Autonomie locali e unificazione politica europea

Dalla crisi dei comuni italiani alla Comune federata d'Europa

Dai "nessi amministrativi" alla rottura con la governance finanziaria continentale. Con un paio di note storico-genealogiche.

18 / 6 / 2012

Ci sono momenti in cui è necessario, ancor più che opportuno, fermarsi un attimo a riflettere e fermare sulla carta, attraverso la parola scritta, quelle riflessioni che orientano la pratica politica e prendono poi corpo in decisioni. Soprattutto quando queste decisioni segnano un punto di svolta e marcano il passaggio da un’epoca all’altra. Il tema che vorrei provare ad affrontare qui, a partire anche dalla mia esperienza degli ultimi quindici anni, è quello della relazione tra un possibile progetto per l’alternativa e le pratiche politico-istituzionali, innanzitutto sul terreno dei governi locali.

Tema che dev’essere tanto più oggetto di riflessione, in quanto anch’esso investito in profondità dalla crisi e dai suoi effetti. Se infatti partiamo dall’assunzione della natura non congiunturale né transitoria di essa, ma dal suo carattere sistemico e strutturale, per cui la crisi è globale e al tempo stesso, in stretta concatenazione, finanziaria ed economica, ecologica ed energetica, sociale nelle sue conseguenze, non possiamo chiudere gli occhi di fronte a ciò che, contraddittoriamente, essa sta producendo sul terreno politico-istituzionale.

Anche qui, senza dimenticare quanto acquisito nella discussione degli ultimi mesi. Dal punto di vista delle coordinate temporali della crisi: siamo nel vivo di una grande trasformazione, di cui nessuno può prevedere i possibili esiti, e non abbiamo ancora visto niente di ciò che potrà verificarsi. Quindi non l’ennesima fase, rispetto alla quale “aggiustare il tiro”, e tanto meno un semplice ciclo che “si apre”, ma un’epoca nuova in cui siamo, volenti o nolenti, proiettati. Un’epoca nuova che impone, che sta già imponendo un paradigma analitico nuovo e un conseguente salto di qualità nella proposta e nell’azione politica.

Dal punto di vista delle coordinate spaziali, la metafora più adeguata a rappresentare la crisi è quella del terremoto. C’è un epicentro: l’abbiamo individuato ad un certo grado di profondità del sistema capitalistico globale, il movimento tettonico che l’origina sta nell’eccedenza determinata dai livelli maturi, oggi raggiunti, di autonoma cooperazione e produttività sociale complessiva rispetto alla gabbia dei rapporti di capitale, che sempre più vengono configurandosi come rendita piuttosto che profitto, come appropriazione parassitaria piuttosto che come funzione imprenditoriale. La rottura della faglia si colloca là dove sono arrivati a scontrarsi gli effetti delle trasformazioni del lavoro vivo, con l’egemonia dell’intelletto sociale generale e la centralità di conoscenza e creatività nei processi produttivi, e gli squilibri del modello di comando neo-liberista, che aveva e ha nei processi di finanziarizzazione il suo cuore. La crisi è dunque senza dubbio “globale”, ma essa si origina al cuore della metamorfosi post-fordista del lavoro e dello specifico paradigma neo-liberista che, nell’ultimo trentennio, l’ha governata in Occidente.

La grande scossa ai mercati finanziari, partita dalla crisi dei sub-prime statunitensi nel 2008, è stata solo l’inizio di una reazione a catena, che si è sviluppata nel tempo e nello spazio come un vero e proprio “sciame sismico”: dalla crisi del debito privato (e del sistema bancario, anglo-americano in particolare) a quella del debito pubblico (e della finanza degli Stati sovrani, europei continentali in particolare) fino all’attuale crisi dell’Eurozona.

Ma i suoi effetti sulla crosta terrestre possono essere e sono molto differenziati, a seconda delle diverse morfologie geologiche che l’onda d’urto del terremoto incontra nella sua propagazione. Ci sono due scale di valori per misurare l’intensità del sisma: la prima, la scala Richter ne quantifica la magnitudo per così dire “oggettiva”; la seconda, la scala Mercalli, ne valuta gli effetti al suolo, ovvero la potenza “soggettiva”. E questa dipende da molti fattori, primo fra tutti la stratificazione geologica. Fuor di metafora ciò significa che la crisi, certo prodottasi a partire dalla dismisura dei dispositivi finanziari di valorizzazione, cioè dal massimo livello possibile di astrazione de-territorializzante del denaro, si è territorializzata e si sta territorializzando in modi differenti, a seconda delle storie dei luoghi dove prende corpo, della genealogia e dell’attuale loro struttura produttiva, composizione sociale e contesto politico. Ed è evidente come oggi essa produca i suoi effetti più pesanti proprio là, dove l’organizzazione post-fordista del lavoro e il modello neo-liberista si erano affermati come dominanti, quindi sulle due sponde nord dell’Atlantico.

Questa generale constatazione vale tanto più per gli effetti sul terreno politico-istituzionale, non solo nella cronaca spicciola, sulla sorte di questo o di quel governo, sullo spostamento più o meno rilevante di quote di consenso elettorale, sulla ridefinizione di equilibri di potere nazionali e/o globali, ma anche sulla natura stessa della sovranità politica, sull’articolazione delle funzioni di comando, sulla metamorfosi della forma-Stato.

Vediamo allora, in estrema sintesi, gli scenari dischiusi dall’incedere della crisi. Alla fine degli anni Novanta, nel passaggio all’ “Impero, fase suprema del capitalismo”, avevamo collocato la crisi della sovranità nazionale e dei meccanismi rappresentativi ad essa consustanziali e il parallelo contraddittorio affermarsi dei processi di governance,  come forma di dominio politico più adeguata al paradigma dell’accumulazione flessibile, per il suo carattere più mobile ed articolato, capace di reagire in termini di maggiore adattabilità ai conflitti sociali, dalla dimensione locale fino a quella globale. In particolare si era sottolineato il progressivo esautoramento del ruolo degli Stati nazionali, superati dal protagonismo di organismi sovranazionali, sia nella forma dei Vertici intergovernativi (i G.8 ad esempio), sia di strutture quali il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), all’interno delle quali la potenza imperiale americana risultava dominante. Questa lettura era stata parzialmente messa in discussione dal fallito tentativo neo-con di affermare manu militari, con la dottrina e la pratica della “guerra preventiva”, una rinnovata egemonia statunitense su scala globale, in una sorta di “golpe unilateralista nell’Impero”.

Da allora sembra davvero passato un secolo! Il tempo della crisi è senza dubbio quello dell’inarrestabile declino dell’egemonia economica, politica e militare degli U.S.A. (e dell’Occidente più in generale) sui processi globali e quello del simultaneo affermarsi di nuovi potenti attori su scala planetaria. Le conseguenze della crisi finanziaria ed economica stanno interessando infatti, in misura e con modalità assai differenti e tra mille contraddizioni, i Paesi emergenti del cosiddetto BRICS, per i quali lo sviluppo capitalistico ha ancora caratteristiche espansive, non solo in termini di crescita del Pil, ma anche della forza lavoro occupata, del suo salario, del reddito per essa disponibile e delle dinamiche di riproduzione allargata e consumo.

Per riprendere la metafora sismica, l’epicentro della crisi è qui in Europa. E’ qui che si sta verificando il maggiore squilibrio tra organizzazione del lavoro, processi spinti di finanziarizzazione dell’economia, meccanismi consolidati della riproduzione sociale, moneta e regolazione statuale del mercato capitalistico. E’ qui che gli assetti istituzionali appaiono più in ritardo e meno adeguati rispetto alla governance della crisi e dei suoi effetti. E’ qui in particolare che, dopo essere stata ancillare rispetto all’instaurazione della “dittatura della finanza”, la loro fragilità si sta rivelando rovinosa per le prospettive presenti e future degli stessi processi di accumulazione capitalistica. Ed è la costruzione dell’Unione Europea, per come si è definita dai Trattati di Maastricht in poi, a mostrare tutti i suoi limiti: una “moneta unica” che appare più una costruzione imperiale del capitalismo tedesco che una “moneta comune” al servizio di un unico spazio di mercato; una Banca Centrale che si è strutturata più come un’ “istituzione privata” che come organismo di regolazione valutaria e finanziaria in ultima istanza; l’assenza di una comune politica fiscale e sociale che non fosse quella di “austerity” imposta dalla rigidità dei parametri e dalla miopia dei modelli economici monetaristi e deflazionistici. E a lungo si potrebbe continuare con un elenco che spiega anche l’impasse di queste settimane e il permanente pericolo che si produca un effetto domino dalle conseguenze incalcolabili, ogni qual volta la speculazione finanziaria globale si attacca al debito sovrano di questo o quel paese europeo.

E’ per queste ragioni che i settori più avvertiti delle oligarchie capitalistiche europee (e, per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, anche anglo-americane) pongono con forza all’ordine del giorno (di questi giorni!) la necessità di un’accelerazione del processo di unificazione politica dell’Europa. Non perché trionfino gli ideali democratici e federalisti di un Altiero Spinelli o perché le élite si siano convinte della bontà dell’integrazione europea, ma perché i rischi che sta correndo il capitale europeo, e di conseguenza lo stesso sistema capitalistico globale, sono troppo grandi da sostenere. E’ chiaro, altresì, che proveranno a costruire un’Unione politica europea a loro immagine e somiglianza: è e sarà una “rivoluzione dall’alto”, con una marcata tendenza ad affermare quegli elementi di governance buro-tecnocratica che abbiamo visto sperimentare nel caso italiano, quella “dittatura dell’amministrazione” che ha connotato l’operare della BCE e della Commissione di Bruxelles. Certo non il disegno di una rinnovata prassi democratica! Il suo contenuto, dal punto di vista delle politiche di “sviluppo”, sarà quello indicato dall’idea dei “project bond”, l’investimento prioritario in grandi opere infrastrutturali dagli effetti devastanti per il territorio; e dovrà essere alimentato da una nuova ondata di privatizzazioni di beni comuni e servizi pubblici, tale da far impallidire le operazioni compiute negli anni Novanta. Dal punto di vista del mercato del lavoro e del welfare, sarà quello strutturato dalle Leggi di riforma Hartz in Germania con la totale precarizzazione sociale e il livellamento verso il basso degli standard assistenziali e di sostegno al reddito; quello di un mercato europeo che possa, sul piano del costo del lavoro e della cornice di diritti e garanzie, “competere” direttamente con le economie dei BRICS. Certo non il riconoscimento di una più avanzata cornice di diritti sociali! Ci proveranno e non è detto che ci riescano.

Tuttavia, a questo punto, l’unificazione politica dell’Europa è una strada obbligata. Anche perché un “ritorno souverainista”, il ripiegamento sulle piccole patrie, nazionali o etno-regionali che siano, preceduto e accompagnato dall’uscita dall’Euro e dal ripristino delle valute nazionali, o prevedrebbe un’improbabile moltiplicazione di autarchie economico-produttive o, in ogni caso, comporterebbe un generale drammatico peggioramento delle condizioni reddituali e di vita per milioni di europei. La consapevolezza che si tratterebbe allora di una “strada senza uscita” spiega forse perché il crescente rifiuto sociale delle politiche di austerity non si sia tradotto per il momento in una crescita esponenziale del consenso, come avvenuto in altre tragiche epoche della storia europea, dei populismi di destra, nelle loro varianti nazionaliste e xenofobe, o esplicitamente neofasciste. Spiega, ad esempio e per restare più vicini a noi, perché la crisi della Lega Nord non possa essere unicamente ricondotta alle “promesse mancate” degli ultimi vent’anni o alla sua assimilazione, anche sul piano della corruzione, al ceto politico professionale. Vi è forse qualcosa di più profondo e strutturale nel crollo dei consensi verso i “padani”, qualcosa che ha a che fare con l’impraticabilità di soluzioni micro-statuali di fronte alle proporzioni raggiunte dalla crisi.

E’ invece uno spazio politico europeo unificato, pur avveduti del fatto che questa prospettiva non nasce dalla potenza costituente di moltitudini e movimenti, la dimensione minima all’altezza dello sviluppo di conflitti che provino a costruire un’alternativa di sistema nella  e contro la crisi. Ma che cosa accade alle forme politico-istituzionali date in questo scenario? E’ evidente, sotto questo profilo, come esse stiano già attraversando una fase di transizione alla ricerca di un ordine che non c’è più, nella definizione di assetti nuovi e più adeguati alla gestione della crisi. Il “governo tecnico” in Italia è uno di questi esperimenti e altri, su scala europea, ne seguiranno.

E se gli stessi Stati-nazione sono già chiamati e forzati a riqualificarsi come funzioni dipendenti di questo processo di governance, possiamo ben immaginare quale destino sia segnato per le autonomie locali. Sforziamoci perciò di rileggere anche la fenomenologia degli ultimi anni alla luce di queste linee di tendenza strutturali. Come, nella crisi, la stessa organizzazione del lavoro manifatturiero (penso, proprio nelle nostre regioni, alla ormai storica vicenda del decentramento produttivo, alle reti territoriali di piccola e media impresa strutturate nei distretti, in sistemi produttivi locali) è andata ristrutturandosi in “reti lunghe” che si distendono dalle fabbrichette del Nordest alle mastodontiche unità produttive del Guangzhou, abbandonando in misura sempre maggiore la “filiera corta” e non sottraendosi alla cattura dei dispositivi di finanziarizzazione globale, così dobbiamo essere più lucidi e precisi nell’individuare quali processi abbiano investito i governi locali.

A partire dal 2002 ad esempio, e con conseguenze solo ora verificabili, l’introduzione della possibilità per gli enti territoriali di accedere al mercato dei prodotti finanziari “derivati”, accompagnata alla contemporanea contrazione dei trasferimenti di risorse statali, ha determinato la crescita esponenziale dell’indebitamento di Comuni, Province e Regioni e di un indebitamento i cui tassi sono strettamente vincolati alle tensioni speculative nei flussi finanziari internazionali. Allo stesso modo la feroce applicazione delle regole del Patto di Stabilità interno agli Enti locali non può più essere interpretata come una semplice giustificazione delle scelte di taglio delle risorse, ma come la più strutturale conseguenza delle politiche europee di compressione della spesa pubblica (per loro “improduttiva”) nel campo dei servizi pubblici e, più nello specifico, delle funzioni di welfare. Attacco che è tutt’uno, come dimostrato dalla portata delle manovre di bilancio nazionali in attuazione dei diktat della BCE, con gli incentivi e gli obblighi alla collocazione sui mercati azionari di quote maggioritarie delle società a controllo pubblico che gestiscono  i servizi pubblici locali, così come all’affidamento a multinazionali  a capitale privato di questi stessi servizi e la cessione, spesso la vera e propria svendita, degli “asset” patrimoniali – beni comuni anche in senso storico, cioè frutto stratificato nel tempo dell’accumulo di risorse di comunità  – finora detenuti da Comuni e Regioni.

Se mettiamo in fila l’insieme dei provvedimenti che hanno segnato come una “via crucis” la strada dei governi locali negli ultimi anni, non solo in Italia ma in tutta Europa,  siamo forse maggiormente in grado di comprendere come l’obiettivo sia stato la disarticolazione dei “nessi amministrativi” (vedi Nota *), la sistematica negazione di ogni margine di autogoverno territoriale, la riduzione delle autonomie locali a variabili dipendenti, funzioni subalterne puramente esecutive di un disegno di contenimento della spesa pubblica e di massiccio trasferimento, ad ogni livello, di quote crescenti della ricchezza prodotta dalla loro ridistribuzione sociale (sia in forma monetaria sia, in forma indiretta, nell’erogazione di servizi di welfare municipale) alla rendita privata e ai circuiti del capitale finanziario.  Questi processi hanno raggiunto, e si tratta di prenderne realisticamente atto, uno stadio molto avanzato.

La rigidità con cui queste scelte vengono imposte e gestite ne è una delle controprove: si pensi all’autorevole brutalità con cui i sindaci della Val di Susa (e qualsiasi altro amministratore intenda opporsi a grandi infrastrutture inutili e devastanti) sono stati richiamati ad esercitare il ruolo non di espressione attiva delle proprie comunità locali, ma di agenti “rappresentanti dello Stato” di fronte a queste stesse comunità; oppure al riflesso autoritario che accompagna le scelte in merito alle privatizzazioni e l’immagine del Consiglio comunale di Roma, svolto “a porte chiuse”, con i cittadini e gli stessi consiglieri d’opposizione colpiti da provvedimenti amministrativi di espulsione e allontanamento, per consentire il voto sulla cessione delle quote di Acea, ne è rappresentazione assai efficace. Così come ne offre una verifica ulteriore il muro contro cui si è scontrata l’ennesima protesta dei sindaci dell’ANCI, ben al di là della stessa natura consociativa, lottizzata e burocratizzata di questo organismo, per la revisione delle regole del Patto di Stabilità e dell’IMU, paradossale esempio di “imposta municipale” le cui regole e aliquote vengono dettate da un dispositivo di legge nazionale e il cui gettito viene, in gran parte, incamerato dallo Stato centrale per contribuire al “risanamento del deficit” di bilancio imposto dalla governance europea. C’è chi ha sintetizzato questi processi in atto con l’efficace immagine della trasformazione dei sindaci “eletti direttamente dal popolo” da “attori” della politica nazionale in “esattori” per conto dello Stato e del fiscal compact europeo. Dalle ambizioni delle “mille città”, protagoniste della millenaria storia d’Europa, moderno spazio dell’affermazione di libertà e diritti, all’odioso e subalterno ruolo degli Sceriffi di Nottingham.

D’altro canto non potremmo forse interpretare, alla luce di questi dati strutturali, anche le difficoltà incontrate nel dare continuità e prospettiva politica reale, negli ultimi mesi, al percorso di una “rete di Comuni per i beni comuni”? Non abbiamo forse, tutti, commesso l’errore di appiccicare semplicisticamente l’etichetta dei “beni comuni” ad una lineare e scontata riproposizione del discorso sul “federalismo municipale” (vedi Nota **) come se vivessimo e agissimo nel Nordest, nell’Italia, nell’Europa di dieci anni fa? Il rischio derivante dal mantenimento in vita di questo ordine di discorso come filo conduttore delle esperienze istituzionali locali, senza approfondire a sufficienza il progressivo venir meno dei suoi stessi presupposti materiali, è quello di trasformare inconsapevolmente un’ipotesi politica, altrimenti forte e qualificata, in una “ideologia”, buona si fa per dire per tutte le stagioni.

Ma immaginare ora solo un esito ad esaurimento, una fine per lenta consunzione di questi percorsi, o peggio una loro continuità in automatismo, come se nulla intorno fosse cambiato, sarebbe però quanto di più sbagliato si potrebbe fare. E’ tempo invece di affrontare un ripensamento profondo, di sancire una cesura netta, agita da protagonisti e supportata da una lettura fin qui solo abbozzata di che cosa sta diventando la sfera politico-istituzionale nell’epoca della crisi. E’ anche da qui che nasce la convinzione che non c’è e non può esservi oggi alcun rapporto organico tra progetto politico di movimento e anche le più avanzate sperimentazioni sul terreno politico-istituzionale. Ma ciò non significa affatto che quanto accade anche nella sfera dell’autonomia del politico (oggi, come abbiamo visto, tutt’altro che “autonomo”) debba risultarci indifferente, che ciò non comporti conseguenze per le dinamiche del conflitto sociale e l’azione della soggettività organizzata all’interno di esse. E la formula “estranei, ma interessati” a quanto si determina sul piano della governance, esprime con felice sintesi quale debba essere il punto di vista interno ai movimenti sociali per l’alternativa. Non può esaurire, tuttavia, la ricerca di quanti si sono misurati con percorsi di sperimentazione istituzionale, proprio a partire dall’assunzione privilegiata del punto di vista dei movimenti. C’è insomma chi, per via di una soggettiva collocazione “di frontiera”, “soglia” o “cerniera” che dir si voglia, è costretto ad essere volente o nolente “più interessato” di altri. E dev’essere impegnato a tradurre questo coinvolgimento in capacità collettiva di comprensione delle trasformazioni che stanno investendo gli assetti istituzionali e, di conseguenza, in potenziamento del raggio e della capacità d’azione dei movimenti stessi.

E’ qui infatti che l’ “esternità interessata” deve trovare, soprattutto per le forze soggettive che sono “più interessate di altri”, un punto di originale applicazione. Misurarsi con la proposta di un discorso nuovo su questo piano, inventare modalità innovative d’azione politica, decidere volta per volta dove sia necessario e produttivo collocarsi e dove sia, au contraire,  urgente e più utile sottrarsi. Rompere con automatismi ed abitudini. E tornare, sul serio, a sperimentare.

Ciò tenuto conto del crescente rifiuto della paura, indotta dall’indebitamento come dispositivo di controllo biopolitico, della diffusa delegittimazione sociale delle politiche di austerity e delle più profonde incrinature che stanno segnando la presente governance europea, dischiudendo opportunità per un cambiamento possibile.

In tale contesto e con questi obiettivi, cerchiamo allora di introdurre alcuni punti, che possano aiutare al tempo stesso a circoscrivere e ad arricchire il campo dell’innovazione:

1)   il tema cruciale è quello della ricerca di come, sul piano delle istituzioni locali (e non solo, ma per il momento a queste rivolgiamo l’attenzione), possano prodursi quelle rotture, tali da aprire nella governance spazi reali per lo sviluppo dell’alternativa. E’ dunque il grado di “rottura” la misura della validità e dell’efficacia delle incursioni che compiamo, non tanto le rotture che singolarmente siamo capaci di mettere in scena, ma quanto le esperienze di governo locale in cui siamo coinvolti riescano a “fratturare” un quadro ordinativo che si pretenderebbe liscio e compatto.

2)   Se nella transizione del processo di unificazione politica d’Europa, gli stessi Stati nazionali divengono funzioni esecutive subalterne di un assetto istituzionale transnazionale di nuovo tipo - e a tal proposito (ma solo a tal proposito) poco importa se la forma definitiva sarà quella del macro-Stato burocratico e centralizzato o di una più leggera struttura tecnocratica federale -, e gli enti locali a loro volta sono chiamati al ruolo di articolazioni amministrative dipendenti e derivate di questi stessi assetti, allora il grado di “rottura” si verificherà attorno al livello di antistatualità  che le pratiche di governo territoriale saranno capaci di mettere in campo, attorno al reale livello di “autonomizzazione” da questi processi che saranno in grado di attuare e di difendere. Penso, ad esempio, a se e come i Comuni cercheranno di sottrarsi ai circuiti finanziari globali dell’indebitamento, se e come proveranno a resistere alle privatizzazioni di beni comuni e servizi pubblici locali, se e come tenteranno di realizzare politiche di fiscalità locale mirate a colpire la rendita mobiliare e immobiliare, se e come rilanceranno una proposta di welfare municipale adeguato a cause ed effetti della crisi, se e come riusciranno a sperimentare su scala locale e comunitaria politiche produttive di riconversione, orientate a modelli di sviluppo socio-economico alternativi all’esistente.

3)   Ma, se è corretto quanto abbiamo prima affermato a proposito dell’impraticabilità della strada del ripiegamento sulle “piccole patrie”, è altrettanto vero che la stagione del “piccolo è bello”, dell’ “autogoverno comunitario”, è finita, forse per sempre. Non c’è autarchia possibile, nemmeno in una sua immaginaria e utopistica variante “di sinistra”. Allora, anche il piano della sperimentazione nelle istituzioni locali non può più essere localistico e neppure circoscritto ai confini nazionali, ma deve necessariamente guardare allo spazio politico europeo e formulare una proposta all’altezza di questo spazio: puntare con decisione alla costruzione di reti di relazioni in Europa, articolare un progetto istituzionale di carattere radicalmente democratico e federativo, che contrasti nella pratica sul suo stesso terreno un processo di unificazione politica che si sta attuando e sempre più si attuerà nel segno della governance del capitalismo finanziario, e certo non nella prospettiva del cambio di modello economico-produttivo, né della ridistribuzione sociale della ricchezza prodotta e dell’allargamento della sfera dei diritti di cittadinanza.

4)   Conversione ecologica, nuova giustizia sociale e nuovi diritti, in Europa e nella crisi, sono invece le polarità di programma indisgiungibili verso cui orientare l’ago della bussola delle pratiche di governo locale. Pratiche che dovranno essere innovate anche sotto il profilo delle modalità di governance. Nel quadro istituzionale dato, qualsiasi discorso, anche il più avanzato, che declini come dieci anni fa la “democrazia partecipativa” in termini formalistici e procedurali, mostra fatalmente la corda. Dovremmo piuttosto contaminare e accompagnare una pratica istituzionale di rottura, inoculando in essa massicce dosi di democrazia diretta ed assoluta, a garanzia dell’irruzione in questi spazi dell’alterità della potenza costituente evocata e attuata dai movimenti per l’alternativa, quando essi abbiano la forza e la propositività necessaria per farlo.

Dobbiamo, infine, essere consci del fatto che questi punti non costituiscono ancora un programma, e tanto meno un progetto politico. E che, forse, su questo terreno non potranno più darsi proposte organiche. Ma questi punti potrebbero delineare, fin d’ora, una traccia di lavoro, il canovaccio inedito intorno al quale costruire l’ordine del discorso di una nuova avventura, di un’originale intrapresa politica con cui provare a misurarci. Una stimolante suggestione che, assumendo la crisi dei nessi amministrativi come punto di partenza, provi ad immaginare la Comune federata delle città d’Europa, non piegate al pactum subiectionis del “rigore” e della presunta “stabilità”, ma tra loro cooperanti, libere contraenti pacta associationis tra differenti ed eguali: uno spazio costituente di governance metropolitana, “interessata ed interessante” per la prospettiva alternativa disegnata e praticata dalle lotte e dai movimenti sociali, il campo d’esercizio per rinnovate passioni ed intelligenze militanti.

                                                                          Venezia, 16 giugno 2012

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DUE NOTE STORICO-GENEALOGICHE

* Sui “nessi amministrativi”. Un passo indietro è, su questo punto, obbligato. Affrontare, dentro il progetto complessivo a partire dalla metà degli Anni Novanta, il terreno politico-istituzionale ha sempre coinciso per noi con una lettura, corretta o sbagliata che fosse, delle modificazioni strutturali che investivano la sovranità statuale e il suo ordinamento in istituzioni. E l’abbiamo sempre fatto muovendo dall’assunzione dell’assoluto primato, una vera e propria primazia, del punto di vista dei movimenti nel conflitto sociale, per la trasformazione radicale dell’esistente. Per essere chiari, e proprio perché altri – primi fra tutti i partiti della fu “sinistra radicale”, ma anche all’interno dei movimenti – hanno mostrato impostazioni teoriche molto diverse, che li hanno portati a compiere nel tempo scelte molto diverse, noi non abbiamo mai teorizzato una scelta di parziale o totale “autonomia del politico”, né mai abbiamo fatto nostro il terreno della “rappresentanza” in quanto tale.

Le esperienze che abbiamo compiuto, differenziate in fasi differenti e con tutti gli errori che possiamo aver commesso, si sono sempre sviluppate nel segno di una sperimentazione che presupponeva la critica ontologica della rappresentanza e la registrazione dinamica della sua crisi strutturale. Ciò non significa che, proprio in virtù della loro capacità di attrazione e dei loro inerziali automatismi, non siano state - per certi aspetti e in certi momenti - “invischiate” nei meccanismi della rappresentanza, fatalmente inviluppate nella tela di ragno dell’autonomia del politico.

Questa vicenda che non è mai stata uguale a se stessa, né lineare nel suo dipanarsi.

Nasce nella prima metà dei Novanta dall’incontro di una potente suggestione teorica con un momento storico ben preciso: l’analisi della crescente importanza delle funzioni di servizio, esercitate dai governi locali e della quota di spesa pubblica da essi gestita, in connessione con la nuova organizzazione, diffusa sul territorio, della produzione post-fordista (da qui origina la definizione dei “nessi amministrativi”, con una particolare attenzione da parte nostra, e dei nostri primi interlocutori, alla ricerca di un “nuovo welfare” che risultasse adeguato alla metamorfosi contemporanea del lavoro), che andava a ricombinarsi con il momento storico rappresentato dalla crisi della Prima Repubblica, lo scioglimento per via giudiziaria dei partiti storici che l’avevano governata e la complessiva ridefinizione del quadro politico-istituzionale con l’irruzione sulla scena di nuovi attori: a partire dal 1993, con l’introduzione del nuovo sistema elettorale nei Comuni, i sindaci “eletti direttamente dal popolo”, protagonisti delle vicende nazionali del quindicennio successivo e dotati di una relativa indipendenza dagli apparati di partito.

L’incontro di questi due elementi veniva poi ad essere propiziato – per quanto riguarda chi vivesse ed agisse nel Nord e nel Nordest in particolare – dall’urgenza politica di rispondere, su un piano e con argomenti appropriati e non marginali, all’evoluzione del fenomeno Lega nei nostri territori, dalla rappresentanza mistificata della composizione del lavoro della piccola e media impresa diffusa, nella protesta fiscale, all’agitarsi dell’ipotesi della rottura secessionista, come interpretazione strumentale (oggi possiamo ben dirlo!) della radicata domanda di autonomia produttiva, economica e politica, presente nelle regioni del Settentrione.

Sia detto per inciso, questa urgenza ha lasciato comunque maturare un frutto importante: l’incorporazione, al di là delle contingenti discussioni  su questa o quella ipotesi di riforma delle architetture istituzionali, della cultura politica federalista (della visione cioè di un “federalismo integrale”, produttivo, sociale e culturale prima ancora che politico) nel nostro patrimonio teorico e ideale. Se ci pensiamo bene si è trattato di un lascito duraturo, che ha mutato anche la nostra metodologia organizzativa nei movimenti e che ci ha surrogato, per fortuna, non tanto di una riverniciata icona ideologica onnicomprensiva, quanto di un insieme di preziosi strumenti per la costruzione del discorso e del progetto politico, destinato a vivificare con nuova linfa concetti come quello di “autonomia” e, più recentemente, di “indipendenza”.

** Sul “federalismo municipale”. Questo secondo momento della nostra genealogia corrisponde all’incontro successivo tra la suggestione evocata dall’utopia dell’insorgenza zapatista e il ciclo di movimento noglobal. Il linguaggio e le pratiche innovative che si irradiavano dal Chiapas indicavano la possibilità di avviare, in armi, un processo rivoluzionario che, senza rinviare all’ora fatale della “presa del potere”, aprisse qui ed ora, nella dimensione locale, spazi di liberazione possibile. Era l’ipotesi, certo viziata da tratti naturalistici ed organicisti, dell’ “autogoverno delle comunità”, ovviamente rapportata ad un contesto affatto differente, ad una composizione sociale  ben diversa da quella delle minoranze indigene e ad un livello di sviluppo capitalistico e dei rapporti di produzione ben diverso da quello della Selva chiapaneca.

Ma questa suggestione ci accompagna in tutta la stagione del “movimento dei movimenti”, del movimento noglobal e poi nowar. L’equivoco, purtroppo allora maggioritario, intorno all’ambiguo rapporto movimento-partiti – con gli esiti devastanti che ha determinato sia sul terreno della rappresentanza, sia su quello delle lotte – non ci ha neppure in quella fase appartenuto. Anzi, risultandone purtroppo sconfitti, l’abbiamo combattuto nei movimenti e, paradossalmente con maggior successo, anche nelle esperienze istituzionali in cui eravamo coinvolti.

Per noi quella fase è stata soprattutto connotata dal tentativo di spingere in avanti la sperimentazione, il cui rapporto corretto con la crescita del movimento noglobal avrebbe dovuto essere la scelta di giocare “il locale dentro e contro il globale”. Ovvero di rilanciare e consolidare un’opzione di radicale “autogoverno municipale”, nell’intreccio locale tra azione dei movimenti e azione amministrativa, riversando i claims, le rivendicazioni provenienti dalle lotte sociali in spazi intermedi di “democrazia partecipata”, diretta e non rappresentativa, e proponendo la loro traduzione in rights, diritti formalmente riconosciuti e in policies, concreti progetti locali.

Qui, sulla scorta anche (fatte le debite differenze contestuali) delle esperienze brasiliane, prima fra tutte quella del “bilancio partecipativo” di Porto Alegre, il tema dell’autogoverno passa da una declinazione “comunitaria” ad una più marcatamente “civica”: i protagonisti delle pratiche di partecipazione sono piuttosto i “cittadini” , con tutta l’ambiguità e le contraddizioni che questo terreno comporta, costringendoci ad affrontare la tensione critica che lo statuto stesso della cittadinanza (e della sfera di diritti e doveri ad essa collegata) comporta.

Il tutto avrebbe dovuto giungere a configurare la costruzione di reti di municipi liberi, che opponessero la relazione federativa tra città ai nuovi poteri sovranazionali e imperiali che si imponevano sulla scena, in una sorta di permanente esercizio di contropotere globale. E’ con questo spirito che ci siamo misurati con i Forum Sociali europei e mondiali, non certo con l’idea della costruzione di una rappresentanza planetaria che mettesse tutte assieme le burocrazie di movimenti, partiti e sindacati.

Ed è con questo stesso spirito che abbiamo spinto l’incursione istituzionale fino all’assunzione di dirette responsabilità nel governo locale (si badi bene, non nella pura e semplice rappresentazione di istanze!) fino a quando, tra il 2005 e il 2006, la stagione noglobal-nowar viene definitivamente archiviata e i partiti del Centrosinistra chiudono progressivamente gli spazi di possibile “anomalia”, preparandosi alla fallimentare parentesi del Governo Prodi bis.