Cinque punti sulla splendida Grecia (e i suoi desolanti dintorni)

10 / 7 / 2015

“Condotti da fragili desideri

Tra puro movimento ed immoto

Con sospetti, automatiche simpatie,

nel bel mezzo del progresso di diversi colori

il nero, il verde, il moderno

tifiamo rivolta…”

Sia detto senza mezzi termini: l’opinionismo con il culo a caldo non è rivoluzionario. Di fronte alla pagina di storia che le donne e gli uomini della Grecia stanno scrivendo non abbiamo lezioni da dare. Al massimo ce n’è più d’una da imparare. Per questo, e non per slogan, a ridosso del referendum greco la cosa più giusta che c’era da fare era tifare rivolta. Fino in fondo. Tifare in questo senso significa non teorizzare. Significa assumere gli strumenti di lotta che le moltitudini scelgono di darsi come strumenti legittimi, lasciando tribunali e sentenze ad altri. Significa anche sapere che non sono i mezzi a fare la rivolta, ma il loro rapporto con le comunità che li usano e con i territori su cui si agganciano. Il referendum, di per sé, non è né riformista, né rivoluzionario, a meno di non credere che il mondo nasca e finisca dentro la giurisprudenza, che come un Dio vivente fa e disfa i rapporti sociali senza alcun legame con la storicità degli stessi. Bisognerebbe invece sempre saper scovare sotto le alte nubi del diritto, la bassa merda della lotta di classe. Un concetto desueto, nell’era della nuova politica, ma utile ad orientarsi. È così che – per restare alle miserie del nostro paese – possiamo distinguere, ad esempio, il referendum contro la privatizzazione dell’acqua del 2011 e le consultazioni sulla buona scuola promosse dal ministero dell’istruzione nel 2014. Il primo era uno strumento nelle mani dei movimento sociali a difesa dei beni comuni, un secondo una farsa concessa dal renzismo per ammantarsi di partecipazione. Il decalogo degli strumenti dei veri rivoluzionari lo lasciamo scrivere a chi fa la rivoluzione, sennò è un esercizio accademico, quello sì, piccolo borghese e poco interessante per la trasformazione dello stato di cose presenti.

Dico questo nell’osservare un dato singolare, ma che purtroppo non desta meraviglia. I discorsi che provengono dai tromboni delle cattedre del neoliberismo e le prediche che si levano dai pulpiti dell’estremismo con il culo degli altri riescono immancabilmente ad incontrarsi a metà strada e proseguire serenamente a braccetto. Nella fattispecie della questione greca: dannazione della memoria sul referendum,  per i primi strumento troppo politico su questioni “tecniche” come le misure economiche (sia detto per inciso, “dove si prendono e dove si mettono i soldi” è politica, il resto è tema da assemblee di condominio), per i secondi pratica moderata che annacqua l’inevitabile manifestarsi di un governo di emergenza popolare; cancellazione del tema della democrazia così come è stato posto dal voto del 5 luglio; delegittimazione dell’opzione Syriza e ritorno alla più tranquillizzante normalità, quella delle grandi coalizioni socialdemocristiane e quella dei gruppuscoli testimoniali della sinistra tutta d’un pezzo che – mentre il mondo cambia – si impegna nel nobile obiettivo di custodire inalterata la propria identità.

Ora, proprio per un dato di profondo rispetto verso il percorso di lotta che si sta rappresentando nelle piazze di Atene e della Grecia, sarebbe preferibile un gesto di osservazione più umile, magari unita alla preoccupazione sul come si agisce realmente, alle nostre latitudini, la trasformazione dell’esistente. Però, di fronte al fuoco di fila mediatico insopportabile che quella piccola e indomabile penisola sta subendo in questi giorni, rispetto all’inconcludenza del governo Tsipras, rispetto all’intollerabile ostinazione di non sorbirsi passivamente (leggi: come in Italia) le riforme strutturali trainate dall’austerity, rispetto alla proclamata resa del governo che, autolesionisticamente, addirittura proporrebbe un accordo peggiore di quello previsto dal memorandum, ho pensato di buttare giù cinque punti molto schematici, attorno ai quali credo si potrebbe impostare un ragionamento intellettualmente più onesto, ovviamente da aggiornare quando avremo di fronte gli sviluppi e potremo chiudere con l’astrologia politica:

1.       Le proposte presentate dal governo greco non avvengono nel vuoto.  La Grecia non è seduta al tavolino di un bar insieme ai grandi partner internazionali per decidere seraficamente come mettere da parte un po’ di soldi per il week-end di ferragosto. L’accordo proposto viene fuori dal fuoco di fila degli istituti finanziari internazionali che stanno scommettendo sul debito greco, dalla negazione di liquidità imposta dalla Banca Centrale Europea che controlla le quattro principali banche del paese e da una contrazione del PIL, di fronte allo scenario drammatico del periodo recente, data al 3%. È su quest’apocalissi annunciata che Samaras ha costruito la campagna per il SI’ al referendum. Certo, davanti alla televisione possiamo dire che di fronte a questo attacco la risposta si scrive con la punta dei fucili, ma magari lasciamolo dire ad un popolo che da 5 anni le bombe le tira sul serio.

2.       Il merito dell’accordo prevede misure che colpiscono le imprese, i grandi capitali, i beni di lusso, i giganti del settore turistico privato (basta vedere come si articola l’aumento dell’IVA). È la rivoluzione? Certamente no, ma è anche quello che dicevano i movimenti sociali in Italia all’inizio della crisi: se c’è qualcuno che deve pagare, che lo faccia chi si è arricchito negli ultimi trent’anni di euforia ultraliberista. Gli inni per l’insolvenza vanno bene come cori per un corteo e, per come ora si danno i rapporti di forza nello spazio europeo, nient’altro.

3.       La vera partita che Atene si sta giocando è quella sulla ristrutturazione del debito. Per capire di cosa parliamo, da dieci giorni la Grecia è insolvente verso il Fondo Monetario Internazionale per 3 miliardi e mezzo. Questo debito, lunedì, aumenterà di un altro mezzo miliardo! È di questo che la Germania ha paura, è di fronte a questo scenario che la Merkel arma i cannoni, è per questo che Juncker dichiara di avere pronto un piano dettagliato per l’uscita della Grecia dall’euro. Il mandato referendario serve al governo greco per intervenire su questo livello del discorso, per pretendere un audit sul debito e una sua riduzione. Finché la leva dell’indebitamento sradica ogni diritto di decisione dal paese, non ci sarà accordo che tenga. Ristrutturare il debito è la condizione minima per reimpostare politiche sostenibili all’interno del paese ed è assurdo pensare che, invece, la partita si sarebbe risolta nel compitino che il ministro Tsakalotos ha presentato a cinque giorni dall’OKI.

4.       Proprio perché il livello è questo, farebbe ridere, se non facesse venire voglia di mettere mano alle pistole, la corsa della sinistra bene italiana ad intestarsi la vittoria di domenica. Vendola, Fassina, Civati, Camusso non c’entrano niente con il NO al memorandum. Il loro tifare per la Grecia è solo il modo in cui pagano una subalternità talmente evidente al PD  da non sapere come gestire un premier con un capitale simbolico così forte da poterli disconoscere come interlocutori. Questo riposizionamento tattico è il canto del cigno di chi si chiede cosa altro deve fare, dopo aver ceduto su tutto (diritti dei lavoratori, salute, istruzione), per essere riaccolto nella calda sottana del renzismo rampante. Un canto del cigno che è ridicolo quando si risolve in una bella fotografia a piazza Syntagma in cui si abbracciano i leader della “sinistra al 2% e al 91°minuto” ed è odioso quando assume la forma degli scioperi fuori tempo massimo contro una riforma della scuola che, in autunno, gli studenti  e i precari hanno combattuto da soli.

5.       Dato biopolitico:  il referendum greco ha messo a disposizione di tutti una possibilità. Una possibilità che non c'era prima di quella giornata, non era prevista da qualche comma giuridico interpretabile e stiracchiabile all'infinito. Ha reso il "NO" dicibile, ha reso l’ineluttabilità delle manovre di austerity solo una delle ipotesi in campo, come tale, discutibile e rifiutabile. il 60% del popolo greco sa di poter rifiutare e sa che quel rifiuto è il rifiuto della maggioranza. Con questa cosa si farà i conti non adesso, ma nei prossimi anni. Un popolo che apprende l’uso libertà non lo disimpara, nemmeno con il carcere duro. Se anche Tsipras dovesse alla fine cedere, dimostrarsi meno incisivo delle aspettative che ora su di lui pesano, questo dato di libertà – questa scelta che il governo ha lasciato nelle mani di un popolo in lotta – non si cancella. Il punto non è se il governo Syriza assolverà al compito della rivoluzione, il punto è l’incancellabilità del divenire-rivoluzionari delle donne e degli uomini della Grecia. Questo patrimonio di emancipazione e di rifiuto del senso di colpa dei subalterni resisteranno ai cambi di governo e saranno sempre lì, a disposizione delle lotte sociali che percorreranno il paese. Abbiamo tifato OKI per quello, perché si palesasse la possibilità che la maggioranza degli sfruttati facesse saltare il banco, una cosa infinitamente più importante delle negoziazioni che seguono. I Varoufakis possono lasciare il campo da gioco, ma non lasciano il deserto. Lasciano uno spazio pieno, vivo, ribelle, che produce alternativa, uno spazio di coalizione sociale tra esperienze di lotta che esistevano prima del voto e non muoiono col voto. Uno spazio libero perché non è uno spazio proprietario. Un’alleanza ribelle che non è di Tsipras, né del governo, ma è nelle disponibilità di chi già oggi continua a lottare.

*Attivista di Mezzocannone Occupato