Con rabbia e amore. Lettera di Paolo Di Vetta sulla sorveglianza speciale

10 / 11 / 2016

Pubblichiamo questa lettera di Paolo Di Vetta tratta da Abitare Nella Crisi. La mano libera delle Questure è sempre più evidente: arresti, misure cautelari e squadrismo mediatico. Siamo davanti ad una ricetta già preimpostata per reprimere il dissenso, trovando quindi il via libera per un processo di criminalizzazione delle lotte, in cui ogni pensiero di contestazione viene zittito. Possiamo dire con certezza che le misure  cautelari sono ormai diventate pratiche diffuse in tutto il Paese - da nord a sud - per azzoppare diversi pezzi di movimento. Dalla capitale a Venezia con le sorveglianze speciali, ai daspo negli stadi ai danni dei tifosi antirazzisti pisani, alla durissima repressione del movimento No Tav, sino ad arrivare ai provvedimenti  amministrativi, quali fogli di via e divieti di dimora, tutti meccanismi in mano alla magistratura e alle questure per arginare la libertà personale di attivisti e attiviste.

A dieci giorni dall’applicazione della misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con l’obbligo di soggiorno impostami dal tribunale civile e penale di Roma per il periodo di un anno, decido di scrivere queste righe dopo aver letto con attenzione il decreto. Lo faccio dopo aver riflettuto a lungo sulle parole usate dai giudici della sezione tre, specializzata in misure di prevenzione.

Il linguaggio del collegio giudicante fin dalle prime battute è duro e perentorio, sarei “principalmente dedito all’occupazione abusiva d’immobili e a manifestazioni che hanno determinato scontri violenti con le forze dell’ordine”, cancellando con un’immagine deformata la mia quotidianità, la mia vita di ogni giorno fatta di ore di lavoro e di studio, d’impegno costante per migliorare condizioni e qualità di vita, di attenzione verso il disagio sociale e il deteriorarsi delle relazioni tra le persone, di rifiuto della crescente deriva razzista. Un impegno che si realizza dentro comunità dove bisogni e desideri s’incontrano, sperimentando forme e pratiche di convivenza non sempre semplicissime.

Le nostre occupazioni ospitano una possibilità per migliaia di uomini, donne e bambini, non rappresentano solo un tetto sulla testa, sono qualcosa di più serio e complicato. E questo fatto ha avuto più di un riconoscimento formale e informale. Ci sono più un documento, di un articolo di giornale, di una trasmissione televisiva, di un libro a raccontare la nostra storia.

I giudici invece omettono di affrontare tutto questo e scrivono: “la pericolosità sta nella commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza o la tranquillità pubblica” e continuano parlando di manifestazioni violente, di occupazioni di uffici pubblici con atti di vandalismo, aggressioni contro le forze di polizia, rapine e furti, danneggiamenti e lesioni. Per sostenere questo ragionamento si fa un elenco molto lungo di iniziative e mobilitazioni dove la responsabilità viene addossata come una montagna tutta sulle mie spalle e su quelle di Luca.

Le conclusioni sono emblematiche. “Al fine di evitare che continui a svolgere la sua attività delittuosa violenta anche altrove, e comunque al di fuori del luogo di dimora ove è più agevolmente controllabile”.

Quindi la mia attività è delittuosa per i giudici che hanno voluto, con 14 pagine completamente aderenti alla richiesta della questura, disegnare un profilo di pericolosità sociale da contenere e fermare. Non c’è che dire, lottare oggi diventa reato e il fastidio che i movimenti producono va sanzionato sempre più drasticamente.

Qual è la nostra colpa? Di essere senza un portafoglio che ci consente di affittare o comprare una casa, di pagare le bollette, le visite mediche e i libri per i nostri figli. Di aver recuperato parzialmente reddito praticando la riappropriazione dell’alloggio e in questo modo poter vivere più dignitosamente dentro una crisi economica sempre più profonda. Di lottare per i nostri diritti senza chiedere elemosine o accettare ricatti.

Ci vogliono sorvegliare perché hanno paura di chi li guarda direttamente negli occhi e reclama felicità. Accettare la miseria e la precarietà, questo sarebbe il vero reato. Dire questo con chiarezza non va bene ed è per questo che oggi siamo messi in una condizione di alta ricattabilità personale. Siamo dei nemici da combattere e si scrivono pagine di diritto di parte, ovvero di classe. Si scagliano misure di prevenzione e di controllo contro i poveri e il disagio sociale, soprattutto contro chi ha l’ardire di alzare la voce e di organizzarsi per difendere diritti primari assolutamente inevasi. Il nostro è un reato di lesa maestà contro la rendita, di converso emerge una mancanza di autonomia della magistratura che restituisce l’esatta misura della realtà con la quale dovremo fare i conti nei prossimi giorni. Probabilmente con una escalation di provvedimenti coercitivi direttamente proporzionali al livello di disagio sociale che si produrrà nel paese.

Non separare il contesto dalle misure ci consentirà di rilanciare le nostre lotte, di difendere le conquiste e di reagire ai soprusi, alle minacce, ai ricatti, che inevitabilmente ci troveremo di fronte.

Con rabbia e amore

Paolo