Charlottesville, Trump e quel razzismo che non se n’è mai andato

18 / 8 / 2017

Neanche ventiquattro ore ci sono volute perché la violenza razzista, nazista e xenofoba fosse trattata alla stregua di un fenomeno folkloristico. “L’etno-nazionalismo… è da perdenti. E’ un elemento marginale”, commenta Steve Bannon, Chief Strategist della Casa Bianca e responsabile della campagna elettorale di Trump. Lo stesso che ha diretto per anni Breibart News, la rivista che si vuole punto di riferimento dell’alt-right, ossia quella costellazione di movimenti organizzati che vuole difendere l’identità bianca e che crede nella separazione razziale per la preservazione della cultura. Una frase che fa da eco al rigirio di dichiarazioni ufficiali di Donald Trump, il “Presidente di tutti” che da sabato a oggi è intervenuto ben tre volte per commentare i fatti del 12 agosto accaduti a Charlottesville, Virginia.

Inizialmente, per il tycoon l’insieme degli eventi che si sono scatenati in occasione della manifestazione dei suprematisti bianchi poteva essere riassunta come una violenza trasversale dovuta a tutte le parti in campo. L’ondata di critiche bipartisan tra Democratici e Repubblicani, media e personalità del mondo imprenditoriale devono avergli fatto rizzare i capelli nel salotto del suo appartamento di lusso a New York; se a questo uniamo le pressioni personali fatte da Ivanka Trump e da Jared Jushner (il fronte di consulenti presidenziali appositamente nominati per strizzare l’occhio agli ambienti più progressisti), The Donald si sarà sentito troppo minacciato dalla viralità delle critiche in rete per assestarsi su quanto detto in un primo momento. Anche l’ondata di plauso da parte dei nazisti americani e di David Duke, l’ex “gran maestro” del Ku Klux Klan, ricevuta per l’equidistanza da lui mantenuta domenica tra suprematisti e anti-razzisti deve avergli fatto cambiare idea. Da uomo della comunicazione quale è, lunedì fa un’altra dichiarazione nella quale condanna il suprematismo bianco e il nazismo. “Il razzismo è il male, e quelli che generano violenza in suo nome sono criminali e delinquenti”, ha affermato aggiungendo poi che “siamo una nazione fondata sulla verità che tutti nasciamo eguali di fronte al Creatore, alle leggi e alla Costituzione”. Ma evidentemente a qualcuno non deve essere andato giù l’affondo di lunedì. Ed ecco che il giorno dopo Trump ritorna sul tema durante una conferenza stampa indetta per tutt’altra cosa, dicendo che per analizzare in profondità i fatti di Charlottesville bisogna riconoscere che “da una parte c’era un gruppo pessimo e dall’altra parte un gruppo che era allo stesso modo molto violento”. Con i suoi proverbiali neologismi atti a caricare di un significato politico e sensazionale la realtà, Trump dice che il problema è rappresentato anche dall’alt-left, nuova minaccia per l’ordine sociale, composta da banditi dell’estrema sinistra. Sorvolando sulla natura e le ragioni del discorso politico degli anti-fascisti e dei neo-nazisti, Trump equipara di nuovo le due piazze di sabato prendendole come due squadre di calcio esplose in violenze ingiustificate per la “presenza di persone cattive” da entrambe le parti; una presenza che, in ogni caso, è controbilanciata dalle persone buone, sicuramente riscontrabili anche tra i partecipanti del raduno Unite The Right, al quale non si sono ritrovati soltanto i nazisti di nuova generazione. Come insegna il senso comune, il buono e il cattivo si trova un po’ dappertutto. 

Già. Perché ad un raduno di diverse organizzazioni dell’estrema destra statunitense chiamate a difendere la statua del generale Robert E. Lee, un confederato difensore della schiavitù delle persone nere, sicuramente si saranno ritrovate anche persone la cui idea di mondo non pone in posizioni gerarchiche gli individui sulla base del colore della pelle, oppure ritiene che le conquiste dei diritti civili siano una deviazione dal corso naturale della storia quale era nell’Ottocento. Come potrebbe essere così?! Nella distorsione mediatica dell’intera vicenda sembra che i manifestanti dell’alt-right siano scesi in piazza contro la becera pretesa dei “buonisti” di cancellare pezzi di storia americana. “E quindi questa settimana è Robert E. Lee. Noto che anche la statua di Stonewall Jackson sta cedendo. Mi chiedo: la prossima settimana toccherà a George Washington? E quella ancora dopo a Thomas Jefferson?”, tuona Trump. Purtroppo per il Presidente, le statue, soprattutto in pubblica piazza, simboleggiano un passato che non si attesta nell’oblio della storia, ma è un continuo rimando al presente che può avere due funzioni: o agire da monito o essere riattualizzato in un contesto diverso. Avere uno dei simboli  uno dei simboli che hanno consentito alla schiavitù di sedimentarsi nella storia americana come retaggio sociale e culturale, fa pensare più all’elogio della storia piuttosto che al monito. È esattamente questo quello che hanno pensato i nazisti che hanno chiamato alla manifestazione di sabato.

Riportiamo ordine tra la marea di dichiarazioni e prese di posizione, chiamando persone e cose con il loro nome: sabato una folla di suprematisti, razzisti e neo-nazisti è arrivata a Charlottesville per protestare contro l’abbattimento della statua di uno schiavista. Sono venuti in città tutt’altro che pacifici, minacciando gli abitanti e i contro-manifestanti con scudi, mazze e oggetti contundenti. Tra le loro fila si potevano riconoscere leader dei nazionalisti bianchi come Richard Spencer, gruppi apertamente nazisti, il Ku Klux Klan, i Proud Boys (organizzazione di giovani nazionalisti che sostengono Trump). L’attitudine minacciosa dei gruppi nazisti è già evidente dal giorno prima, quando la loro fiaccolata, arrivando di fronte alla parrocchia locale di St. Paul, si scontra con i credenti e gli anti-fascisti assembrati in protesta alla fiaccolata. A seguito dei primi incidenti nella mattinata di sabato che coinvolgono i manifestanti dell’alt-right, viene dichiarato lo stato d’emergenza in Virginia e viene ritirata l’autorizzazione per la marcia di Unite the Right. I manifestanti antifascisti e anti-razzisti organizzano un momento di socialità e di ritrovo nel parco dove risiede la statua incriminata per continuare a difendere la città dall’invasione dei nazisti. Durante tutto il giorno le incursioni dei gruppi organizzati di estrema destra, con l’esplicita intenzione di provocare, si avvicinano al parco e minacciano i partecipanti. Ad ogni occasione gli antifascisti, provenienti da gruppi religiosi, associazioni, collettivi e piattaforme come Black Lives Matter, riescono a respingere l’avanzata illegittima dei nazionalisti bianchi. In questo quadro di continue pressioni e minacce si consuma l’attacco terroristico ai danni del presidio antifascista: Alex Fields Jr, un ventenne affascinato dal nazismo e vicino alle organizzazioni neonaziste, si lancia con la sua macchina a tutta velocità sulla folla di una strada adiacente al parco, ferendo 19 persone e uccidendo la giovane attivista per i diritti civili Heather Heyer. L’investimento del terrorista è la punta dell’iceberg della violenza arrivata in città. Il Governatore della Virginia, in risposta ad una critica sull’inadeguatezza della polizia, si è difeso confessando che il timore principale era che un intervento delle forze dell’ordine avrebbe potuto causare una sparatoria

A fronte di tutto ciò, le dichiarazioni di Trump e dei personaggi della destra statunitense non possono essere sottovalutate, per quanto siano prevedibili. Nella migliore delle ipotesi, quando cioè non si vuole o non si può per convenienza esaltare il suprematismo bianco, equiparare le due piazze di sabato significa dare ad entrambe la stessa legittimità. Vuol dire che le idee che propugnano l’esclusione, l’aggressione sistematica e ponderata alle minoranze, le differenze in merito ai diritti e alle tutele sociali, non solo si possono ascoltare, ma in qualche modo devono essere ascoltate. Al di là della concezione patologica della libertà di espressione, bisogna rintracciare le linee di continuità che esistono tra espansione dell’estrema destra, razionalità politica di Trump e contestazione sociale; un legame che non è estemporaneo e neonato, ma che esiste da più di due anni.

La campagna elettorale dell’allora candidato repubblicano ha agito da propulsore dell’hate speech, spostando verso destra la percezione sociale, e da cassa di risonanza per coloro che strutturalmente fanno del razzismo il proprio patrimonio politico. Nella terra dell’American Dream, difatti, i retaggi suprematisti non sono resuscitati con Trump dopo anni di estensione, bensì non hanno mai smesso di essere presenti nei processi culturali che formano il senso comune americano. Dietro al disegno della grande casa a stelle e strisce dove ogni americano può trovare posto, opportunamente illustrato per prendere voti di unità nazionale, troviamo un progetto molto più dettagliato: ad alcuni sono riservate, se fortunati, stanze molto piccole e messe nel seminterrato. Queste persone sono i neri, i latini, la comunità LGBT e le donne che non si confanno agli ideali patriarcali. Lo sdoganamento dei discorsi di odio razziale e politiche apertamente nazionaliste hanno fatto da concime per riportare alla luce il suprematismo bianco innervato nella cultura americana; e la retorica della guerra, del nemico esterno e del nemico interno, la divisione puritana tra un Bene (bianco, maschio e lavoratore) e un Male, hanno creato un clima di tensione interna per il quale uno, razzista e nazista, si sente in dovere di proteggere il suo privilegio con ogni mezzo necessario, fino ad arrivare a falciare con una macchina una manifestazione antirazzista. Chi si può dimenticare degli slogan cantati il giorno dopo l’Election Day sotto la Trump Tower che recitavano we hate muslims, we hate blacks, we want our country back? 

Attenzione, perché il meccanismo è molto più fine di un banale endorsment delle pratiche razziste. Come ha dimostrato lo stesso Trump, nessuno si può permettere dal punto di vista istituzionale di appoggiarlo apertamente. È la propaganda dell’unità nazionale che permette ai discorsi dell’estrema destra di diffondersi e di crescere, facendo alzare la testa ai gruppi politici che ne sono portatori. Affermando che bisogna essere uniti contro i nemici, interni o esterni che siano, non solo si implicano dei precisi tratti etnici, culturali e sociali differenti da quelli dell’antagonista, ma si accetta che qualsiasi discorso geneticamente americano trovi cittadinanza, anche quello suprematista. Grazie a questa impostazione gli stessi partiti e squadre neo-naziste possono incontrare una prima culla dalla quale forzare lo stesso discorso istituzionale facendolo arrivare alle sue estreme conseguenze e agendo da lobby sul governo. Anzi, è addirittura possibile da parte dei politici svalutare la portata del razzismo, derubricarlo a marginalità facendolo passare come un falso problema, come uno specchio per le allodole che distrae dalle vere difficoltà degli Stati Uniti. Lo ricorda benissimo Steve Bannon stesso quando commenta “voglio che si parli ogni giorno di razzismo. Se la sinistra si concentra sulla razza e sull’identità, mentre noi andiamo avanti con il nostro nazionalismo economico, possiamo schiacciare i Democratici”. Insomma, il messaggio è far passare per normale amministrazione la xenofobia dilagante, equipararla ad un estremismo piuttosto che un altro, insabbiare sotto l’unità della nazione le contraddizioni interne. Del resto, gli Stati Uniti non sono quel Paese della strage di Charlestone di due anni fa, degli omicidi dei giovani cittadini afro-americani e musulmani.

Oltre a questo piano, troviamo l’ipocrisia di un governo Trump che si è costellato di personaggi tutt’altro che innocenti sui temi del nazionalismo e del razzismo, raccogliendo così i consensi delle frange estremiste di destra. Lasciando da parte Bannon, che comunque ha garantito il consenso a Trump dell’alt-right, basti nominare Stephen Miller (l’autore del Travel Ban per i migranti provenienti da sette Paesi musulmani giudicati pericolosi) e Sebastian Gorka (assistente deputato che si vanta della medaglia eredita dal nonno risalente a gruppi nazisti responsabili di uccisioni di ebrei). Anche Trump fu accusato di razzismo in passato per non aver dato in affitto a famiglie di afro-americani gli appartamenti di sua proprietà; senza contare la sua continua declinazione con sfumatura razzista delle varie etnie e nazionalità durante le sue apparizioni pubbliche, prima tra tutti i messicani. 

I due pesi e le due misure sono il calibro del governo Trump. Se da una parte si accetta e si rendono legittime le pratiche dell’estrema destra nazista, dall’altra la criminalizzazione dei movimenti sociali dello spettro di sinistra è un processo che sta assumendo una virata preoccupante. In almeno sei Stati i legislatori repubblicani stanno introducendo leggi funzionali alla dissuasione dal dissenso e della protesta sociale. Ad esempio, in Nord Dakota la mobilitazione moltitudinaria degli water protector indigeni ha indotto i legislatori a proporre una mozione, fortunatamente bocciata, che attenua, se non addirittura elimina, le responsabilità penali dei conducenti a bordo di un veicolo se questi investono dei manifestanti nel contesto di un blocco stradale non autorizzato. Il trend si è poi espanso, con la vera e propria introduzione della legge, in Florida,  Rhode Island e North Carolina. Gli effetti delle leggi possono valere tanto per gli indigeni che occupano le autostrade quanto per i movimenti urbani, come è stato nel caso di Black Lives Matter, che bloccano le arterie delle città. Nel commentare la sfilza di approvazioni degli ultimi mesi, un articolo apparso sul The Outline fa notare che la difesa dei conducenti di auto, oltre a minare le mobilitazioni, si appoggia su fatti recenti: negli ultimi anni si sono verificati vari incidenti per investimento di manifestanti da parte dei conducenti. Capiamo, dunque, che la strategia politica dei conservatori, in cui i neonazisti sguazzano felici, definisce come violenti e ancor più fuori dalla tutela della legge gli attivisti e i partecipanti di sit-in, cortei, blocchi. Di qui il passo per porre sullo stesso piano una manifestazione in difesa dell’uguaglianza e un raduno di suprematisti è molto breve. 

Il connubio tra Trump e l’alt-right non sarà una sorpresa ma rimane pericoloso. Il reciproco supporto che direttamente e indirettamente si è creato risulta esplosivo perché unisce la nuova ragione populista contro i nemici venuti dall’esterno (migranti, nazioni intere, mercati finanzari) al retroterra culturale puritano e suprematista, facente parte del DNA degli Stati Uniti da due secoli, che individua i nemici interni. Ad ogni forza corrisponde, però, una forza opposta. La radicalizzazione dei movimenti americani e la molteplicità di eventi di protesta vanno lette in questo senso e rappresentano l’antidoto più efficace al veleno del nazionalismo bianco.