzi, si rammaricano della vittoria del Leave; lo stesso premier italiano, tre giorni fa, affermava in un’intervista al Guardian «not to make the wrong choice over EU» .

Così se da una lato ,in questo momento, la Grecia (e il resto del Sud Europa) sta vivendo uno scenario di disagio sociale, dall’altro lato c’è la #Brexit, o meglio la volontà del 51,9% dei cittadini inglesi di votare a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. 

A differenza della Grecia, il Regno Unito rappresenta il secondo paese Europeo, nella top ten delle economie mondiali con il Pil più alto, tra i primi ad avere un livello di disoccupazione basso rispetto ad altri (nonostante sia un paese comunque in crisi e che non vive in un momento di splendore economico) e con una moneta che è ancora tra le più scambiate al mondo. Storicamente, durante il processo di integrazione europea, la Gran Bretagna, assieme ai paesi scandinavi, è sempre stata in prima fila tra i diffidenti verso l’Europa unita. Già nel 1975 venne indetto un referendum per chiedere il parere alla popolazione riguardo all'ingresso nel Sistema Monetario Europeo e nella CEE. Al tempo il risultato fu positivo. Solo dopo qualche anno, con l’arrivo della Thatcher, ci fu un ulteriore congelamento nei rapporti con la CEE che durò per tutto il suo mandato e che solo nel 1990 venne completamente ristabilito. Ma ad ogni modo, Londra rimase qualche passo lontana dalla membership completa all'Unione Europea. Né l’Euro, né Schengen, prima di tutto la sovranità nazionale. 

Ci sono altri due elementi da separare: il referendum sul #Brexit e la crisi dei migranti, iniziata nel 2015. Infatti, i flussi dei migranti che cercano dignità e libertà per scappare dalle guerre prodotte dal capitalismo e dalla globalizzazione, hanno acuito le tensioni in Europa e hanno prodotto un clima di paura. Ma solo perché è stato concesso ai partiti xenofobi di estrema destra di alimentare con il loro populismo conservatore l’odio verso i rifugiati. Aver dato loro la possibilità di prendere parola nei dibattiti pubblici, di averli messi sotto i riflettori pur di fare notizia, ha concesso lo sviluppo di un fronte di estrema destra che ha aumentato il suo rapporto di forza in tutti gli angoli del continente, diventando i primi, secondi o terzi partiti in 3/4 dei paesi. Una vera e propria offensiva non solo contro i migranti, ma anche contro le comunità lgbtq, a favore del ritorno alle monete nazionali e alla possibilità di decidere la politica monetaria e la politica economica attraverso governi e banche centrali domestiche. Il tutto in un quadro di piccole fortezze suddivise in base ai principi etnici e nazionalisti. È palese che questo framework abbia influenzato parecchio le politiche nazionali e abbia contribuito a spingere i tradizionali partiti neoliberisti, sia di centro destra che di centro sinistra, a prendere posizioni palesemente di destra. 

Fino ad ora due casi sono palesi: A) la minaccia di chiusura del confine italiano-austriaco, scelta fatta dal SPO, il partito di centro sinistra Austriaco, per tornare a raccogliere il consenso popolare, minacciato dall’FPO (poi sappiamo com’è andata a finire la storia), B) il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, promosso dal premier inglese Cameron, leader del Partito Conservatore, già in campagna elettorale su pressione dello Ukip. Uno United Kingdom Independence Party che dal 1993, anno di fondazione, al 2010 è rimasto un piccolo partito di euroscettici utopistici velleitari, ma che con le elezioni locali del 2013 guadagna il 23%, alle europee del 2014 ottiene il 26,8% e alle elezioni parlamentari 2015 il 13%, piazzandosi (in base al tipo di ripartizione di seggi) al secondo o terzo posto nella chart dei partiti inglesi. Pensate che quattro anni prima, alle elezioni del 2010 il massimo che l’UKip è riuscito a masticare è stato un misero 3,1%. 

Per spiegare al meglio le ragioni del referendum è necessario il preambolo qui sopra. Ma è essenziale fare un passo indietro nella storia degli anni recenti. Il referendum, come già ricordato, è stato promesso e concordato nel 2013, quando Schengen era uno spazio indiscusso e indiscutibile, quando Idomeni, la Balkan Route, Calais, Ventimiglia, le stragi di Parigi e gli attentati di Bruxelles erano  venti, per quanto prevedibili, che ancora dovevano accadere. È vero che uno dei motivi principali per cui il referendum è stato indetto è l’ottenimento di una maggiore autonomia e controllo dell’immigrazione, ma se torniamo indietro notiamo che gli immigrati – a cui si riferivano Farage o i Conservatori – non erano gli islamici, ma gli immigrati inter-europei, soprattutto delle aree più deboli del continente, primi fra tutti bulgari, romeni, polacchi e italiani. Migranti che scappavano dalla disoccupazione e dalla precarietà che gli aggiustamenti strutturali, le riforme neo-liberiste e l’austerity hanno causato. Migranti in cerca di migliori possibilità di vita, benessere e certezze di costruirsi un futuro stabile e di sopravvivenza. 

Qui sta il nodo centrale. #Brexit è una reazione, negativa e di destra, alle fallaci politiche neoliberiste che Francoforte e Bruxelles hanno proposto e che stanno continuando a imporre. Il sogno europeo di superare i confini, di abbattere per la prima volta la geografia continentale basata sugli stati nazione suddivisi per criteri etnici, è stato sconfitto dalla volontà dell’establishment neoliberista europeo, dall’ ”Impero europeo” di trasformare l’Europa in un grande mercato unico fondato sull’ordoliberismo. Era evidente già con i criteri di Maastricht che impongono il rigore fiscale, l’ammonimento e la riduzione del debito pubblico e il target maniacale dell’inflazione stabile per tenere l’Euro forte. Si approfondisce con il ruolo della BCE, che non ha nessun interesse a migliorare l’occupazione e il benessere degli europei (e che è obbligata a non perseguire, dato che la carta stessa del Trattato di Maastricht denota l’impossibilità di intervenire finanziando i vari paesi), ma che anch'essa ha il solo compito di vegliare sull'inflazione e sul valore della moneta unica. Ciò si evidenzia con l’assenza di un potere federale Europeo che possa regolare la politica monetaria e la politica economica dell’intera unione: un’architettura politica che non metta da parte il parlamento Europeo, che non lasci ampi poteri alla Commissione e che non si rinchiuda nelle stanze e nei summit tra Consiglio, Commissione e BCE. 

Ma soprattutto il mix di ordoliberismo e crisi economica ha dato il colpo di grazia al welfare. Riduzione dei sussidi e delle garanzie sociali, delle pensioni, flessibilità nel mondo del lavoro e facilità nei licenziamenti (vedi ad esempio jobs act – loitravail), privatizzazioni del sistema educativo, scolastico e universitario, oltre che sanitario e liberalizzazioni sfrenate. L’obiettivo è promuovere la strategia neo-mercantilista ed espansiva utilizzata dai paesi «core» per guadagnare più competitività e basare le economie sull'offerta (supply-driven) piuttosto che sulla domanda (demand-driven). La stessa tecnica beggar-thy-neighbour utilizzata dalla Bundesbank e dai governi tedeschi (ai danni dei suoi vicini europei) per diventare uno dei primi paesi esportatori al mondo, seguendo la reazione a catena di compressione dei salari, riduzione dei prezzi, abbassamento dell’inflazione e dei tassi di interesse. Così da riguadagnare competitività con USA e BRICS, soprattutto con la vicina Russia e la Cina. 

Prima che un voto xenofobo e anti immigrazione, il Leave è una risposta all'Europa dei poteri forti e dei mercati finanziari. Non sono stati solamente gli elettori dell’UKip o dei radicali Conservatori a votare contro l’UE. Il 51,9% è rappresentato dalle classi più basse e dai piccoli e medi imprenditori stretti dalla crisi. Ad ogni modo non dobbiamo dimenticare che i nemici sono due e sono ben distinti. Il primo è la destra radicale, xenofoba, razzista, omofoba, reazionaria e tradizionalista; che si oppone all’accoglienza dei migranti che fuggono dalle guerre create dal capitalismo e dalle minacce dei loro parenti Daesh, che condividono i loro principi identitari, reazionari e fascisti sostituendo il termine «religione» laddove trovano scritto «nazione». Quelli a cui negli ultimi anni è stato dato grande spazio nei dibattiti pubblici e che hanno costruito un fronte minaccioso in tutti i paesi europei e che arriva fino a Mosca (o che parte da lì!).

Dall’altra parte c’è il nemico più subdolo, il “neo”, “ordo” e qualsiasi altra forma di liberismo assume la governance europea. Gli stessi responsabili che hanno promosso e costruito l’Europa delle diseguaglianze e che non hanno aperto bocca mentre sotto i loro volti si ampliavano gli squilibri interni all'Unione. I colpevoli della crisi finanziaria e della risposta fallace alla crisi dei debiti sovrani. Questi sono gli stessi che di fronte all’#OXI greco dello scorso anno sono intervenuti con un colpo di stato fatto con i Bancomat e non con le armi (do you remember #Thisisacoup?), per impedire l’ascesa di pretese “di sinistra” e di rivendicazioni di classe, di redistribuzione della ricchezza, di ristrutturazione del debito e del welfare, di rispetto e tutela dei beni comuni, di creazione di un’Europa sociale basata sull'autonomia delle comunità aperte, accoglienti e solidali. I colpevoli, che pur di frenare il dissenso da sinistra hanno permesso all'altro nemico di aumentare il proprio consenso, concedendo loro la possibilità di sbraitare dichiarazioni di odio e umiliazione verso i migranti, spostando l’asse della protesta “dalla classe alla razza”, così da assicurarsi che nessuna mobilitazione avrebbe potuto mettere in crisi il potere finanziario e i principi ordoliberisti, nemmeno un referendum o un governo nazionale. 

Ora sta sempre a questi agire per salvare la “loro Europa” basata sul Trattato di Maastricht. Sta a loro decidere come intervenire, se agire con un altro coup a un anno di distanza o permettere a Londra di salutare il resto dell’Unione Europea creando un precedente per altri sciacalli alla Salvini, Grillo, Orban o Le Pen di proporre referendum su referendum e disgregare ufficialmente il sogno (anche nostro!) di unire le comunità europee per creare un continente senza confini etnici, religiosi e culturali e basato sul welfare per tutti. Sta a loro scegliere se optare per scenari alla “Great European disaster movie” o imparare la lezione prima sorgano altri #-exit o grosse recessioni economiche.

Questo è ciò che noi non siamo, ciò che noi non vogliamo. A noi sta il compito di continuare a lottare nelle strade e nelle nostre piazze, da Idomeni e nei Balcani per scardinare la fortezza e a Bruxelles, Francoforte e Berlino, nel ventre della bestia o, per continuare l’analogia, al centro dell’Impero e della Fortezza. Dobbiamo continuare a proporre l’alternativa all'interno dell’Unione Europea per salvarla e perseguire il sogno originario di abbattimento dei confini etnici e degli stati nazione. Per farlo bisogna ripartire dai quartieri, dal mutualismo sociale dal basso e dal ritorno ad una prospettiva di classe.