Che futuro per il NO

Contributo di Agire nella Crisi verso ed oltre la manifestazione del 27 novembre ed il voto del 4 dicembre

22 / 11 / 2016

Il giorno del referendum costituzionale si avvicina, e non lo notiamo soltanto dal calendario. La trepidazione che si nota ai “piani alti” è sempre più sintomo di paranoia e schizofrenia perché sul voto referendario, al di là dei successivi ridimensionamenti, si gioca una partita politica. Non tanto sulla figura del “carismatico e giovanilista” Renzi, quanto sull’opzione politica neoliberale che ha rappresentato il Partito Democratico e la sua contemporanea forma di governo del Nazareno. In questi mesi, del resto, da JP Morgan a Merkel, passando per Obama e Bankitalia, l’intero convoglio delle oligarchie contemporanee ha espresso il suo gradimento per la riforma Boschi-Renzi.

Diversi argomenti sono stati utilizzati per supportare questa scelta, ad esempio il sempiterno fantasma dell’innalzamento dello spread o la retorica della “spallata italiana” all’austerità europea. Addirittura, dopo una prima apertura del Consiglio europeo alla flessibilità per i Paesi che sono maggiormente punto di approdo dei flussi migratori, la Commissione accetta, sebbene con riserva, la legge sul bilancio 2017 in cui si prevedono margini più ampi per sforare i dettami del patto di stabilità; Draghi, dal canto suo, prolunga almeno fino a marzo il suo bazooka del Quantitative easing per garantire liquidità nella nuova fase della flessibilità prevista dallo stesso Juncker nel giro dei prossimi mesi. Una sorta di percorso privo di ostacoli viene fornito al PD dalla governance europea (chissà ancora per quanto!) al fine di integrare la sua propaganda politica tutta giocata sul cambiamento in sé, sul risparmio dai costi della politica, sulla rapidità della produzione legislativa.

C’è chi dice NO

E’ utile partire da queste seppur brevi considerazioni per contestualizzare nella fase politica il merito dell’intervento costituzionale. Le pesanti modifiche che andranno a toccare una parte consistente della Carta del ’48 sono un tentativo di adeguamento ai tempi storici che le élites neoliberali, organiche ai partiti tradizionali, stanno cercando di attuare al fine di rispondere alla crisi della rappresentanza moderna, e dunque della democrazia rappresentativa. Una crisi che, a livello globale, deve far fronte alle tensioni contingenti tra quel blocco emerso con il “nuovo ordine neoliberale” e le nuove, contraddittorie, forme della politica denominate sotto la generale etichetta di populismi. Con la proposta di modifica costituzionale l’inattualità degli assetti istituzionali e delle forze politiche che li abitano, del meccanismo della delega senza vincolo di mandato e l’irruzione di nuovi gruppi partitici non tradizionali, vengono risolte attraverso una centralizzazione e un restringimento dei tempi, degli spazi e degli strumenti attraverso cui si è concepito e praticato il potere esecutivo e legislativo. Il Parlamento viene posto nelle mani dell’esecutivo che, grazie al lauto premio di maggioranza che verrà garantito dalla riforma elettorale, potrà stabilire una linea diretta di continuità con la Camera, unico organo che avrà capacità piena di produzione legislativa. Il governo, nel migliore mondo neoliberale possibile, dovrebbe di conseguenza diventare ancor più prossimo punto di terminazione delle decisioni prese dai mercati finanziari, dalle oligarchie europee, dal mondo delle big corporation, grazie al superamento dei limiti e delle pastoie sia temporali che procedurali caratterizzanti l’iter istituzionale italiano.

La velocizzazione dei tempi della politica è in realtà una costituzionalizzazione dello stato di eccezione, della logica dell’emergenza costante per la quale è necessario il più solerte decisionismo. Se ci fosse poi alcun dubbio sulla questione, il contenuto della decisione deve andare incontro agli interessi della speculazione dei mercati, alla rendita ed al profitto, con l’attuazione delle politiche di abbassamento del costo del lavoro e con il finanziamento delle grandi opere e delle infrastrutture strategiche.

L’ingente quantitativo di risorse pubbliche previsto per la strutturazione dei progetti cosiddetti di “interesse nazionale” (nello Sblocca-Italia parliamo di 3.851 milioni di euro), a fronte della loro dannosità e inutilità, lascia intravedere molto chiaramente la funzione della modifica del Titolo V della Carta che ascrive alle competenze esclusive dello Stato le politiche energetiche, ambientali, infrastrutturali e sui trasporti, svuotando l’autonomia degli enti locali (Comuni, Città metropolitane Regioni). Da una parte, scarseggiano i finanziamenti per le disposizioni rispetto alla messa in sicurezza dei territori ed il miglioramento degli istituti della previdenza sociale, ben dimostrato dall’ultima Legge di bilancio; dall’altra lo Stato continua a creare le condizioni di possibilità per la rendita capitalistica mosso dall’idea neoliberale che la concorrenza, quindi maggiori libertà per le imprese a scapito dei diritti sul lavoro, sia il motore della ripresa.

E’ su questo punto in particolare che abbiamo potuto valutare positivamente il nostro protagonismo nella campagna “C’è chi dice NO”. Toccando con mano la concreta quotidianità dei nostri territori in crisi, non può sfuggire che la difesa dell’ambiente, della ricchezza collettiva, dell’istanza democratica dal basso siano nodi centrali per la costruzione di organizzazione e mobilitazione sociale. Per tutta la penisola una miriade di comitati, assemblee di quartiere, movimenti organizzati, centri sociali, sindacati indipendenti, reti di associazioni e collettivi studenteschi si battono contro l’estrazione di valore dai loro territori e lo spossessamento della ricchezza; si battono per un’alternativa radicale che dal locale rimanda ad un nuovo modello di sviluppo e di istituzionalità dal basso. Proprio tutto ciò che sarebbe ulteriormente compromesso con l’approvazione della riforma costituzionale, la quale sancisce a livello formale ciò che di fatto viene praticato ed imposto da anni dalle politiche statali ed europee. Il “NO sociale” è stato per noi fin dall’inizio non tanto un immaginario retorico vuoto (giocato sull’evocazione di non si sa bene quale soggettività o sulla nostalgia della Costituzione “originaria”), quanto il diretto coinvolgimento di quelle realtà di base e il volano della loro cooperazione su scala nazionale, ricercando e praticando un comune tra le differenti rivendicazioni locali. Non solo: è stata la maniera per rendere esplicite le responsabilità del governo che nella storia del nostro Paese ha maggiormente ridimensionato le conquiste che le lotte sociali avevano ottenuto nel secolo precedente.

Politicizzare il NO

Non ci è mai interessata la difesa della Costituzione formale del ’48: per quanto alcuni principi siano tuttora validi, troppi articoli richiamano il comando sul lavoro vivo e troppo senso storico ha perso nel corso degli ultimi decenni, caratterizzati dal diffondersi esponenziale di una precarietà rimasta totalmente orfana di diritti e garanzie. La costituzione materiale ha già da tempo sovrastato quella scritta dai Costituenti. Eppure, sappiamo bene come la vittoria del SI al referendum renderebbe ancora più forte la controparte e renderebbe più difficile il dischiudersi di alcune condizioni di possibilità. La mobilitazione del NO sociale alla riforma costituzionale non deve essere vissuta come semplice sommatoria tra esperienze, ma come un percorso in grado di aprire prospettive progettuali, di determinare nuovi orizzonti ed approfondire le contraddizioni capitalistiche attuali. Per fare tutto ciò, è indispensabile politicizzare il NO e saperne differenziare i contenuti nelle pratiche e nelle narrazioni politiche che ne derivano.

Tutta la partitocrazia becera ha infatti colto l’occasione per saltare sul carro del NO: dai razzisti, sessisti e xenofobi fino agli arrivisti e opportunisti della prima e ultim’ora, quali sono le minoranze dem. Non bisogna sottovalutare il loro discorso pubblico, soprattutto quello che proviene da destra, a scopo puramente elettorale. La motivazione non sta solo nell’alternanza al potere che si vuole propagandare, ma nella capacità di soggettivazione che quel preciso discorso produce nella materialità delle relazioni sociali. Il NO “anti-sistema” salviniano e in parte quello grillino sono delle casse di risonanza e un motore delle forme di vita individualizzate, egoistiche, competitive e arroccate sulla difesa identitaria dei pochi (o molti!) diritti e privilegi che hanno. Le elezioni negli Stati Uniti non sono troppo lontane per non farci venire alla mente la scelta politica che hanno fatto tantissimi statunitensi. Una scelta che ci parla di rabbia latente orizzontale, di ancoramento alla tradizione storica intrisa di diseguaglianze sociali ed economiche, di orizzonte d’aspettativa sulla fine della crisi immerso nell’attaccamento reazionario al proprio privilegio sulla linea della classe, del colore della pelle e del genere. Certo, un voto contro il sistema dei partiti storici e delle élites, un voto che palesa una realtà sociale in forte crisi, che individua le gravi responsabilità dell’attuale modello economico neoliberale, ma che si è espressa nella dimensione sociale, prima che politica, attorno alla chiusura xenofoba e ad un concetto di antagonismo che ritrova le vecchie, superate radici nativiste, protezionistiche ed estremamente disciplinari del capitalismo di altri tempi. Un emergere di una contraddizione che è sintomo, non la causa, delle odierne gerarchie e dello sfruttamento contemporaneo. In questo approccio le rivendicazioni individuali, autocentrate rispetto alla propria condizione, prevalgono su quelle comuni, che attengono alla redistribuzione collettiva della ricchezza. Non facciamo questa parentesi a scopi retorici: dobbiamo riconoscere il carattere globale, interconnesso, estremamente comunicativo del cosiddetto populismo. La vittoria di Trump ha parlato molto a Salvini, Le Pen, Orban, in maniera diversa anche a Grillo. Soprattutto, a così poca distanza dal referendum, ha parlato a moltissimi e moltissime italiani.

Avere la cognizione dei fenomeni politici e della composizione di classe è di estrema importanza proprio per riuscire ad ancorare il nostro NO a prospettive realistiche di rilancio di spazi e percorsi di movimento, capaci di travalicare il tema referendario e di ricollocare le potenzialità conflittuali dentro le condizioni materiali ed i rapporti sociali che ne sono implicati. L'appuntamento del 27 novembre ed il percorso di avvicinamento ad esso che abbiamo seguito, proprio perchè collocati all'interno della finestra sociale e politica di un referendum costituzionale, hanno inevitabilmente assunto contenuti e connotati generalisti. In un simile contesto è importante non perdere di vista la problematica strutturale rappresentata dal fatto che il cosiddetto “fronte del NO” non è espressione di un blocco sociale portatore di un progetto complessivo di cambiamento: al contrario, la sua composizione politica costituisce un aggregato coacervico di organizzazioni, percorsi e realtà non solo lontani tra loro, ma addirittura radicalmente contrapposti. Per queste stesse ragioni misurare la forza o la debolezza di un fronte o dell'altro sulla base del mero calcolo numerico dei NO e dei SI sarebbe un errore. Pur in presenza di una vittoria del NO le variabili che si addenseranno nella fase post referendaria saranno molteplici: chi ritiene di avere in tasca la carta per vincere la mano di una nuova compagine governativa cercherà di spendere la moneta del risultato referendario sui propri tavoli da gioco, tutti concentrati nella “stanza” dedicata alla partita del governo del Paese. Il NO sociale, quello vero, quello che nasce dalle resistenze territoriali e cresce nei progetti di trasformazione che esse producono, non ha un suo tavolo in quella stanza. Chi dice che è lì dentro per giocare la partita delle istanze sociali faccia pure il suo gioco, ma non è la nostra partita. Mantenersi su un piano generalista in assenza di dispositivi politici generali di movimento rischia di precludere prospettive, anziché aprirle. E’ nell’immanenza delle esperienze e delle lotte sociali che possiamo ribaltare l’aspetto generalista, funzionale all’alternanza di potere facile e compatibile, per far vivere il NO dentro una vocazione generalizzatrice e maggioritaria delle lotte sociali, dandogli senso politico oltre la scadenza referendaria. Per questo è di vitale importanza che il NO sociale trovi da subito i luoghi ed i percorsi attraverso cui sia possibile uscire dalla finestra referendaria con una piattaforma di lotta e di rivendicazioni che, muovendo dall'opposizione alle politiche governative e del Partito Democratico, individui gli snodi sui quali agire ed attraverso i quali costruire prospettive comuni tra le mille forme di resistenza e conflittualità che innervano i nostri territori. Territori che a fronte del tentativo macroscopico di sottrazione di decisionalità messo in campo con la riforma costituzionale devono, invece, rivendicare potere, quello vero che serve alle nostre “mani”, quello che si ridistribuisce nel sociale e si misura da subito con le condizioni materiali di vita attraverso il rovesciamento delle grandi opere, dei patti di stabilità, dello Sblocca Italia, dei nuovi mega inceneritori che vogliono costruire, quello attraverso cui è possibile  rivendicare risorse e “sicurezza”, non quella dei militari e dei poliziotti, ma quella della casa, del reddito, della ricostruzione tempestiva fuori da ogni speculazione di ciò che il terremoto ha distrutto gettando sul lastrico migliaia di persone e mettendo a rischio la sopravvivenza di intere comunità.  

Verso il 27 novembre ed oltre

L’importante manifestazione di Roma, ed il voto del 4 dicembre, sono date che ci daranno prova dell’accumulo e inizieranno a creare, non esaustivamente, alcune condizioni di possibilità nel futuro; degli spazi politici che devono restare aperti per non essere schiacciati sul referendum, e, dunque, per non essere preda di appropriazioni indebite o di un senso di sconfitta eventuale. Gli scenari del post-referendum sono difatti molteplici e non scontati, sia nel caso di vittoria del SI che del NO. Innanzitutto, non è automatico che ad un rifiuto della riforma segua una fase di mobilitazione sociale, preludio di una ingovernabilità politica, che faccia cadere immediatamente Renzi. Lo spauracchio del populismo, la turbolenza dei mercati, la “pelle dura” delle oligarchie neoliberali in crisi rendono difficile una naturale dimissione di Renzi. Inoltre, proprio nel caso di vittoria del NO, dobbiamo approfondire e rilanciare nella direzione delle lotte che hanno espresso quella scelta: nella direzione di chi si batte contro le grandi opere e infrastrutture inutili, il commissariamento dei territori, il capitalismo predatorio ed estrattivo. Su queste basi possiamo partire e investire su un’opzione politica chiara e distinta che, peraltro, rinvia ad un progetto di superamento delle attuali norme costituzionali e alla produzione di un diritto altro. Sono queste le basi che devono servirci anche e soprattutto per creare momenti di mobilitazione dopo il 4 dicembre o per attraversare, con capacità di proposta autonoma, quelli che potrebbero verificarsi. Affidarsi, senza questa chiarezza determinata, alla generale rivendicazione di dimissioni ci espone alle contraddizioni della fase, contraddizioni che permarrebbero anche nel caso di una vittoria di un populismo più light come quello dei Cinque Stelle.

A nostro avviso la manifestazione di Firenze in occasione della Leopolda renziana ha saputo dare una prima spinta e un contenuto, politico e situato, alle ragioni del NO, rompendo mediaticamente e pubblicamente l’egemonia delle destre e dei pezzi di apparato del PD. Le contestazioni a Renzi durante il tour del SI, condite da manganellate e lacrimogeni, che ci sono state in tante piazze italiane, da Nord a Sud, dalle metropoli alle città di Provincia, lanciano chiaramente il segnale di un Paese non pacificato. Certamente tutto questo non è sufficiente e molto lavoro politico c’è da fare in vista del 27 novembre, durante la manifestazione ed immediatamente dopo. Nei territori, nella quotidianità, trasformando i legami sociali polverizzati. Una sfida che dobbiamo assumerci fino in fondo sviluppando il più possibile la capacità di comporre e di connettere le diverse e variegate manifestazioni dell'opposizione sociale. Sotto questo profilo la manifestazione del 26 novembre contro la violenza maschile sulle donne e contro la violenza di genere è certamente un processo e un momento, che agisce molecolarmente a livello delle relazioni e della soggettività creando anticorpi e nuova cultura politica contro le derive reazionarie in seno alla società.

La particolarità della situazione politica ci impone di valutare nella contingenza le scelte e le strategie per il cambiamento radicale dell’esistente. Questo non significa fare dell’attendismo la propria virtù o non azzardare, non rischiare: chi non ci prova, ha già perso in partenza. Significa, piuttosto, partire dall’esperienza e da ciò che percepiamo, dalle lotte che coinvolgono e che uniscono; vuol dire essere all’altezza dei tempi e capire da che parte stiano mutando per intervenirvi.