Crisi dello stato di diritto e nevrosi elettorali

29 / 11 / 2017

I cambiamenti intervenuti sul versante dell'economia globale producono una progressiva destrutturazione dello Stato di diritto e lo svuotamento dei suoi dispositivi di mediazione sociale e di rappresentanza. Per questo costruire i nostri orizzonti fuori dal suo perimetro non è solo una scelta, ma una necessità. Liberarsi dalle illusioni sulla propria condizione è necessario per liberarsi dalla condizione che ha bisogno di illusioni. 

“Credono di rimediare il danno diminuendo le forze in campo, frazionandole, cercando un compromesso con le necessità reali; viceversa Temistocle, allorché Atene corse il rischio di essere distrutta, spinse gli Ateniesi ad abbandonarla e a fondare sul mare, su un elemento nuovo, una nuova Atene” (Karl Marx)

Nel bel mezzo dell'estate appena trascorsa, caratterizzata dall'iperattivismo del Ministero dell'Interno e delle sue propaggini prefettizie nella chiusura di spazi sia in terra che in mare, è anche entrato in vigore, senza grandi clamori, il D.lgs. n. 104/2017, avente ad oggetto le procedure di valutazione di impatto ambientale in riferimento a determinati progetti pubblici e privati. Si tratta di una novella normativa di straordinaria gravità, che ridefinisce profondamente i meccanismi di imposizione delle opere di sfruttamento e devastazione ambientale estromettendo, di fatto, le più elementari garanzie di trasparenza, di interlocuzione e di tutela ambientale, già del tutto insufficienti nelle disposizioni normative previgenti. 

Non è nelle finalità di questo contributo effettuare una disamina delle modifiche introdotte dal D.lgs. n. 104/2017, alle quali sarà necessario quanto prima dedicare un serio approfondimento per individuare le possibili iniziative di contrasto. Ciò che, invece, vorrei evidenziare di quel testo di legge come spunto per una riflessione più complessiva, è l'art.18 attraverso il quale si prevede (modificando l'art.29 del D.lgs. n. 152/2006) che pur nel caso in cui vi fosse un annullamento da parte dell'autorità giudiziaria, ovvero del Tar, dei provvedimenti relativi alla Valutazione di Impatto Ambientale che hanno consentito di avviare la realizzazione del progetto “...l'autorita' competente assegna un termine all'interessato entro il quale avviare un nuovo procedimento e puo' consentire la prosecuzione dei lavori o delle attivita' a condizione che tale prosecuzione avvenga in termini di sicurezza...”. In sostanza viene sancita per legge l'inefficacia, nei casi disciplinati dalla norma, della tutela giurisdizionale amministrativa, consentendo all'autorità della pubblica amministrazione di disporre la prosecuzione dei lavori di realizzazione o la prosecuzione delle attività, nonostante attraverso un ricorso amministrativo si sia conseguito l'annullamento degli atti che a monte hanno illegittimamente consentito la realizzazione dell'opera. 

Si tratta di un passaggio normativo di straordinaria gravità, attraverso il quale, travalicando anche il principio generale di separazione dei poteri, l'esautoramento delle istanze sociali, più o meno organizzate, diventa così integrale da comprendervi anche la disattivazione dello strumento giudiziale. Ad oggi non sappiamo se la norma di legge così costruita riuscirà a sopravvivere ad eventuali censure di legittimità costituzionale: ma al di là di quello che sarà il suo destino particolare, essa costituisce, comunque, un rilevante indicatore delle traiettorie che stanno caratterizzando le profonde trasformazioni dell'ordinamento giuridico, trasformazioni che vanno ad intaccare in maniera sempre più avanzata e sempre meno transitoria le infrastrutture portanti dello Stato di diritto. L'art.18 del D.lgs. n. 104/2017 assume rilevanza sotto tale profilo di analisi in quanto va ad intaccare due principi fondamentali dello Stato di diritto: quello della separazione dei poteri e quello della tutela giurisdizionale. 

Ad escludere che si tratti di un caso isolato, di una sorta di anomalia destinata a rientrare, intervengono in maniera lampante i processi di ridefinizione normativa che riguardano altri e diversi contesti sociali, in primis quello dei migranti e profughi. Il decreto legge Minniti/Orlando, convertito e anch'esso entrato in vigore durante l'estate, non si limita ad introdurre una normativa più restrittiva nella gestione dei flussi migratori, ma definisce una sistema di tutela giurisdizionale di serie "c" riservato espressamente ai richiedenti protezione internazionale. Si tratta, di fatto, di una sorta di rito speciale dove la specialità è data dalla drastica riduzione delle garanzie, dalla eliminazione del grado di appello e dalla tendenziale soppressione dell'udienza di comparizione del richiedente, oltre che da una molteplicità di trappole e trucchi inseriti nel procedimento con funzione ostruzionistica e deflattiva dei ricorsi. Tutto ciò nonostante che il diritto alla protezione internazionale sia qualificato, sia dalla normativa interna che da quella internazionale, come un primario diritto soggettivo, a cui, di conseguenza, dovrebbe corrispondere una tutela piena ed effettiva. 

In questo caso i fondamentali dello Stato di diritto che risultano implicati sono molteplici perché oltre al diritto alla tutela giurisdizionale, fortemente compromesso nel rito speciale, ciò che viene intaccato è un altro principio sacro dello Stato di diritto, ovvero la formale uguaglianza dei cittadini difronte alla legge. 

Nella stessa scia si colloca l'altro decreto-legge Minniti, quello sulla cosiddetta “sicurezza urbana”, che ridisegna alla radice la mappa dei poteri di controllo all'interno delle nostre città. I nuovi dispositivi normativi non produrranno solo un irrigidimento delle forme di controllo, ma andranno ad aggredire profondamente diritti prima considerati irrinunciabili in un sistema democratico-costituzionale. La “sicurezza urbana” non è solo un controllo più capillare, ma il progetto di una città diversa, dove Sindaco e Ministero dell'Interno, per il tramite del Prefetto, decidono quali sono le parti della città proibite alle istanze sociali ed esercitano poteri di discriminazione, segregazione e ostracizzazione fino a poco tempo fa impensabili. Poteri che non nascono neutri neppure sulla carta, visto che è già scritto nel testo di legge contro chi devono essere esercitati: la parte di società più precarizzata e marginalizzata e quella che osa ribellarsi, imporre i propri bisogni con le pratiche di riappropriazione. 

Oltre a tutto ciò la “sicurezza urbana” ha anche un valore economico che deve essere immesso nel mercato delle privatizzazioni: con le nuove disposizioni di legge le associazioni di categoria saranno coinvolte nella definizione dei piani di controllo e le imprese private potranno prendere in appalto la realizzazione ed il monitoraggio delle strutture di controllo, ottenendo a riconoscimento del loro “impegno civile” anche importanti sgravi fiscali. 

La “città del controllo” non è una contingenza e neppure una stortura del nostro Paese, ma un dispositivo costituente, in rapida progressione anche negli altri Paesi europei, che ridefinisce la sfera giuridica della persona e del territorio nel quale essa vive, sempre all'insegna del diritto differenziale, attraverso cui si confinano le “deviazioni” e si cristallizzano i diversi status della persona a seconda delle sue condotte sociali. 

D'altra parte la pratica del diritto differenziale nei confronti di attivisti ed oppositori sociali è già ben consolidata. In questo caso l'azione combinata tra modifiche normative e protagonismo repressivo della magistratura ha sedimentato nel tempo uno status differenziale riservato specificatamente agli oppositori, all'interno del quale condanne oramai al di fuori di ogni principio di proporzionalità e ragionevolezza, unite all'applicazione sempre più diffusa delle misure di prevenzione e di limitazione “amministrativa” della libertà personale, producono una condizione giuridica di minorazione dei diritti e delle libertà tendenzialmente permanente, che oltrepassa il mero sanzionamento della condotta ritenuta illecita, per tradursi in un dispositivo di compromissione complessiva della quotidianità e dell'esistenza della persona. 

La condizione giuridica di minorazione, e quindi differenziale, in cui vengono costretti oppositori ed attivisti sociali ha oramai raggiunto livelli paradossali: il dimensionamento delle condanne comminate nelle aule giudiziarie per reati connessi alla conflittualità sociale non reggono più neppure il confronto con le condanne comminate dai tribunali fascisti, non di rado nettamente inferiori rispetto a quelle elargite dai giudici "democratici". Anche in questo caso sia il principio di tutela giurisdizionale, sia il principio di uguaglianza formale difronte alla legge risultano profondamente compromessi, unitamente ad alcuni dei fondamentali paradigmi del diritto penale moderno. 

Le stesse libertà primarie che hanno costituito la struttura portante del costrutto ideologico dello Stato di diritto costituzionalizzato subiscono un costante ridimensionamento sia attraverso leggi e regolamenti che ne limitano l'esercizio, sia attraverso pratiche di polizia volte a ridurre tale esercizio ad una mera rappresentazione rituale, morta, espropriata ab origine dai potenziali sbocchi conflittuali. Da questo punto di vista risultano particolarmente significative le strategie di svuotamento del diritto a manifestare poste in essere da Minniti e dal governo Gentiloni. Alle disposizioni di legge che danno la possibilità di marginalizzare le manifestazioni in aree periferiche delle città, si è unito un nuovo utilizzo della forza pubblica come sproporzionata preponderanza militare che attraverso l'azione preventiva dei fogli di via ed il controllo capillare sui partecipanti alla manifestazione e sui loro simboli (compresi gli striscioni) e attraverso la blindatura ermetica dei cortei, mira a ridurre il diritto a manifestare ad una mera formalità, ad una istantanea di sé stesso privata di ogni dimensione processuale e limitata alla presenza di un aggregato di corpi in un luogo autorizzato. 

E' proprio attraverso l'eliminazione della dimensione processuale/relazionale del diritto che se ne ottiene l' "essiccazione", la sua riduzione ad un involucro privo di sostanza. Il diritto a manifestare non è semplicemente il diritto ad essere presenti in un dato luogo e in un determinato momento. Il diritto a manifestare è un processo che inizia nel momento in cui insorge il bisogno di manifestare ed approda alla manifestazione attraverso plurimi passaggi, che a loro volta implicano l'agibilità delle relazioni sociali e la libertà di movimento. Libertà di movimento e diritto a manifestare non possono che radicarsi all'interno di uno spazio che comprende fisiologicamente anche il rischio della violazione e della trasgressione al precetto di legge perché è oggettivamente impossibile epurare il pieno esercizio di un diritto fondamentale dal rischio, per l'ordinamento, che nel corso di tale esercizio si concretizzi una violazione o una disobbedienza al precetto normativo. 

Un'azione preventiva volta all'eliminazione di ogni rischio di violazione di legge non può che concretizzarsi in una negazione del diritto stesso, nel suo sostanziale svuotamento, tanto che l'azione preventiva più estrema è quella che si concretizza nel divieto, ovvero nell'ingiunzione a non esercitare il diritto in ragione delle prevalenti necessità di sicurezza. Nello Stato di diritto di matrice costituzionale il rischio che l'esercizio di una libertà riconosciuta dall'ordinamento possa "debordare" in azioni che violano la legge è esso stesso parte, quantomeno entro determinate proporzioni, del diritto riconosciuto. Ciò non elimina, ovviamente, la facoltà dell'ordinamento di sanzionare le condotte ritenute illecite, ma si tratta di un piano ben diverso dalla repressione preventiva, in cui la condotta illecita è solo presupposta ed utilizzata per giustificare una restrizione generalizzata dei diritti riconosciuti. La reazione alla violazione di legge deve essere, a sua volta, sottoposta ai principi generali di ragionevolezza e proporzionalità della pena, anch'essi parte integrante dei fondamentali dello Stato di diritto, all'interno dei quali devono trovare adeguata valorizzazione anche le motivazioni che hanno determinato le condotte. 

Rispetto a tale quadrante ideologico dello Stato di diritto, attualmente viviamo un contesto esattamente rovesciato. Le motivazioni sociali e politiche che determinano le condotte divengono delle aggravanti, le pene si collocano ordinariamente al di fuori di ogni parametro di proporzionalità e l'azione preventiva, sia quella esercitata sul corpo collettivo dei movimenti, che quella esercitata sui singoli attivisti, prevale su ogni altra garanzia secondo uno schema per cui il cosiddetto diritto alla sicurezza è legittimamente anteposto ad ogni altro diritto.

Il diritto alla sicurezza è il costrutto ideologico e giuridico primario attraverso cui si disarticola lo Stato di diritto e si riassembla la sfera normativa secondo nuovi paradigmi giuridici. Nel pensiero giuridico classico di matrice democratico-liberale la sicurezza non costituisce un diritto bensì una condizione generata dal libero esercizio dei diritti fondamentali della persona: c'è sicurezza laddove è garantita la libera manifestazione del pensiero, la libertà di circolazione, la libertà di associarsi e così continuando fino a comprendervi l'insieme dei diritti civili e politici che hanno costituito il fondamento giuridico e ideologico della teorica (e della finzione) del "contratto sociale". Anzi, a ben vedere tale impianto giuridico-culturale muoveva proprio dalla sconfitta e dal superamento dell'idea di sistema giuridico imperniato sul diritto alla sicurezza, rappresentato dal pensiero giuridico hobbesiano e dei suoi accoliti. 

Tale superamento, ovviamente, non è stato determinato dal disinteressato intento di liberare l'umanità dal giogo dello sfruttamento e dell'oppressione, bensì da quello di liberare ed affermare il potere della classe economicamente dominante, di quella borghesia oramai egemone nelle società, che rivendicava il potere politico e leggi funzionali a quel sistema di sfruttamento che ne garantiva la ricchezza. E' sotto la spinta delle necessità di valorizzazione e accumulazione capitalistiche che la classe dominante rovescia i rapporti di potere ed afferma una nuova teoria e pratica dello Stato, che segna la fine dei precedenti dispositivi di legittimazione del potere e di regolamentazione sociale. 

In particolare il primo asset ideologico che viene messo in crisi è l'idea che la fonte di legittimazione del potere possa essere extra-sociale, che il diritto ad esercitare il potere sugli altri possa avere derivazione divina o "di sangue". Attraverso una profonda frattura rivoluzionaria la borghesia impone che la fonte del potere sia riportata dentro la società, più precisamente dentro i rapporti di potere affermatisi al suo interno e che già sancivano il dominio della classe capitalistica. In un tempo relativamente breve il nascente capitalismo fa piazza pulita di concezioni e strutture di potere consolidatesi nel corso di secoli. In questa fase straordinariamente rivoluzionaria crollano tabù e misticismi del potere, contro le concezioni assolutistiche e l'arbitrio normativo che le caratterizzava, si afferma il primato della legge prodotta secondo procedure codificate, che garantiscono alla classe dominante una produzione normativa funzionale alla gestione dei rapporti di produzione ed alla massimizzazione dei processi di valorizzazione. 

Alla rappresentazione di una società condannata al caos in mancanza di un sovrano che, privo di vincoli e dotato di poteri assoluti, potesse garantire la sicurezza dei suoi membri, si contrappone l'idea di una società in grado di razionalizzarsi attraverso le leggi del mercato ed un nuovo ordinamento giuridico che riconosce la formale uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, perché quell'uguaglianza produce consenso e legittimazione senza, tuttavia, incidere sulle disuguaglianze materiali che il capitalismo produce e sulle quali prospera. È in questo contesto che si afferma l'impianto ideologico dello Stato di diritto, attraverso il quale la classe dominante riesce ad imporre i propri interessi attribuendosi, nel contempo, il ruolo di volano di emancipazione generale, di affermazione del "potere del popolo" contro l'assolutismo, di riconoscimento formale e generalizzato di una nuova sfera di diritti. 

Lo Stato di diritto è, dunque, primariamente la forma-stato necessaria e funzionale all'affermazione ed alla espansione del capitalismo ed al pieno trasferimento del potere politico nelle mani della classe dominante. Ma esso diventa immediatamente anche terreno di contesa all'interno della conflittualità di classe che nello scontro tra capitale e lavoro forza costantemente i perimetri dell'ordinamento, ne allarga le maglie, sfrutta gli spazi di agibilità dentro i processi di soggettivazione. All'interno di tale costante tensione lo Stato di diritto si trasforma nel tempo, fino a costituzionalizzarsi, assumendo i cambiamenti necessari a salvaguardare quella mediazione all'interno dello scontro di classe in atto che ne possa garantire la sopravvivenza. 

Questa dialettica, tuttavia, risulta efficace e sensata dal punto di vista capitalistico fintantochè la struttura di fondo che essa deve salvaguardare risulta funzionale agli assetti economici, ai processi di valorizzazione ed alle strategie che ne derivano. 

Ma tale funzionalità della struttura di fondo, ovvero dello Stato di diritto inteso come organizzazione complessa dotata di impianto istituzionale, giuridico ed ideologico, si è sempre più assottigliata difronte alla dimensione ed alla velocità dei cambiamenti intervenuti sul versante economico-capitalistico, fino ad entrare in una crisi conclamata. Guerra al terrorismo, crisi e indebitamento, sicurezza, movimenti migratori sono oramai fenomeni completamente estrapolati dalla loro dimensione reale e trasfigurati all'interno di una narrazione che costituisce il fondamento ideologico in fieri di una riconfigurazione profonda dell'ordinamento giuridico, sempre meno compatibile con lo Stato di diritto ed, anzi, bisognosa di una sua progressiva disarticolazione. La destrutturazione dei dispositivi di garanzia, insediati negli ordinamenti giuridici sulla spinta delle lotte sociali e delle rivendicazioni di classe, è penetrata in profondità fino a raggiungere lo stesso cuore normativo e ideologico degli assetti ordinamentali.  

Le trasformazioni in atto, particolarmente virulente all'interno del nostro Paese, non concretizzano semplici aggiustamenti di fase o temporanei dispositivi di emergenza, ma disegnano una ridefinizione generale e sistemica dell'ordinamento giuridico e del suo rapporto di funzionalità con gli assetti economici. La progressiva restrizione delle garanzie costituzionali e dei diritti sociali e politici ci porta spesso a dire che siamo oramai in una fase post-democratica, che l'attuale stadio del capitalismo non sarebbe compatibile con la democrazia. Si tratta di un'affermazione sicuramente vera ma, probabilmente, incompleta in quanto non coglie del tutto la profondità dei cambiamenti in corso. Ciò anche perché lo stesso concetto di democrazia assume, oramai da tempo, contenuti e significati profondamente diversi a seconda del discorso nel quale è inserito. 

Se per democrazia intendiamo la democrazia radicale, dal bassolibertaria, che di fatto presuppone un modello di società radicalmente diverso e contrapposto a quello esistente, l'incompatibilità del capitalismo con questa democrazia non rappresenterebbe certo una novità, trattandosi, piuttosto, di una sua costante storica. Se invece facciamo riferimento al concetto di democrazia costituzionale, ovvero a quella forma storicamente data di ordinamento che, per l'appunto, si radica nello Stato di diritto, l'affermazione ha senso, ma è parziale. 

In realtà l'incompatibilità che sta emergendo nell'attuale stadio di strutturazione economica, è tra il capitalismo e lo Stato di diritto in quanto tale, all'interno del quale sono inevitabilmente implicate anche le cosiddette libertà democratiche. Non si tratta di una precisazione accademica, ma di una diversa prospettiva di lettura del fenomeno e delle tendenze che lo caratterizzano. Ponendo l'accento esclusivamente sui dispositivi istituzionali di mediazione democratica si rischia una rappresentazione secondo cui il loro superamento sarebbe determinato dal rischio che essi possano costituire un valido strumento di contrasto delle scelte e delle politiche del capitale globale. Ma in realtà non è così. Il problema non è dato, almeno principalmente, dalle oscillazioni che possono derivare da una diversa compagine parlamentare o governativa, ovvero da situazioni specifiche che possono essere affrontate con strategie ad hoc. 

 Il problema è dato dal funzionamento complessivo, ordinario, quotidiano dell'intero impianto giuridico-istituzionale e dei suoi fondamenti ideologici, sempre più disfunzionali rispetto ai tempi, alle dinamiche, alle necessità ed ai processi decisionali che si determinano all'interno della sfera economica. Le trasformazioni che investono gli assetti giuridici e normativi non sono riducibili allo schema semplice di una rinnovata tensione tra necessità del capitale e garanzie democratico-costituzionali: una simile lettura finirebbe con il configurare i cambiamenti in atto all'interno di una classica dinamica emergenzialista, e nel descriverli come una delle fasi alterne dell'ordinario dispositivo di restrizione/allargamento delle garanzie costituzionali che abbiamo già conosciuto in passato. 

È necessario, invece, cogliere la profonda novità del processo di trasformazione in atto e le implicazioni generali che esso determina. A differenza di quanto si è verificato in altri cicli storici, il tema con il quale siamo chiamati a misurarci in questa fase, non è quello di un'involuzione autoritaria dello Stato di diritto, ma quello della destrutturazione dello Stato di diritto in quanto tale, della progressiva liquidazione di quell'assetto normativo, istituzionale e ordinamentale che ha costituito il fulcro del governo della società per un lungo periodo di vita del capitalismo moderno. 

Tale destrutturazione affonda le proprie radici nella crisi complessiva che attraversa tutto il crinale del rapporto tra gli interessi dominanti e la loro organizzazione in termini di ordinamento giuridico. Le caratteristiche strutturali del capitalismo contemporaneo, sia sotto il profilo dei meccanismi di estrazione ed accumulazione del valore, sia sotto il profilo degli effetti in termini sociali ed ambientali che da questi derivano, rendono sempre più obsoleto l'ordinamento giuridico strutturato secondo i canoni dello Stato di diritto. 

Il principio fondamentale di uguaglianza formale dei cittadini difronte alla legge risulta sempre più disfunzionale rispetto alle tensioni, ai disequilibri ed al verticale approfondimento delle disuguaglianze che l'attuale contesto economico genera esponenzialmente. Il diffondersi del diritto differenziale non rappresenta un stortura dell'ordinamento giuridico, ma una dinamica giuridica costituente. Il diritto differenziale è lo strumento attraverso cui si afferma progressivamente la necessità e la legittimità di trattamenti normativi differenziati, misurati sulla specifica componente sociale che deve essere “gestita”. Non è un caso che l'avamposto del diritto differenziale si collochi oggi sul terreno delle migrazioni e su quello dell'opposizione sociale, ovvero all'interno di contesti che generano specifiche criticità immediate o potenziali ed in cui il trattamento differenziale può essere applicato e sperimentato con maggiore facilità. 

Il rovesciamento culturale e giuridico attraverso cui il “diritto della sicurezza”, e quindi con esso il “diritto al controllo”, assurge a principio primo dell'ordinamento giuridico ha implicazioni di carattere generale che investono in forma straordinariamente regressiva l'ordinamento penale, amministrativo e istituzionale, disattivando garanzie senza le quali vengono meno i fondamentali stessi dello Stato di diritto. 

Idiritto della sicurezza assume progressivamente il primato sui diritti e le libertà costituzionali divenendo il paradigma ideologico, culturale e giuridico di legittimazione delle determinazioni e delle strategie di neutralizzazione degli spazi di agibilità sedimentati nello Stato di diritto, questi sì potenzialmente pericolosi per le strategie del capitale, che vengono riassorbiti attraverso la loro riduzione formale e, contemporaneamente, il loro svuotamento di ogni contenuto e dinamica sostanziali. 

Parallelamente attraverso il diritto della sicurezza vengono aggredite le garanzie fondamentali dell'ordinamento penale, con particolare riferimento ai principi di presunzione di innocenza, proporzionalità della pena, soprattutto per i reati a carattere sociale e politico, personalità del reato, tassatività delle fattispecie criminose, garanzie difensive, e vengono predisposti nuovi e sempre più invasivi strumenti giuridici di prevenzione, attraverso i quali la limitazione della libertà personale consegue ad una presunzione di pericolosità anziché all'intervenuta violazione della norma. In tale quadrante si colloca anche la riconfigurazione normativa delle città, sempre più ripensate come terminali di controllo radicati nel territorio. 

I processi deliberativi attraverso cui vengono imposte in forma di legge scelte e strategie del capitale, devono essere riconfigurati perchè il loro iter istituzionale risulta sempre meno tempestivo e sempre più incoerente con i tempi dettati dalle dinamiche economiche globali. I processi deliberativi nazionali vengono sempre più confinati all'interno del perimetro esecutivo e meramente legificativo di decisioni che sul piano sostanziale si producono in luoghi extra-territoriali e sovra-nazionali. In relazione a tali decisioni il potere legislativo si trasforma progressivamente in potere legificativo, ovvero in attività limitata alla traduzione in legge di determinazioni formatesi “altrove” ed assunte come fondamento oggettivo ed incondizionabile dei processi deliberativi parlamentari ed istituzionali. 

Nella stessa prospettiva si colloca il progressivo superamento della classica divisione dei poteri a vantaggio di una commistione in grado di favorire i processi esecutivi. Alle modifiche dell'ordinamento interno che vanno in questo senso, si associa il costante tentativo di istituire sedi internazionali di composizione giudiziaria delle controversie economico-commerciali, attraverso cui si realizza non solo uno svuotamento dei poteri dello Stato nazione, ma anche una profonda destabilizzazione della canonica ripartizione dei poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo, fiore all'occhiello dei dispositivi di bilanciamento dei poteri posti a fondamento dello Stato di diritto.

A tutto ciò si deve aggiungere che lo Stato di diritto è disegnato su un impianto che articola due sfere fondamentali: quella pubblica e quella privata. Tale bipartizione, tuttavia, è oramai obsoleta perchè tra la sfera pubblica e quella privata si è imposta prepotentemente una terza sfera, un ibrido in cui pubblico e privato si sovrappongono e si intrecciano generando un terzium genus, quello dei social, dei blogs, di facebook, delle “app” della connessione permanente che ci inseguono in ogni momento della giornata e ci sussumono nella websfera. Nella websfera a dispetto della sua immaterialità si producono processi di sfruttamento e di ridefinizione dello statusdella persona che cambiano la materialità delle cose. 

Nella web sfera non c'è nessun cittadino, ma solo una sorta di consumatore/produttore protagonista come non mai della propria cattura. Il livello di sfruttamento che si raggiunge nella websfera, per intensità e caratteristiche, non ha pari. L'accaparramento di risorse nella terza sfera avviene attraverso una molteplicità di direttrici, di cui possiamo indicarne cinque portanti. 

La prima, quella a maggiore valorizzazione, riguarda l'accaparramento delle informazioni, poi rivendute – prestate – noleggiate nel mercato dei dati ed in quello delle tecniche di orientamento del mercato. In questo processo di valorizzazione svolgono un ruolo determinante le applicazioni che intermediano il rapporto tra il singolo ed il tutto e che hanno oramai colonizzato lo spazio virtuale, garantendone la curvatura sistemica verso la canalizzazione dei dati laddove questi si trasformano in merce di inestimabile valore.  

La seconda si concretizza nella prestazione diretta, ovvero in vere e proprie porzioni di lavoro che ci vengono fatte svolgere senza alcun corrispettivo. Le procedure digitalizzate che siamo costretti a seguire nello svolgimento di determinate pratiche, ad esempio nel rapporto con la pubblica amministrazione o con l' amministrazione di enti pubblici o privati, contengono sempre di più adempimenti che non hanno una relazione diretta con l'oggetto della pratica che ci riguarda ma assumono una funzione nell'attività di controllo, razionalizzazione, archiviazione, ricerca, notifica, comunicazione ed integrazione delle banche dati dell'ente o della pubblica amministrazione. Nelle procedure di evasione delle pratiche che ci riguardano sono scientemente disseminati pezzi di lavoro che prima gravavano sull'ente competente per quella pratica ed ora sono stati spostati sull'utente, ovviamente a zero costi retributivi. 

La terza riguarda l'età del consumatore/produttore: i limiti imposti nella sfera del lavoro materiale non valgono nella websfera, dove ogni fascia di età viene messa in produzione ed, anzi, trova una sua specifica collocazione in grado di massimizzare i processi di valorizzazione. 

La quarta direttrice riguarda l'assenza o, comunque, l'incidenza assolutamente marginale degli obblighi fiscali sulle attività dei colossi del web: nonostante le fortune stratosferiche accumulate sulle nostre vite non esiste ad oggi nessun efficace meccanismo ridistributivo. 

La quinta direttrice è quella dell'imposizione assoluta e senza margini di mediazione delle condizioni attraverso cui il consumatore-produttore è ammesso nella websfera. Il produttore-consumatore non è un cittadino, non è un lavoratore, non ha alcuna veste giuridica se non quella debolissima del consumatoreil che, peraltro, ci impone una riflessione sulla possibilità di ripensare e rivalutare l'intervento sul versante del consumo e sui relativi strumenti.

Ogni profilo di contrattualizzazione della sua posizione è una finzione giuridica perchè il consumatore-produttore ogni volta che instaura un rapporto con Google o Facebook o i diversi operatori di telefonia non ha alcun potere. Con buona pace di tutte le teorie sull'equilibrio sinallagmatico del contratto, ovvero l'equilibrio tra i reciproci diritti e obbligazioni che ha costituito un altro segmento ideologico dello Stato di diritto, le relazioni instaurate nella websfera sono a senso unico e concretizzano processi di subordinazione in cui il consumatore non è parte contraente ma “oggetto vivente”, “nudo consumatore”, compensato con il suo individuale palcoscenico virtuale. 

L'insediarsi prepotente e violento di una terza sfera algoritmocratica tra le due canoniche sulle quali si è strutturato lo Stato di diritto, non è un fatto marginale o, comunque, riassorbibile dentro il mero adeguamento di un “già dato”. Esso porta con sé cambiamenti profondi, disarticolazioni e nuovi paradigmi che concorrono in maniera determinante ad erodere le fondamenta di un assetto giuridico-istituzionale la cui età, misurata dal di dentro della terza sfera, affonda nella notte dei tempi. 

L'elenco delle disfunzionalità tra l'ordinamento giuridico che abbiamo conosciuto come Stato di diritto e gli attuali assetti capitalistici è lungo ed investe anche la sfera della fiscalità, dell'istruzione, di funzioni tipicamente imputate allo Stato che vengono progressivamente riconfigurate attraverso la loro privatizzazione (come, ad esempio, la gestione di istituti penitenziari o di attività connesse alla sicurezza militare e di polizia). Nel volgere di poco tempo l'utilizzo di lager, come quelli finanziati e realizzati in Libia, ed il ricorso sistematico all'eccidio di massa, come quello perpetrato nel Mediterraneo, al fine di fronteggiare fenomeni sociali di ampie dimensioni, sono tornati, a prescindere dalle critiche e dai futuri sviluppi, nel campo del “fattibile”, di ciò che in qualche modo può coesistere, anche attraverso accordi formalizzati, con le istituzioni “democratiche” ed i loro paradigmi giuridici. 

Il processo con il quale dobbiamo misurarci non è, dunque, riducibile ad una restrizione, seppur verticale, degli spazi di democrazia formale, ma esso implica una ridefinizione generale della sfera giuridica e istituzionale, ovvero il superamento dello Stato di diritto in quanto tale verso nuovi assetti adeguati e funzionali alle caratteristiche del capitale estrattivo.

 Tali assetti saranno il risultato non di un progetto compiutamente predeterminato, bensì di uno sviluppo processuale, che, però, è già pienamente attivo e concretizza una dinamica neo-assolutistica, con caratteristiche e fisionomie inedite. Allo stato attuale, dunque, la problematica dell'intervento sul terreno della rappresentanza istituzionale nazionale, non attiene più alla tematica ortodossa dell'utilizzabilità delle “istituzioni borghesi”, ovvero dell'impianto democratico-costituzionale, dentro i progetti di emancipazione del proletariato, ma quella tutta contemporanea dell'esaurimento sostanziale di quella sfera giuridica e istituzionale e della sua trasmigrazione in assetti la cui inutilizzabilità si pone come problema non solo ai rivoluzionari, ma anche ai sinceri democratici.

- Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti. (Karl Marx)

Con l'avvicinarsi dell'ennesima tornata elettorale è tornata ad animarsi la fiera dei nuovi soggetti politici a sinistra del PD che fremono per potersi lanciare nella prossima kermesse del voto. Scatole cinesi si aprono e si chiudono senza soluzione di continuità e senza neppure la dignità di un'analisi seria rispetto a quelle che si vogliono aprire e di una critica onesta rispetto a quelle che si sono appena chiuse. 

La cosa straordinaria è che le nuove scatole si aprono con esattamente le medesime motivazioni con cui sono state aperte quelle poi repentinamente chiuse. Probabilmente la strategia è quella di mettere in circolazione tante scatole nella speranza che una di esse forse per il fato, forse per un colpo di fortuna o forse per un miracolo, possa risultare vincente. Ma vincente, poi, su che cosa? 

E' incredibile come il dibattito, se così lo si può chiamare, intorno al tema della rappresentanza possa essere del tutto impermeabile ai dati tangibili di trasformazione indotti negli assetti politico-istituzionali dalle trasformazioni economiche. Si possono scrivere libri sulla post-democrazia, fare convegni sulla cancellazione dei diritti fondamentali, assistere quotidianamente alla violenza con la quale si impongono i cambiamenti in atto, ma quando all'orizzonte si profila una nuova competizione elettorale per il governo del Paese una strana magia fa sì che tutto il contesto scompaia per lasciare spazio ad un discorso che riproduce se stesso a prescindere, e che si racconta caparbiamente come nuovo nonostante nasca già vecchio non tanto perchè è stato già fatto altre mille volte, quanto perchè nel frattempo le condizioni materiali in cui si inserisce sono completamente modificate. 

Ma al di là delle magie del mercato elettorale italiano, la domanda semplice che viene da porsi è: qual'è il punto di non ritorno? Come succede che ad un certo punto anche chi ha creduto nelle possibilità di cambiamento attraverso l'utilizzo degli strumenti democratico-costituzionali assume il dato storico che il sistema è cambiato e che quegli stessi spazi dentro cui prendeva corpo l'ipotesi politica ( a prescindere da ogni valutazione sulla sua reale efficacia) non esistono più? 

Volgendo lo sguardo al passato gli esempi che se ne traggono non sono certo incoraggianti se è vero che persino dopo l'omicidio di Giacomo Matteotti i deputati dell'opposizione (solo una parte) si limitarono ad una temporanea astensione dalle attività parlamentari e che la comparticipazione al sistema oramai fascistizzato continuò fino a che non fu lo stesso regime a dichiarare la decadenza dei mandati parlamentari. 

Si tratta di contesti profondamente diversi, eppure c'è una questione di fondo che accomuna tutte le vicende storiche che accompagnano trasformazioni profonde dell'ordinamento istituzionale: quando è il momento, quando scatta il tempo storico e politico in cui si assume la necessità di una frattura insanabile e l'apertura di scenari completamente diversi all'interno dei quali riprogettare i percorsi di trasformazione? 

Il discorso sulla rappresentanza istituzionale è oramai autistico, completamente dissociato da un'analisi oggettiva e materialistica sulla sua funzionalità e sulle sue reali prospettive. Se è vero che i processi di cambiamento indotti dall'attuale strutturazione economica del capitale investono lo Stato di diritto in quanto tale, e quindi anche la sfera delle cosiddette “libertà” costituzionali, il problema non è riducibile a chi rappresenta cosa, ma riguarda direttamente il perchè della rappresentanza e gli effetti che essa produce indipendentemente dalla sovrastruttura, questa sì ideologica, attraverso la quale essa viene socialmente legittimata. 

Non si tratta di una mera riproposizione della polarizzazione (a mio avviso sempre viva) tra via istituzionale o rivoluzionaria al cambiamento, ma dell'assunzione dei cambiamenti che sono già in corso ad opera del capitale globale e delle oggettive conseguenze che ne derivano. 

Nelle condizioni date la rappresentanza, anche quella che si accredita dalla parte del “popolo” per il “popolo”, che si presenta come onesta ed al servizio degli interessi collettivi, contiene una contraddizione insanabile ed una dinamica di sottrazione che prescindono dalle condotte dei singoli ed investono il progetto stesso nel momento in cui esso narra di prospettive inattuabili e orienta verso quelle prospettive attenzioni, tensioni e processi organizzativi. 

La progressiva destrutturazione degli assetti giuridici e istituzionali di matrice liberal-democratica si intensificherà nel corso degli anni indipendentemente dalle velleità dei difensori delle costituzioni e delle rappresentanze di interessi contrapposti che, a prescindere dalle percentuali di consenso, sono geneticamente marginali rispetto alla forza ed all'ampiezza dei processi di ridefinizione delle forme giuridiche ed istituzionali del capitale del terzo millennio. Di fronte ad una simile prospettiva i tentativi di ricollocazione di rappresentanze istituzionali nazionali in funzione oppositiva rispetto alle strategie globali del capitale, non sono solo destinate al fallimento, ma si rovesciano nell'esatto opposto, ovvero in processi che necessariamente, a prescindere dagli slogan e dalle parole d'ordine, rinnovano la credibilità di assetti giuridico-istituzionali in fase di liquidazione, il che a sua volta favorisce la loro trasmigrazione verso una nuova configurazione giuridico-istituzionale tutta decisa dal potere economico. 

Tornando, dunque, alla domanda che ci si poneva sopra, quando è il momento se non ora, subito, per rappresentare lo stato reale delle cose, per dargli voce, per essere la parte che con chiarezza afferma l'esaurimento irreversibile del quadro giuridico-istituzionale che abbiamo conosciuto dentro l'epoca delle democrazie costituzionali, e che da questo dato muove per non subire i processi di ridefinizione della sfera giuridico-organizzativa del capitale? 

La frattura che la stessa dinamica espansiva del capitalismo determina sul terreno del “patto sociale” realizzato con le democrazie costituzionali, ci pone di fronte a scenari difficili che non possiamo affrontare con la prospettiva di ricomporre quella frattura: sia perchè sarebbe una prospettiva irrealistica, sia perchè dentro quella frattura, che riapre il tema complessivo dell'organizzazione societaria, dobbiamo individuare le traiettorie di processi di liberazione e di emancipazione dalla condizione di subordinazione e di sfruttamento che la forma Stato democratico-liberale ha, comunque, garantito alla classe dominante. 

I livelli di interdipendenza economica e politica, la volatilità dei capitali, le dinamiche di controllo e di sfruttamento attuate attraverso la websfera, che caratterizzano l'economia globalizzata sono in grado di reagire in maniera violenta ed efficace contro ogni rischio di serio smottamento, generando precipitazioni economiche e sociali di ampia portata. 

Senza il progressivo insediarsi di segmenti di organizzazione sociale in grado di reggere e gestire i contraccolpi di scelte che intaccano gli assi portanti dell'organizzazione economica è difficile immaginare prospettive di cambiamenti profondi. Da questo punto di vista è determinante cogliere la crisi che investe l'ordinamento democratico-liberale per riaprire dentro il corpo sociale la tematica della legittimità delle fonti normative e, quindi, delle regole che disciplinano la nostra vita sia nella dimensione individuale, che in quella collettiva. 

E' sempre possibile trovare un'interfaccia conflittuale di quelle che sono le tendenze che si generano nel campo avversario. “L'umanità – scriveva Marx -  non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione...”

Contro il diritto differenziale, attraverso cui il potere divide, separa e discrimina tentando di disarticolare le connessioni di classe, dobbiamo contrapporre il diritto differente, ovvero quello che nasce dai bisogni sociali e si afferma come legittimo, non perchè sancito da una legge dello Stato ma perchè imposto dalle pratiche sociali. 

Ciò significa riaffermare che l'evento giuridico, ovvero quello che in ultima istanza produce la norma, può legittimamente prodursi fuori dalle aule parlamentari e dentro le articolazioni sociali dove si ricombina immediatamente con i bisogni, diventandone strumento di affermazione ed auto-regolamentazione. La frattura che si sta producendo dentro il patto imposto con le democrazie costituzionali nasce dalla necessità da parte del capitale di riconfigurare alla radice la sfera giuridico-istituzionale. Tale dinamica in sé riapre necessariamente il tema generale del potere e della legittimità delle fonti che producono la normazione della nostra vita, ma dalla “trattazione” di questo “tema” vengono violentemente e rigorosamente escluse le classi subalterne, perchè l'assolutismo giuridico, ovvero il monopolio della produzione normativa, non può e non deve essere messo in discussione. 

In un'intervista sul concetto di assolutismo giuridico già diversi anni fa Paolo Grossi affermava in maniera sintetica ma efficace che andava imputato alla rivoluzione francese “...di avere segnato nella nostra storia dell’Europa continentale uno spartiacque, un prima e un poi separati da quella grossa muraglia costituita proprio dalle conclusioni della rivoluzione. E quali erano queste conclusioni? Le conclusioni sul piano del diritto erano ferree: il diritto interessa al potere politico, il diritto è un cemento importante per il potere politico e il potere politico non può disinteressarsi del diritto, di nessuna branca del diritto. E’ ovvio che la conseguenza è un monopolio che il potere politico esercita sul diritto, ed ecco che dalla rivoluzione in poi noi abbiamo avuto un diritto che è diventato legge. Che cos’è legge? Legge è la dichiarazione di volontà di chi è investito del supremo potere politico, è un atto supremo di autorità, è una regola generale astratta. Ed ecco il messaggio della rivoluzione: il diritto è soltanto legge, cioè è soltanto ciò che il potere politico afferma essere diritto. La legge incarna il diritto, esaurisce il fenomeno giuridico perché esprime la volontà generale. Soltanto la legge esprime la volontà generale. Che cosa era successo? Era successo che la rivoluzione francese, erede dell’illuminismo giuridico, aveva consegnato nelle mani del principe la lettura del mondo delle cose sociali e il cittadino se ne era fatto suddito, aveva affidato a lui la sua felicità. Aveva affidato a lui la lettura della natura delle cose e la sua traduzione in regole precise...”. 

Corruptissima re publica plurimae leges” scriveva Tacito: quando lo Stato è molto corrotto tante sono le leggi. Al di là del significato che l'autore attribuiva originariamente alla frase, si tratta di un'espressione che ben rappresenta la fase che stiamo attraversando. Nel nostro caso il concetto di “corruzione”non va riferito al “malcostume” nella gestione della cosa pubblica, ma al processo degenerativo sistemico che investe la sfera giuridico-istituzionale: tantopiù il processo avanza, tantopiù i dispositivi di normazione diventano rigidi e capillari perchè attraverso di essi si garantisce la transizione e, nel contempo, si anticipano i nuovi assetti normativi.

L'interfaccia conflittuale di tale dinamica è proprio nell'aggressione all'assolutismo giuridico della legge, nella rivendicazione che muovendo dalla fine del patto democratico-costituzionale reclama la riappropriazione da parte del corpo sociale della produzione del diritto, ovvero del potere di decidere l'organizzazione della vita associata. Nei manuali di diritto si insegna che la norma giuridica è necessariamente eterenoma, perchè essa viene decisa da un'autorità esterna, “altra” rispetto al destinatario del comando. Ma l'eteronomia non è neutra: sul piano materiale l'eteronomia e un'eteronomia di classe che produce il comando di una classe sull'altra. 

Rivendicare l'autonomia delle fonti giuridiche laddove le fonti giuridiche non sono quelle codificate, ma quelle materiali che coincidono con l' “evento sociale” e le trasformazioni che esso induce nei rapporti di produzione e riproduzione, è rivendicare un'autonomia che a sua volta non può essere neutra, ma che necessariamente è un'autonomia di classe. Riflettere, dunque, su questo piano non significa fare un ragionamento sul diritto come dimensione sovrastrutturale, ma riflettere direttamente sul potere e sui percorsi possibili di effettiva riappropriazione. 

In un contesto caratterizzato da un'economia globalizzata e finanziarizzata, da processi di valorizzazione di natura estrattiva e da poteri organizzati su scala transnazionale, non è possibile immaginare processi di trasformazione rivoluzionaria, e cioè di sovvertimento del sistema economico, senza misurarsi con una pratica di insediamento progressivo ed espansivo di segmenti di produzione autonoma del diritto attraverso i quali, seppur inizialmente nella parzialità di uno spazio o di un territorio o di una specifica materia, i bisogni e le rivendicazioni sociali si affermano come diritto immediatamente esigibile, come auto-normazione di per sé efficace e di per sé legittima. 

Questo significa anche sviluppare una nuova narrazione dei diritti che rompe lo schema secondo cui ad ogni rivendicazione di un diritto deve essere associata una fonte eteronoma che lo legittima. E' quello che spesso accade quando nel rivendicare l'esercizio di un diritto fondamentale, come il diritto a manifestare o alla libertà di movimento, si richiama inesorabilmente la Carta Costituzionale, come fosse un totem metastorico oltre al quale e sopra al quale nulla fosse possibile. Dobbiamo rompere questo cordone ombelicale con la retorica della Costituzione, che, esattamente come un cordone ombelicale, quando la vita che sta per nascere fa movimenti strani o eccessivi rischia di strangolarla. 

Le fratture che si stanno producendo all'interno dello Stato di diritto se non le vogliamo subire dobbiamo trasformarle in uno spazio all'interno del quale alla ridefinizione della sfera giuridica del capitale contrapponiamo l'autonomia degli spazi giuridici che riusciamo a produrre attraverso la soggettivazione del sociale già oggettivamente cooperante. In questa prospettiva è vitale che i movimenti e le realtà di movimento riescano a riaprire ed a riconquistare lo spazio politico e di riferimento che si fa carico di denunciare non la recuperabilità ma la fine della liberal-democrazia e degli assetti giuridici ed istituzionali che su quell'impianto hanno gestito la mediazione sociale e la rappresentanza. 

Una fine che non è all'orizzonte, ma che è già parte del presente, che è il prodotto dei cambiamenti indotti dal capitale globale e che oggettivamente, al di là delle diverse visioni ed interpretazioni, svuotano di ogni efficacia sul versante sociale e dei relativi cambiamenti strutturali, la strumentazione costituzionale ed istituzionale che ha infrastrutturato lo Stato di diritto. Non si tratta, dunque, di riproporre visioni manichee della realtà o presunzioni ideologiche ed astratte su ciò che è sempre giusto e ciò che è sempre sbagliato: si tratta, invece, di restituire dignità ad un'analisi materialistica della realtà all'interno della quale agiamo, individuarne i cambiamenti profondi e le tendenze e quindi, poi, scegliere da che parte stare, anche se questa “parte” nelle condizioni date è difficile, rischiosa, bisognosa di un processo di costruzione lungo e complesso non rimpiazzabile con qualche boutade mediatica. 

E, comunque, nonostante le difficoltà del momento è pur vero che il distacco generatosi tra la vita e la sua rappresentazione dentro i dispositivi istituzionali di governo della società affonda le proprie radici se non in una avanzata “coscienza politica” quanto meno nella percezione del progressivo esaurimento di un meccanismo a cui non di rado si associa la percezione di un controllo sempre più diffuso ed oppressivo sulle nostre vite. 

Da che parte stare? Dalla parte di chi anela ad una nuova epopea degli Stati-nazione, tenta di riabilitarne l'agibilità istituzionale e di restituire valore e credibilità ad un voto sulla compagine parlamentare e governativa? Oppure dalla parte di chi tenta di costruire un significato collettivo di quel distacco, di collocarlo dentro una lettura della realtà e di tradurlo in processi organizzativi?

La scelta non ha nulla a che vedere con le attitudini, con il ruolo individuale o di gruppo che ci si vorrebbe assegnare, con ciò che è semplice o complicato, con la nostalgia o il romanticismo, con i tabù ideologici o le sacralizzazioni di un pensiero: la scelta si misura unicamente con la realtà materiale e con l'analisi di essa, che è sempre un azzardo perchè possiamo sbagliare, ma un azzardo accettabile e necessario, purchè l'analisi sappia essere genuina e libera da assunti precostituiti. Rimuovere dalle prospettive di azione i cambiamenti che si stanno dando nella nostra contemporaneità, immaginare che il campo istituzionale e le regole che lo governano si riproducano mantenendo una sostanziale continuità con il passato nonostante le trasformazioni generali che rimodellano alla radice il mondo in cui sono inseriti, genera inevitabilmente una dinamica conservatrice. 

Ma la storia ci insegna che ogni tentativo di contrastare i cambiamenti imposti dal capitale con la conservazione, con la riproposizione di strumenti oramai obsoleti che lo stesso capitale ha messo fuori corso, è perdente. La forza di propulsione dobbiamo cercarla nell'anticipazione, nella capacità di individuare dentro le tendenze attuali dispiegate dal campo avversario la loro traduzione conflittuale, la loro versione rovesciata, sovvertita. 

 L'argomento secondo cui in mancanza di più avanzati processi di auto-organizzazione sociale sarebbe comunque utile e necessario costruire processi che, misurandosi sul terreno elettorale delle rappresentanze parlamentari, sarebbero in grado di immettere miglioramenti significativi nelle condizioni generali di vita e di favorire lo sviluppo di nuove consapevolezze, è una finzione ideologica che anche nel recente passato è stata smentita dalla parabola fattuale che ha caratterizzato tentativi simili e tentativi ben più strutturati e di diverso spessore. 

Peraltro nello specifico del caso italiano, tale argomento non viene calato all'interno di percorsi organizzativi che, ad un determinato stadio del loro sviluppo si pongono il problema della rappresentanza sul versante istituzionale. Il processo è esattamente rovesciato, nasce ad hoc, proprio per cogliere l'occasione di una tornata elettorale, contando sul fatto che sia proprio la rappresentanza, conquistata estemporaneamente avvalendosi delle contingenze postulate come favorevoli, a produrre l'organizzazione e non il contrario. Il tutto senza neppure una riflessione comprensibile sulla legge elettorale, che non è una “forma” delle elezioni, ma strumento di definizione dei suoi contenuti, dei suoi esiti e delle relazioni imposte con le altre parti del gioco.

Si potrebbe, forse, discutere dell'ipotesi rovesciata, ovvero della possibilità in presenza di un elevato livello di auto-organizzazione sociale di utilizzare alcuni strumenti del campo avversario per disarticolarne l'organizzazione. Ma si tratterebbe di una discussione del tutto inutile, di una velleitaria ingerenza in un futuro che apparterrà e verrà deciso da coloro che si troveranno a viverlo.“Supponiamo – scriveva Mao Tse Tung – che il nostro compito sia di attraversare un fiume. Non lo realizzeremo senza ponti né barche. Fino a quando la questione del ponte e delle barche non sarà risolta, a cosa serve parlare di attraversare il fiume?”

 Noi dobbiamo misurarci con il nostro presente. Il nostro presente è complesso, ma anche ricco di grandi potenzialità, che dobbiamo indagare per ridefinire i nostri strumenti di intervento. Ma in questo presente dobbiamo anche, da subito, ricostruire lo spazio di una visione critica, radicale, in sostanza rivoluzionaria, di ciò che accade e delle prospettive percorribili. 

In questo la crisi indotta nei dispositivi di rappresentanza generale e nelle garanzie costituzionali costituisce tema centrale che dobbiamo agitare, sul quale dobbiamo costruire un discorso collettivo, che illumina la crisi non per ricomporla, ma per costruire un sbocco diverso da quello preventivato, per evitare che in futuro il tema dell' “emergenza democratica” sia il tema agitato dal Movimento 5 Stelle a difesa dei suoi posti in Parlamento, anziché un argomento delle moltitudini che vengono private delle libertà e dei diritti fondamentali. 

È indifferente quello che succede in occasione di una tornata elettorale? Ogni parlamento è uguale all'altro? Nulla cambia a seconda della composizione politica di governo? Non è esattamente così. Il sistema, nonostante tutto, mantiene ancora dei margini di oscillazione che possono influire su determinate parzialità, che su un determinato tema può produrre una legge migliore o una legge peggiore. 

Le norme, per esempio, che nel nostro Paese regolamentano l'alternanza scuola/lavoro sono pessime: in altri Paesi ci sono norme migliori. Ma il fatto che lo studente debba essere in qualche modo “iscritto” direttamente anche dentro il ciclo produttivo non viene messo in discussione, neppure da una buona parte delle organizzazioni sindacali che nel nostro Paese si ergono a critici della “buona scuola”. Lo spazio tra gli interessi economici e la norma attraverso cui essi possono essere imposti nella forma di legge, e quindi lo spazio all'interno del quale si inserisce la mediazione sociale, è sempre più ridotto, perchè nella dinamica e nella tempistica dell'economia globale finanziarizzata quello spazio è perdita di valore, il che genera una tensione sistemica e violenta a rendere la norma sempre più direttamente adesiva all'interesse economico da cui trae origine.  

Se è vero che esistono ancora margini di oscillazione, è altrettanto vero che tali margini sono ridotti e tenderanno progressivamente a ridursi. È un po' come essere appesi al pendolo di un orologio a cui non viene più data la carica. Nonostante sia evidente che le oscillazioni diventano una dopo l'altra più brevi, ci sarà sempre qualcuno che fino all'ultima, piccolissima oscillazione sosterrà la necessità di restare attaccati a quel pendolo e di provare a spingerlo per restituirgli un po' di moto, e mentre spinge, spinge, spinge, non si accorge che, pur stando dentro un orologio, è oramai fuori dal tempo.