Chi decide?

24 / 1 / 2012

Chi decide? è il titolo del miglior testo di filosofia politica che ha aperto il secondo decennio del secolo e che ben si attaglia all’esperienza italiana fra collasso del berlusconismo e incerto varo del governo “tecnico” Monti nella bufera della crisi. Massimiliano Guareschi e Federico Rahola, dopo aver decostruito con grande acume la mitologia dello stato d’eccezione che, a partire da una breve e abbandonata infatuazione schmittiana è diventato un tormentone del radicalismo chic italiano, finiscono per misurarsi problematicamente con le concezioni foucaultiane del potere e della soggettivazione, da cui comunque estraggono alcuni assunti decisivi sulla segmentazione post-sovrana della governance e l’opacità impersonale dei dispositivi discrezionali dell’amministrazione e della finanza. Quello che però più ci interessa del libro è la luce che getta sui meccanismo politici che abbiamo in funzione adesso. Faccio qui degli esempi, a titolo del tutto personale.

Primo, la favola della personalizzazione, di un uomo solo al comando, come hanno auspicato i leader italiani da Craxi a Berlusconi, in genere lagnandosi che qualcuno glielo impediva. Oggi, guardandoci indietro dalla prospettiva della “sobrietà” montiana, ci sembra una grande mistificazione, che ha coperto in maniera spettacolare (degradando da Re Lear al Bagaglino) la transizione dalla crisi dello Stato dei partiti al dominio diretto e anonimo degli apparati finanziari globali. La coppia catastrofe-comandante salvifico ha funzionato male, a Palazzo Chigi come nella plancia della Costa Concordia e i capitani coraggiosi hanno salvato per primi se stessi: ad Hammamet, a Villa Certosa, sugli scogli del Giglio. La recita decisionista si è spompata nella frammentazione del processo decisionale, nella zona grigia degli effetti dispersi di sovranità. La decadenza ha contagiato tutti i comprimari –dallo scarrupato Bossi al floppato Saviano, dall’ammosciato La Russa allo sciallante Bersani. Ormai non c’è ritorno alla Costituzione che tenga. Il dentifricio non rientrerà nel tubetto.

Secondo. La vittima più illustre (gli oppressi e i naufraghi, si sa, non contano) è stato il venerabile Parteienstaat, la forma più complessa dello Stato sociale liberale puntellato dalle grandi organizzazioni di massa, che si è sfasciato, dopo la fine della minaccia del socialismo reale, sotto i colpi del neoliberismo e infine della crisi. Che oggi in Italia la fiducia nei partiti sia crollata al 4% è la verifica sondaggistica del mutismo in cui sono precipitati i famosi “poli” dopo il voto bulgaro al governo Monti. Spariti i leader, sparita la loro mitica base, inceppato ogni meccanismo di rappresentanza dopo il brutale tentativo di regolamentarla dall’alto delle segreterie con il multi-partisan Porcellum.

Terzo. Un immediato riscontro balza agli occhi quando nel libro di parla di riaggregazione di singoli apparati statali e bancari su linee non riconducibili a un’opposizione binaria nazionale/internazionale. Non solo, cioè, lo stato d’eccezione si diluisce in molteplici eccezioni e “la” decisione cede il passo a una serie di decisioni che fanno capo agli spazi di discrezionalità disseminati nelle reti amministrative e giurisdizionali, ma prendono rilievo alcuni segmenti istituzionali (Buba, Bankitalia, ministeri economici) e privati (dalle agenzie di rating alle multinazionali bancarie) che operano con larghi margini di autonomia a cavallo fra dimensione nazionale e sovranazionale, importando nella prima logiche globali di mercato (che possono essere anche confliggenti, tipo fra Bce e Fmi) sottraendosi non solo al controllo delle rappresentanze parlamentari ma anche dei comunque rafforzati esecutivi. La letterina della Bce all’Italia è stato un esempio da manuale. La disseminazione di killer della Goldman Sachs nei governi “emergenziali” lo è altrettanto. Lo schmittiano affiancamento della lex mercatoria alle sovranità nazionali era un idillio, al confronto.

Siamo lungi, tuttavia, dal pensare che la gestione tecnocratica, frastagliando l’esercizio del potere, riesca laddove hanno fallito i governi precedenti. La crisi, innanzi tutto, si rivela di giorno in giorno più incontrollabile ed è assai dubbio che le forze che l’hanno scatenata, con la deregolazione globale e il corporate greed, riescano a sanarla. La stessa ristrutturazione mondiale, che in genere succede a ogni grande crisi, stavolta non sta spostando solo il rapporto fra Usa ed Europa e all’interno dell’Europa, ma corre diretta verso un indebolimento di tutto il blocco occidentale a vantaggio dei nuovi paesi emergenti dell’Asia e dell’America Latina. Draghi e Monti cercano di tamponare le falle, ma difficilmente potranno dilazionare il declino. Ben più rilevante è però prendere atto di quanto le lotte stiano intralciando i complessi progetti del governo tecnico, scardinando proprio quel gioco delicato di ingranaggi e giunture con cui si esercita un potere post-sovrano. Se i partiti di sinistra stanno lasciando passare l’ambizioso progetto di cancellare l’art. 18 e la validità legale del titolo di studio (due obbiettivi falliti dai precedenti governi), l’insieme dei “sacrifici”, benedetto con grandi belati dalle forze politiche, ha scatenato una confusa ma devastante protesta sociale. Opaca e grigia non meno della temperie della governance, ma volta in senso opposto –questo conta.

Desistiamo dunque dal piangere su una presunta sospensione della legalità costituzionale (e ancor meno acclamiamo, con Asor Rosa, un colpo di Stato buono del carissimo Presidente), non ripieghiamo su un sovranismo di ritorno, non immaginiamoci il cambiamento quale messianica destituzione del potere (il contraltare di quel miracolo secolarizzato che era lo stato d’eccezione), lavoriamo al contrario per inceppare i dispositivi di governance sul piano italiano ed europeo, ricostruendo un senso e un tessuto coerente (per quanto possibile) nella tumultuosa resistenza che attraversa una società in sfacelo ma non più in torpore.

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