From Tute Bianche to the Book Bloc: the Italian movement and the coming European insurrection

Dalle Tute bianche al Book bloc: il movimento italiano e l'insurrezione europea che viene

Abstract dell'intervento per il convegno di Londra del 23 febbraio 2011 di Marina Montanelli

23 / 2 / 2011

L'importanza di conoscere e incontrare oggi chi, qui a Londra, ha attivamente costruito le esperienze di conflitto di questo autunno, è data anche e soprattutto dal fatto che crediamo, guardando a questo determinato momento storico, che ci sia l’esigenza di mettere in rete ed organizzare tutte queste esperienze – di rivolta, di resistenza e di sottrazione – che si sono espresse e continuano a esprimersi in Europa e nel mondo.

Proprio da qui vorrei partire. Dalle lotte che si sono date quest’autunno. Credo che ciò che dobbiamo far emergere oggi non è tanto l’espressione di una semplice solidarietà reciproca, ma la ricerca di un comune, di un discorso comune che abbiamo iniziato a produrre e che ci segnala che, fuori dalla logica del capitalismo globale, c’è la possibilità concreta di costruire un’alternativa.

Quello che è emerso quest’autunno, da Londra a Roma, dalla Francia, ai paesi del Mediterraneo, è l’espressione di una critica radicale e determinata alle politiche di austerity e alla gestione della crisi economica globale. Dal crack del 2008 il problema principale è stato salvare le banche e i macro-istituti economici e finanziari, senza mettere assolutamente in discussione il modello economico e politico che ha prodotto questa crisi. E questo meccanismo si è direttamente concretizzato nell’attacco e nella distruzione degli istituti del welfare, nei tagli alla spesa pubblica, con l’intento ben preciso di farla finita con tutte quelle conquiste che si sono date a partire dalle lotte degli anni ‘60 e ‘70. Ma la domanda che, come studenti, ci dobbiamo porre è: perché in questo contesto, in cui la produzione di conoscenza diventa centrale a tutti i livelli, l’obiettivo principale diventa farla finita con l’università pubblica di massa? Perché là dove il sapere diventa il modo di produzione centrale l’obiettivo è chiudere la possibilità di un accesso universale al mondo della formazione e dell’università?

L’obiettivo è ridurre l’eccedenza che il sapere produce, costringere nei recinti la possibilità, direttamente insita nella produzione del sapere, di autonomia e critica. Noi in Italia abbiamo dato a questo dispositivo il nome di declassamento, per indicare quel processo per cui la pauperizzazione forzata, la riduzione delle possibilità rispetto ai propri progetti di vita e di lavoro sono funzionali ad una precarizzazione selvaggia e senza scrupoli. Come a dire che, posti in una condizione di necessità assoluta, di precarietà completa, i giovani e gli studenti di tutta Europa possono essere, nelle dinamiche economiche, disposti e sottoposti a meccanismi di ricatto continuo. Di cosa si tratta se non di una variante della schiavitù moderna?

A tutto questo insieme di problemi l’opposizione tradizionale del partito di sinistra e anche della maggior parte dei sindacati non riesce a dare una risposta che sia all’altezza. Quando siete, quando siamo scesi in piazza quest’autunno, le richieste, i desideri che abbiamo espresso non sarebbero potuti essere rappresentati da nessuno. Questo perché, nel contesto della crisi, la cosiddetta rivoluzione neoliberista ha trovato strada facile ancor di più a fronte del palese fallimento delle ipotesi riformiste e delle alternative neo-keynesiane tradizionali. E’ di questi giorni la notizia che Obama è stato costretto a varare una manovra finanziaria durissima, «lacrime e sangue», con tagli enormi sulla spesa pubblica e sul mondo della conoscenza e della formazione. Allora quando parliamo di crisi economica globale, ci riferiamo anche ad una crisi del riformismo.

Noi crediamo che, dentro questo quadro, la ragione che ha condotto molti studenti e precari a scendere in piazza e a ribellarsi, sia fondamentalmente un problema e una crisi generazionale. La nostra generazione è quella che si trova esclusa da ogni forma di patto sociale. E’ la generazione “no future” che, pur avendo un livello di istruzione superiore ai propri genitori, ha la consapevolezza che sarà più povera di loro ed è quella a cui si sta negando la possibilità stessa di immaginare e costruire il proprio futuro.

In Inghilterra nel ‘600 con le prime enclosures si istituì la proprietà privata. Oggi le nuove enclosures, che si stanno costruendo rispetto al sapere e alla conoscenza, definiscono una nuova fase di accumulazione originaria e di nuova privatizzazione. Nelle lotte di questi mesi l’obiettivo principale è stato impedire in primis la totale dismissione del settore pubblico. Battersi contro i tagli alla ricerca e all’università, così come voi a Londra contro la triplicazione delle tasse universitarie, significa impedire che quell’istituto pubblico venga distrutto. Ma questa lotta assolutamente non allude ad una semplice difesa del pubblico, in quanto esso è statuale o garantito dallo stato. Credo che quando costruiamo momenti di opposizione e di sottrazione, stiamo già indicando un processo alternativo: difendere il pubblico significa già direttamente immaginare e poter concretamente costruire un comune in atto. Rivendicare la difesa del pubblico non significa accontentarsi dell’esistente e dei servizi che lo stato può garantire ed offrire, ma avere la possibilità concreta di costruire collettivamente nuove istituzioni. Istituzioni autonome e comuni che producono nuove norme a partire dal basso e che rivendicano forme di vita alternative.

Per questo dal movimento dell'Onda fino al Book Bloc, tra le rivendicazioni fondamentali del movimento italiano, centrale è stata quella rispetto a nuove forme di welfare: reclamare forme di reddito garantito per i precari e per gli studenti, aprire vertenze sulla mobilità, sull’accesso alla cultura e ai servizi sociali. Per chiarezza: in Italia, ancor meno che negli altri paesi europei, esistono forme di sostegno diretto ed indiretto ai giovani, ai precari e ai lavoratori in generale. Con una battuta possiamo dire che, da noi, l’unica forma di welfare è la famiglia (nel caso se lo possa permettere). Ma in tutta Europa, più in generale, sta avvenendo uno smantellamento degli istituti del welfare tradizionalmente intesi ed essi non vengono rimpiazzati né sostituiti da nessuna altra forma alternativa. Quando reclamiamo reddito per vivere, studiare e lavorare, non chiediamo però di venire assistiti e sostenuti dallo Stato, ma di essere corrisposti economicamente in un contesto in cui tutte le nostre attività, lungo tutta la nostra giornata, vengono incanalate in un meccanismo di produzione complessiva di valore. Richiedere reddito vuol dire istituire un corrispettivo per una produzione continua, che nello stato del capitalismo attuale, avviene a tutti i livelli: dalla scuola, all’università, dal call center, ai lavori di cura.

Un altro terreno decisivo, negli obiettivi che come movimento abbiamo posto, è stato quello dell’autoformazione, a partire dal processo complessivo di frammentazione e dequalificazione dei saperi che si è dato dal Processo di Bologna fino all’attuale riforma Gelmini. La dequalificazione è strettamente connessa con la questione del declassamento, ma soprattutto con il problema della distinzione tra università di serie B e università di serie A, ovvero tra quelle in cui viene trasmesso un sapere stantio e quelle che puntano sull’eccellenza, magari richiedendo delle tasse molto elevate. Per noi il dispositivo dell’autoformazione, ancor di più oggi, ha un valore centrale entro il contesto delle battaglie universitarie: da un lato, costruire dal basso seminari su temi normalmente non trattati nel contesto accademico ufficiale, indagarli, approfondirli e analizzarli, significa produrre nuovo sapere a partire dalla cooperazione delle intelligenze, là dove il sapere è sempre frutto di un processo collettivo e mai individuale. Significa rivendicare e praticare concretamente la libertà di ricerca e fare irruzione nell’accademia con nuovi saperi, mai neutri, ma sempre politicamente connotati. Autoformazione nell’università riformata e dequalificata significa mettere in campo l’unico dispositivo possibile di eccellenza e di qualificazione dei saperi. Dall’altro lato, l’ulteriore valore già sempre politico del dispositivo di autoformazione è dato dalla rivendicazione di crediti formativi con i seminari che costruiamo. Quando richiediamo crediti, e quindi un riconoscimento formale, non ci uniformiamo al sistema esistente, ma proviamo a strappare degli spazi e dei momenti di determinazione autonoma del sapere. L’obiettivo è far esplodere e saltare l’unità di misura. Un’unità di misura che è di per sé del tutto irrazionale e assurda: i crediti, infatti, puntano a quantificare le ore di studio individuali e di lezione. Ma il sapere ha una caratteristica fondamentale del tutto irriducibile al semplice numero: è per sua natura comune, perché si dà e si accresce solo nel meccanismo di circolazione collettiva.

In questo quadro di rivendicazioni, il valore simbolico di una pratica quale quella del Book Bloc diventa ancora più esplicito: a partire da quei saperi che ogni giorno condividiamo e produciamo, a partire dalla difesa di essi, siamo scesi in piazza quest’autunno. A fronte di politiche economiche per cui la ricerca e il sapere sono costi da scaricare piuttosto che risorse su cui investire, studenti, ricercatori e precari hanno manifestato, difendendo e rivendicando quei saperi e, al tempo stesso, facendosi difendere da quegli stessi saperi, da quei libri – scudo, là dove la risposta del governo era solo arroganza, autoritarismo e repressione. La pratica del Book Bloc, inoltre, è stata in grado di produrre un immaginario forte attorno alle nostre rivendicazioni, un immaginario in grado di parlare in maniera immediata alla società tutta e di costruire così uno spazio ampio di consenso. Da questo lungo autunno, dall’Europa fino al Mediterraneo, emerge un dato fondamentale: attraverso la rete e i social network siamo riusciti a comunicare immediatamente questioni che, all’oggi, riguardano in modo diffuso tutta una generazione. Ma ancora non basta: perché dobbiamo continuare ad inventare dell’altro, costruendo un linguaggio e delle pratiche comuni, immediatamente riproducibili, contagiose. La riproducibilità delle pratiche e dei linguaggi ci permette di aumentare la potenza espressiva delle nostre rivendicazioni: questo è stato il senso che abbiamo costruito nell’uso del Book Bloc, da Roma a Londra. Il citarsi reciprocamente, dalla pratica del Book Bloc, ai cortei selvaggi, agli assedi dei palazzi del potere, alla violazione della zona rossa, ha permesso di imporre come centrale il problema generazionale. E’ attraverso tutti questi strumenti che possiamo riuscire ad incidere e ad irrompere nel dibattito politico, inventando un nuovo discorso politico.

Ora vorrei concludere su due questioni su cui stiamo articolando la progettualità in Italia. In primo luogo abbiamo deciso di uscire fuori dalle università, perché la crisi che stiamo vivendo, coinvolge veramente tutti e crediamo che in questo contesto sia quanto mai urgente mettere in connessione diverse soggettività e provare a intrecciare le differenze. Per questo abbiamo dato vita ad una rete, «Uniti contro la Crisi», che coinvolge gli studenti, i centri sociali, le esperienze che lavorano per il diritto all’abitare, così come quelle che fanno battaglia per i diritti dei migranti e, infine, con un pezzo del sindacato degli operai metalmeccanici, la FIOM. Come ho accennato già prima, è chiaro che, è la stessa forma sindacato che è in crisi e che rischia, in alcuni casi, di non riuscire più a dare rispondenza alle aspettative, ai desideri e alle esigenze di una composizione sociale articolata e complessa. Ma, rispetto a quello che sta avvenendo almeno da noi, accade anche che, in un contesto in cui vengono intaccati anche i diritti fondamentali – ad esempio la possibilità, sul terreno del lavoro, di contrattare collettivamente rispetto al salario o al licenziamento – il sindacato diventi disponibile ad un cambiamento e a delle aperture. Contro la crisi occorre tentare nuovi esperimenti e soprattutto ricercare un comune tra studenti, migranti e operai che esca fuori dalla logica della mera solidarietà. Un comune che si basi su alleanze forti in grado di dare una risposta determinata -alimentata da un’altra idea di società – all’attacco generale che stiamo subendo.

Infine, vorrei concludere sulla necessità di rilanciare e proseguire in grande una stagione di lotte a livello globale. Soprattutto guardando a quello che sta succedendo nel Mediterraneo. Non possiamo non cogliere la grande sfida che abbiamo davanti. Di fronte a un’esplosione di conflitti continua – che procedono secondo un effetto domino – non possiamo non valorizzare la possibilità concreta di una sempre maggiore generalizzazione delle lotte e del conflitto. E questo a partire dalla costruzione di alleanze forti tra di noi, dalla messa in rete sempre più potente delle nostre esperienze, dei nostri discorsi, delle nostre pratiche, dei nostri obiettivi.

Proprio per questo crediamo che l’inizio, o un ulteriore step decisivo di questo percorso comune, possa essere quello di un meeting euro-mediterraneo che vorremmo ospitare a Roma all’Università La Sapienza all’inizio di maggio. Ospitare tutte quelle esperienze di lotta europee e mediterranee, tutte quelle componenti che hanno contribuito a dare vita alla possibilità di un movimento globale può essere l’occasione per un confronto vero e per la costruzione di un nuovo spazio comune.

Dieci anni fa a Genova il movimento no-global aveva praticato fino in fondo una rottura, intuendo una serie di scenari e alludendo ad una nuova possibilità. Ora, anche se con una novità e secondo dei discorsi e delle pratiche del tutto irriducibili a quell’esperienza, quella possibilità si sta attuando.