Riflessioni sulla proposta della Fiom di allargarmento dello sciopero generale dei metalmeccanici del 16 novembre

Che cos’è sciopero?

18 / 10 / 2012

Sono ormai diversi anni che ci confrontiamo su come generalizzare le giornate di sciopero indette dai sindacati, in particolare dalla Cgil o dai sindacati di categoria. Generalizzare nel senso di estendere, in maniera sensata e virtuosa, una modalità (quella dell’astensione dal lavoro come forma di lotta) tipica del lavoro salariato e dipendente a settori sociali per i quali molto spesso l’ottenimento di un banale co.pro diventa una reale conquista individuale.

“Generalizzare” uno sciopero sindacale rappresenta una necessità strategica, proprio per la difficoltà oggettiva e soggettiva di costruire forme di lotta autoconvocate, chiare, riconoscibili ed assumibili da tutto il corpo sociale precario. Tutti abbiamo provato ad analizzare e capire come riprodurre Oakland. Tutti, in Italia, siamo stati dentro la grande giornata di sciopero dei migranti del 1 marzo 2010. Ma queste giornate si configurano ancora come unicum, come corti circuiti definiti da un insieme di fattori che sono ancora lontani dal trasformare l’evento in un processo (la grande suggestione di occupy negli Usa per Oakland, la rivolta di Rosarno per lo sciopero dei migranti).

Negli ultimi anni la gestione della crisi da parte della dalla governance globale, ed in particolare europea, hanno ridefinito i fattori differenziali che storicamente separavano lavoro salariale e lavoro precario, dipendente ed indipendente, occupato e di riserva. Questo soprattutto attraverso la finanziarizzazione delle nostre esistenze, che porta la rendita finanziaria a sussumere sempre maggiori quote di salario, reddito e Welfare residuale (di tipo familiare, aziendale o statale). In particolare le politiche di socializzazione del debito hanno individuato un nuovo terreno di accumulazione, che si esprime nella privatizzazione organica di Welfare pubblico e nell’attacco ai diritti.

Ma non è tutto “merito” del capitale. Glissando sul panorama globale ed europeo (non per svogliatezza ma per esigenza di sintesi), mi soffermo brevemente su Taranto. Qui, aggredendo nella sua complessità il modello del ricatto che può essere riassunto nell’espressione “o lavori o ti ammali”, i “Liberi e Pensanti” sono riusciti a rompere quel muro tra reddito e salario, tra fabbrica e città, tra operai e precari, studenti e cittadini, che i sindacati hanno provato a blindare con scarso successo. In sintesi le lotte, specie quelle territoriali, sono riuscite ad unificare e non contrapporre l’eterogeneità dei rapporti sociali di produzione contemporanei.

Ecco allora che la dimensione di sciopero può assumere in questa fase un significato ricompositivo, in grado realmente di esercitare qualcosa di più che una semplice attrazione per tanti segmenti del corpo sociale.

C’è innanzitutto un nodo importante da mettere a tema, che riguarda le modalità con cui trasformare in lotta politica unitaria una potenziale ricomposizione sociale, provando a guardare oltre i clichè retorici che spesso accompagnano questa prospettiva. Onestamente si tratta di un nodo aperto, che l’esperienza di Uniti contro la Crisi ha provato ad affrontare in maniera pubblica e con una vocazione maggioritaria, costruendo connessioni vive tra lotte sociali vere (gli operai, gli studenti, i comitati territoriali).

A distanza di due anni il quadro di fase è totalmente diverso e gli spazi di praticabilità di un’alternativa politica edificata dal basso ne risultano sensibilmente compromessi. Ma il patrimonio più grande che ci ha consegnato questa esperienza è stato quello di avere individuato nella ricomposizione e nell’abbattimento delle barriere tra lavoro salariato e lavoro precario il vero motore del cambiamento sociale.

E’ altrettanto vero però che se la necessità di costruire coalizioni sociali rimane un punto fermo dell’agenda politica, si è palesato sempre più che l’unico metro possibile per lavorare in questa direzione è quello di comprendere quali siano le forze sociali e politiche, le soggettività, i corpi che vanno realmente nella direzione dell’alternativa di sistema, di un cambiamento radicale del paradigma sociale, economico, ambientale, politico. In altri termini, partendo dal presupposto che bisogna confrontarsi con (quasi) tutti, un’ipotesi progettuale di coalizione può essere fatta con chi non ha paura di questo cambiamento o non lo interpreta solamente come puro dato estetico o di etichetta.

Inserendolo in queste considerazioni, lo sciopero generale di categoria convocato dalla Fiom per il 16 novembre si presenta in una prospettiva ambiziosa quanto ambivalente. Il fatto che questa volta sia proprio la Fiom a rendere pubblica la propria intenzione di aprire ad altri settori sociali il proprio sciopero generale apre scenari senza dubbio interessanti, ma tutt’altro che semplici da interpretare.

Se da un lato non possiamo non tener conto di una giornata promossa da un soggetto che, con tutte le contraddizioni ontologiche relative ad una struttura sindacale “classica” in questa fase storica, è stato presente in tante lotte reali negli ultimi anni, dall’altro è necessario considerare che la modalità “sciopero”, specie quando ha avuto una definizione territoriale, ha riscontrato una difficoltà oggettiva ad andare oltre la forma classica del corteo/manifestazione sindacale.

Specie laddove si era lontani dalle fabbriche in lotta o dalle grandi vertenze, gli scioperi territoriali hanno visto prevalere, sia nella costruzione sia nello svolgimento della giornata, quella burocrazia sindacale poco avvezza a comprendere e valorizzare la rottura della routine. Questo nonostante che molto spesso studenti, precari e attivisti dei movimenti abbiano provato a stimolare un ragionamento comune, durante le assemblee pre-sciopero e le varie discussioni pubbliche, su come poter allargare a tante e tanti la dimensione dello sciopero.

In virtù di queste considerazioni può essere utile approcciarsi alla scadenza del 16 novembre ponendo pubblicamente alla Fiom una semplice domanda: “cosa è sciopero adesso?”, “come pensiamo di renderlo efficace e non auto-rappresentativo?”, “come pensiamo tutti insieme farlo diventare realmente uno strumento di lotta?”. Ovviamente si tratta di un interrogativo da interpretare nella sua sostanza aperta e declinabile, in modo da definire su un terreno concreto le possibilità che il 16 novembre possa effettivamente aprire. Le risposte le attendiamo non dalle dichiarazioni dei dirigenti nazionali, ma nella convocazione immediata di assemblee dei delegati aperte in tutti i territori, che abbiano un carattere orizzontale e che si pongano come laboratorio vero di costruzione dello sciopero.

Con questo spirito #occupymonti si colloca innanzitutto come proposta aperta di generalizzazione del 16 novembre. Aprire uno spazio in questa direzione significa innanzitutto provare a valorizzare, nelle convergenze contro il governo Monti, le politiche di austerity e la socializzazione del debito, l’insieme delle lotte che animano i territori. Ed è proprio dentro i territori che #occupymonti deve affermarsi ed allargarsi, riaprendo ovunque una discussione vera e maggioritaria sul tema del reddito. Non è possibile confinare questa questione ad un referendum che pare essere l’ultimo appiglio a sinistra per alcuni partiti più che una reale proposta politica.

Rimettere il reddito al centro del dibattito pubblico è necessario soprattutto in una fase in cui le nostre vite si confrontano quotidianamente con i drammi che ridisegnano in continuazione il paradigma della precarietà, legati alla perdita del lavoro, alla chiusura delle attività commerciali e produttive, alla beffa dell’attività lavorativa non retribuita di stage, tirocini e simili.

Ovviamente non è la teologia dell’evento ad ispirare questa proposta, quanto la volontà di costruire un processo, che abbia nella continuità di iniziativa e nell’attitudine di massa i suoi connotati basilari.

Infine credo sia necessario riaprire con forza un discorso sulle pratiche, anche in relazione alle spinte che provengono dai movimenti di altre parti di Europa, che troveranno il modo di confrontarsi durante il meeting Agora99, in scena a Madrid dal 2 al 4 novembre. L’auspicio è che l’appuntamento europeo rappresenti, in termini di stimoli e suggestioni, il trampolino di lancio per rendere il termine conflitto nuovamente protagonista del vocabolario politico di questo paese. Il conflitto nel suo divenire lotta di classe, che nulla ha a che fare con il narcisismo riot o con quella deriva reazionaria che si esprime in termini di indefinita “rabbia sociale”.

Antonio Pio Lancellotti - CSOA Ex Mattatoio - Perugia