Climate change e grandi opere: il quadro italiano ed europeo - Intervista a Luca Mercalli

20 / 1 / 2015

Tutti i vertici istituzionali sul clima si sono rivelati un fallimento, quindi c'è proprio una sordità da parte della politica istituzionale verso questi temi e in generale rispetto alla questione climatica. In vista di COP21, con il vertice sul clima che ritorna in Europa, qual è il ruolo della politica, ma soprattutto quale può essere il ruolo dei movimenti sociali, per imprimere un impatto su questo tipo di scelte?

In estrema sintesi possiamo dire che abbiamo perso venti anni, i problemi del clima sono ormai ampiamente noti e studiati anche sul piano della diffusione ai Governi, proprio da quando nel 1992 a Rio è stata firmata la convenzione sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. Già nel 1992 c'era tutta la maturità scientifica e politica per accettare quella che allora era già considerata la sfida più grande che avrebbe toccato l'umanità nei decenni e nei secoli successivi. Ma a conti fatti, cioè quando bisogna mettere le firme sulle dichiarazioni politiche ed economiche soprattutto – in sostanza chi mette i soldi –, abbiamo visto che prima di tutto gli Stati Uniti si sono tirati indietro non accettando di aderire al protocollo di Kyoto e questo ha ritardato una serie di attività.

Il protocollo di Kyoto è partito nel 2005: ha dato dei risultati modesti – secondo me è stato sostanzialmente un grande esercizio diplomatico e tecnico per vedere quanto è difficile e complesso fare un accordo internazionale sui problemi ambientali – però di fatto le emissioni di Co2, che sono quelle che generano il riscaldamento globale anche dopo il protocollo di Kyoto, non hanno fatto altro che continuare ad aumentare. Inoltre seppur in Europa si siano verificati dei risultati accettabili, riuscendo a centrare alcuni obiettivi di riduzione, abbiamo avuto gli Stati Uniti e poi la grande esplosione della Cina e di altri Paesi che, di converso, hanno fatto aumentare le emissioni a livello globale.

Quindi ci troviamo oggi in una situazione di forte ritardo, con una fondamentale asimmetria, che è quella di un'umanità che continua a giocherellare con una serie di problemi che ritiene importanti ma non lo sono – o meglio, che sono facilmente risolvibili –come i problemi di ordine culturale ed economico, il mettersi d'accordo tra uomini per fare qualche cosa, senza aver ancora capito - forse - la portata della posta in gioco. Questa asimmetria comporta il fatto di riconoscere che i problemi del nostro rapporto con l'ambiente, ovvero con le leggi fisiche, con la chimica, con la biologia, cioè con quel complesso di strutture che mandano avanti il mondo indipendentemente dalla presenza dell'uomo, non è un giochetto che possiamo permetterci di negoziare noi quando vogliamo. La termodinamica fa quello che vuole, stiamo veramente aprendo una guerra in cui siamo sicuramente perdenti, sconfitti a priori. Ed è questa forse la più grande preoccupazione: continuare a perdere tempo, credendo di avere sempre la possibilità di recuperare, riparare un danno. Invece quando parliamo di danni ambientali che hanno a che fare con le leggi fondamentali del funzionamento del nostro pianeta, i cambiamenti diventano ogni giorno più irreversibili. Questi anni già persi li pagheremo.

Ora, Parigi2015 è l'appuntamento che consideriamo decisivo, anche se, di fatto, non lo è, ma almeno potrebbe essere il momento in cui almeno tutti i Paesi del pianeta si mettono d'accordo su una riduzione vincolante delle emissioni. Questo potrebbe essere l'inizio di un cammino che comunque a mio parere – anzi, non a mio parere, ma nel parere di tutti i climatologi che lavorano su tale argomento – sarà comunque troppo lento, ma che però è l'unico obiettivo concreto che abbiamo davanti. Se vogliamo fare delle differenze tra Paesi, certamente l'Europa è sempre stata all'avanguardia, riconoscendo il problema e attivando una mobilitazione anche legale e giuridica di normative sulla riduzione delle emissioni, sul risparmio energetico, sulla diffusione di nuovi criteri di un'economia meno impattante sull'ambiente. In ogni caso parliamo di un'Europa che conta poco, è piccola, e vediamo se davanti agli altri giganti del mondo basterà quest'appello di Parigi, di una Francia effettivamente molto convinta a raggiungere i risultati che desideriamo.

In questi ultimi anni si è parlato molto in Europa di sostenibilità ambientale, ma a novembre è stato varato il Piano Junker, che prevede 315 miliardi di euro d’investimenti in infrastrutture. Questo piano ha permesso, ad esempio, che in Italia venissero sbloccate 110 grandi infrastrutture, tra queste: il progetto TAV - non solo sulla Torino-Lione - ma anche qui in Trentino sulla linea del Brennero, la tratta Brescia-Padova e altre, allora qual è in realtà la questione che si apre rispetto al tema delle grandi opere nel contesto europeo?

Ho l'impressione che dopo quasi una ventina d'anni di una buona politica ambientale europea all'avanguardia, portata avanti soprattutto dai Paesi del nord dell’Europa, si stia facendo un po' di retromarcia; ci sono molte dichiarazioni che tendono a chiudere quei varchi che si erano aperti sulle politiche ambientali, sulle energie rinnovabili, sui rifiuti. Questa potrebbe essere una reazione forte di chi aveva cominciato a veder intaccate le proprie rendite di posizione, quindi siamo davanti ad una democrazia che deve imparare a vigilare sulla conservazione e sulla difesa dei risultati raggiunti: è il messaggio che io raccolgo dall'Europa, avendo anche lavorato molto per la politica ambientale europea, quindi è facile cancellare anche ciò che si era acquisito nel passato con qualche nuovo trucchetto giuridico.

Dal punto di vista delle grandi opere, questa è davvero una patologia grave del sistema, che tende a pensare di risolvere i problemi soltanto con delle infrastrutture giganteggianti, che sono molto appariscenti sul piano sociale, nel senso che si fa in fretta a dire “abbiamo fatto qualcosa” quando si concentra l'attenzione sulla grande infrastruttura, mentre è molto più difficile far vedere i risultati di piccole acquisizioni capillari sul territorio. L'altro aspetto è che le grandi opere sono comunemente un luogo facile dove attingere fondi e guadagni – magari in Italia spesso anche non leciti – concentrando capitali nelle mani di pochi attori. Purtroppo le grandi opere sono molto impattanti, tanto sull'erario, quanto sul territorio, e credo che oggi al di là dei danni locali che producono, il danno più grave è che spostano interessi, visioni di futuro e fondi economici da quei settori dove invece avremmo bisogno di investirli, con grandissima urgenza, proprio per risolvere i problemi ambientali.

Ogni miliardo di euro che s’investe in un'infrastruttura cementizia peggiora, in genere, il bilancio ambientale e priva le piccole operazioni capillari che rendono molto di più: pensiamo alla riqualificazione energetica del parco degli edifici europei, non solo italiani, pensiamo invece ai problemi più italiani del dissesto idrogeologico, pensiamo alla logica di adattamento ai cambiamenti climatici, dove forse qualche infrastruttura un po' più pesante potrebbe rivelarsi anche utile in futuro. Ad esempio è molto più conveniente, oggi, pensare di costruire una diga, che è, pur sempre una grossa infrastruttura impattante, ma che con gli scenari climatici che abbiamo davanti, che andranno a toccare il rifornimento di acqua, potrebbe anche essere legittimata. Rispetto alla costruzione di una grande asse di trasporto merci, che è fondata su una visione di continua crescita dei trasporti, dei prodotti e delle materie prime, in molti siamo consapevoli quanto sia invece necessaria una riduzione dei transiti di merci. Ci sono delle contraddizioni interne enormi: un'Europa che inneggia, saggiamente, a un'economia circolare, che ci chiede di ridurre lo spreco di materie prime, di fare dei prodotti con minor obsolescenza, più riciclabili, più riusabili – quindi, di fatto, significa trasportare di meno –, e poi dall'altra parte, quella stessa Europa ci chiede di fare degli assi di trasporto che aumentino drasticamente il volume dei materiali che circolano tra le nazioni. Allora forse su questo bisogna mettersi d'accordo: o una o l'altra soluzione, perché le due sono in completa contraddizione.

Il primo maggio del 2015 a Milano si apre Expo, il cui slogan è “nutrire il pianeta” e dove si parlerà principalmente di alimentazione. In tanti però stanno contestando questo evento, sostanzialmente definendolo la grande vetrina del capitale globale, fondato su cemento, debito, precarietà e speculazione.

Ho espresso le mie idee contrarie all'Expo ormai molti anni fa, quando si era ancora immersi nel dibattito sul farlo o meno. Appartiene senz'altro, l'Expo di Milano, alla categoria di queste grandi opere a capitali molto concentrati e anche ad alta intensità di calcestruzzo. Proprio il tema scelto da questo Expo – nutrire il pianeta – di nuovo mi sembra in contraddizione con ciò che è stato fatto: per nutrire il pianeta prima di tutto dobbiamo salvare i suoli fertili, e quelli erano gli ultimi suoli alla periferia di Milano, che adesso sono stati completamente cementificati.

Quando vedo proporre delle soluzioni ai problemi, che al contrario aumentano i problemi stessi, mi sembra di vedere un'operazione molto anacronistica. Le notizie su internet sono fresche, aggiornate: un Expo andava bene nel 1800, quando la gente viaggiava per vedere le novità, perché non c'erano altri mezzi, oggi, sinceramente, penso di non vedere nessuna novità particolare in Expo, se non purtroppo lo scempio che è stato fatto del territorio e ciò che ne sarà dopo. Infatti, in quasi tutti questi “parchi giochi”, il problema viene dopo. Se anche si riesce a soddisfare il capriccio nei pochi mesi in cui l'opera viene utilizzata, sappiamo che quasi tutti questi generi di grandi operazioni, spesso diventano dei luoghi di abbandono, di trascuratezza: basta guardare che cos'è stato delle Olimpiadi di Atene, che dopo solo 10 anni sono ridotte a macerie, con le ortiche che crescono nelle strutture sportive.

Ma anch'io, che provengo dalla Val di Susa, dove si cercano di fare queste riflessioni a proposito della linea TAV Torino-Lione, mi trovo in casa i cosiddetti “elefanti bianchi”, residui delle Olimpiadi 2006: trampolini, piste da bob, costati centinai di milioni di euro, costati anche un sacrificio ambientale e che oggi sono inutilizzati, e che anzi costano.

La metafora dell'elefante bianco arriva proprio a livello mondiale dall'uso del passato di regalare degli animali esotici, a certi ospiti e a certi governi, e questo tipo di regalo si rivelava in realtà una palla al piede, perché l'elefante bianco era considerato un animale di grande prestigio, ma estremamente debole, bisognoso di cure continue – quindi di costi –. Così un dono si trasformava in realtà in un grande problema, con un continuo sborso di risorse per il mantenimento di un capriccio, di un qualcosa che non serviva a nulla. E quindi io credo che oggi di elefanti bianchi ne continuiamo a sfornare, il problema è che poi il cibo dell'elefante lo paga la collettività.

Intervista a Luca Mercalli