Ciak, motore, azione! Femminismo in scena

17 / 1 / 2018

“So I want all the girls watching here and now to know that a new day is on the horizon!” (Quindi voglio che tutte le ragazze che ora stanno guardando sappiano che all’orizzonte c’è un nuovo giorno!) così Oprah Winfrey conclude il suo discorso ai Golden Globe, dopo aver ritirato il Cecile B. DeMille award, il Golden Globe alla carriera.

L’edizione di quest’anno è stata preceduta dall’invito a tutte le donne a vestirsi quel giorno di nero, da parte di un gruppo di più di 300 tra attrici (come America Ferrera, Eva Longoria, Nina L. Shaw, Reese Witherspoon), scrittrici, registe, produttrici (Shonda Rhimes), avvocate (Nina L. Shaw e Tina Tchen ); le stesse che qualche giorno prima hanno annunciato il progetto Time's up.

Dopo l’ondata di denunce a Harvey Weinstein si è diffuso nei social network l’uso di un hashtag, #metoo, nome scelto in origine da Tarana Burke che nel 2007 aveva fondato un’organizzazione no profit a sostegno delle donne afroamericane vittime di abusi e molestie. L’hashtag ripreso da Alyssa Milano su twitter il 15 ottobre ha scatenato una pioggia di testimonianze nei social, così come stava già succedendo da qualche giorno in Italia con il lancio di #quellavoltache da parte di un gruppo di femministe, tra cui Giulia Blasi, il 12 ottobre.

Il racconto collettivo che ne è risultato ha portato in superficie qualcosa che già conoscevamo tutt*, che era ben noto, nascosto tra il non detto e la cara vecchia compiacenza.

Il ‘vaso di pandora’ che si è scoperchiato in America ha avuto conseguenze concrete per alcuni dei produttori, attori e giornalisti che sono stati accusati: Mark Halperin, Michael Oreskes, Glenn Trush, Louis C.K., Kevin Spacey che al momento si sta  “curando” e per Weinstein stesso, che non ha più fatto alcuna uscita pubblica. Si conta siano più di trenta gli uomini che sono stati denunciati.

Quello che è stato in seguito definito “#metoo movement” ha sicuramente avuto il merito di delineare e dipingere il fenomeno della violenza per quello che è: una questione che riguarda tutte, che ha a che fare con i rapporti di potere del patriarcato che ognuna nel corso della propria vita ha dovuto sperimentare.

Il diffondersi degli hashtag in Italia e negli Usa ha avuto risposte sicuramente diverse, così come in modo differente sono state accolte le denunce da parte delle donne molestate, sebbene in entrambi gli Stati la situazione per quanto riguarda libertà di scelta e parità di diritti per le donne e la comunità LGBTQI* non sia rosea.

Negli USA solo da quando Trump è stato eletto (dopo che ben 13 donne lo avevano accusato di molestie durante la campagna elettorale) è stata approvata la global gag rule, che prevede che non vengano concessi finanziamenti ad associazioni non governative che sono in qualche modo legate all’aborto (che si occupano ad esempio di consulenze o di decriminalizzazione) e sono state proibite sette parole e frasi nella stesura del documento di bilancio del Center For Disease Control and Prevention: vulnerabile, diritto, diversità, transessuale, feto, basato sulle evidenze, basato sulla scienza.

L’Italia, dal canto suo, non si  smentisce mai: in risposta alla denuncia della violenza subita quando aveva 21 anni da parte di Harvey Weinstein, Asia Argento viene dipinta nei social e nella stampa come una ragazzina che se l'è cercata, come una povera ingenua che non sa come va il mondo o meglio come una bugiarda che reale vittima non è.

Da più parti si mette in guardia dall’iniziare una ‘caccia alle streghe’, e si delegittimano le vittime, che ‘potevano denunciare prima’. Il più recente attacco arriva da un’attrice francese, Catherine Deneuve, tra le 100 firmatarie di una lettera pubblicata da Le Monde in cui avvalendosi dei peggio cliché antifemministi e sfoderando un sessismo e un semplicismo disarmanti raccomanda di non diventare troppo puritane, che questa potrebbe essere “la fine della seduzione”, alimentando una retorica sessista pericolosa, dove si confondono i piani perdendo di vista che il fulcro è il consenso, sicuramente non l’incapacità delle donne di interpretare un rapporto di seduzione.

Questa pioggia di racconti ha sconvolto Hollywood che cerca ora di salvarsi la faccia con un progetto tutto femminile, Time’s Up appunto, che ha creato un fondo di oltre 13 milioni di dollari per aiutare le donne meno privilegiate a difendersi dalle molestie e dai contraccolpi di una denuncia; promuove una normativa che penalizzi le compagnie che tollerano le molestie sessuali e che scoraggi l’uso di accordi di confidenzialità per silenziare le vittime; infine sostiene il raggiungimento della parità di genere negli Studios e nelle talent agency.

Le ideatrici del progetto hanno anche proposto alle donne di vestire di nero ai Golden Globe, e lanciato nei social l’hashtag #wewearblack.

E così è stato per buona parte dei e delle partecipanti, alcune delle quali hanno anche pensato di portarsi un’attivista da esibire durante la serata: per queste per lo meno la cerimonia è stata una buona occasione per dare visibilità alle proprie lotte, in un momento in cui la sottrazione di diritti e i tagli al welfare sono consistenti. Tra le altre erano presenti: Saru Jayaraman presidente del Restaurant Opportunities Centers United; Billie Jean King fondatrice della Women’s Sports Foundation e della Women’s Tennis Association; Marai Larasi direttrice esecutiva di Imkaan, rete di organizzazioni che combatte la violenza contro donne e ragazze di colore; Calina Lawrence, attivista per i diritti dei nativi americani e la stessa Tarana Burke.

Altre voci erano invece assenti e hanno dimostrato il loro disappunto nei social: Rose McGowan, la prima ad accusare Weinstein, Asia Argento, Rosanna Arquette, Mira Sorvino e Annabella Sciorra, che grazie alle loro testimonianze nell’inchiesta del New Yorker hanno dato il via all’ondata di denunce e di fatto permesso la presa di coscienza collettiva che vediamo oggi. 

Le accuse di contraddizioni e ipocrisia sono giunte anche da Dylan Farrow che nel 2014, in una lunga lettera sul New York Times, aveva ribadito di aver subito molestie all'età di sette anni da parte del padre adottivo Woody Allen. Al processo, avvenuto all'inizio degli anni Novanta, il regista era stato assolto per mancanza di prove. Dylan ha additato attori e attrici che, pur esibendo le spillette di Time’s Up ai Golden Globe, hanno continuato a lavorare con lui nonostante le sue accuse.

Così a Hollywood è andato in scena quello che qualcun* ha definito “performative feminism”, che sicuramente ha il pregio di aver usato i Golden Globe come un megafono per parlare di parità, di gender gap, di empowerment, una cosa del genere può essere potente certamente, ma i bei discorsi, l’emotività che ne consegue, il dipingere un “nuovo giorno all’orizzonte” non bastano se l’impegno per un cambiamento sistemico trasversale non viene messo in atto: un impegno che per chi vive dei tappeti rossi è troppo spaventoso anche solo per fingere di volerlo davvero, è una trasformazione che dovrebbe rovesciare i rapporti di potere, dovrebbe parlare di cultura del consenso, come scriveva Laurie Penny in un recente articolo (qui in italiano), di cultura del desiderio, e di parità di diritti sì ma per tutt*.