Decreto Salva-Banche: la socializzazione delle perdite oltre la truffa

10 / 12 / 2015

La socializzazione delle perdite e la privatizzazione della rendita sono stati i due principi attraverso i quali il capitalismo ha riprodotto sé stesso dentro la crisi sistemica ed ha ristrutturato la propria capacità di estrarre valore attraverso i dispositivi finanziari. Questo meccanismo è avvenuto da un lato attraverso la finanziarizzazione del debito privato, espressasi con le grandi bolle speculative sui “titoli tossici” dei risparmiatori (ossia di tutta quella massa di proletari e ceto medio che ha fatto ricorso in maniera massiccia all’indebitamento privato per soddisfare esigenze primarie nel corso degli anni ’80 e ’90, in conseguenza del progressivo arretramento del Welfare State), dall’altro grazie alla trasformazione delle perdite bancarie in debito pubblico.

Il Tarp americano (il cui programma d’intervento, gestito dall’amministrazione Bush prima e da quella Obama poi, ha visto immettere complessivamente 7.700 miliardi di dollari all’interno del sistema bancario) ed i vari piani di salvataggio attuati dalle banche in Europa hanno costituito le premesse per la metamorfosi della crisi finanziaria in crisi del debito sovrano. Una metamorfosi che il capitale ha gestito attraverso gli strumenti coercitivi e fiscali dei singoli Stati, dando vita alla cosiddetta “stagione dell’austerità”, ma che allo stesso tempo ha avuto i punti focali nei principali istituti della governance finanziaria, primo fra tutti la Bce.

Save people not banks”, uno degli slogan più utilizzati dai movimenti anti-austerity nati in tutto il mondo negli ultimi anni, esprime a fondo la pretesa di milioni di persone di ottenere “giustizia sociale” e di contrastare il più grande depauperamento collettivo che il capitalismo abbia compiuto nel corso della storia.


Parlando delle ultime vicende bancarie che hanno toccato il nostro Paese non è possibile leggere il cosiddetto “decreto Salva-banche”, varato nel Consiglio dei Ministri dello scorso 22 novembre, sganciato da queste considerazioni preliminari. Il decreto in questione, volto a togliere dal baratro della bancarotta quattro istituti di credito (Banca delle Marche, Banca dell’Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti), prevede lo stanziamento di 3,6 miliardi di euro. Di questi, 1,6 miliardi saranno versati dalla cosiddetta “linea di credito” formata da Unicredit, San Paolo e UBI ed i restanti garantiti dalla Cassa Depositi e Prestiti attraverso fideiussioni. Nonostante il governo ed i vertici della Banca d’Italia affermino l’inesistenza di un piano di salvataggio delle banche attraverso finanziamenti pubblici, di fatto il Fondo di Risoluzione viene garantito dalle casse statali.

Al di là di questo meccanismo, che sembra ripercorrere le linee che hanno dettato i principali salvataggi di banche descritti in precedenza, riattualizzando il principio di “socializzazione delle perdite”, nel caso italiano emergono altri elementi che gettano ulteriori ombre sul decreto. Ci riferiamo in particolare alla denuncia, fatta da tanti risparmiatori, di essere stati costretti a comprare obbligazioni subordinate, ossia quei titoli il cui rimborso, in caso di liquidazione o fallimento dell'emittente, avviene successivamente a quello dei creditori ordinari e che quindi presentano un altissimo livello di rischio.

La vicenda, che ha assunto caratteri tragici in seguito al suicidio di un pensionato coinvolto in questa “truffa”, è stata oggetto anche di una protesta da parte dei risparmiatori davanti a Montecitorio (in occasione della discussione, avvenuta il 7 dicembre, della legge di Stabilità) ed è ora tema di un acceso dibattito politico. Un dibattito che si è subito tramutato in farsa quando il premier Renzi, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera domenica scorsa, ha strenuamente sostenuto che queste persone abbiano firmato contratti regolari.

E mentre Bankitalia ed Unione Europea continuano a rimbalzarsi l’accusa rispetto al coinvolgimento dei risparmiatori all’interno dell’operazione, migliaia di persone si vedono azzerare i tassi d’interesse (conseguenza del cambio forzato di istituto di credito), annullando di fatto i risparmi di una vita.


A livello macro-economico non è difficile collegare la “linea di credito” dei tre grandi istituti bancari italiani con le politiche monetarie espansive tracciate da Draghi attraverso il Quantitative Easing e non è neppure complicato svelare il carattere speculativo di questa operazione. L’immissione di liquidità attraverso il QE, decisa nello scorso gennaio e che terminerà non prima del marzo del 2017 (decisione presa dal board della BCE lo scorso 3 dicembre) non ha favorito la “rinascita” dell’economia reale, ma è stata assorbita dai circuiti della finanza internazionale al fine di implementare la propria capacità di acquisire titoli e speculare sugli stessi. Un’operazione della finanza per la finanza e lo dimostra in maniera lampante il recente caso italiano.

A questo si deve aggiungere che, a partire dal 1 gennaio 2016, diventerà esecutivo il cosiddetto “bail-in”. Si tratta di un provvedimento europeo, a cui il Governo italiano ha dato il via libera lo scorso 13 novembre, secondo cui  il salvataggio delle banche in crisi dovrà avvenire con il supporto dei creditori della banca stessa. Citando Luigi Pandolfi ( in un recente articolo scritto per Huffington Post) i cittadini europei, già estenuati dal binomio debito pubblico/austerità, si troveranno costretti a pagare nuovamente di tasca propria le prossime perdite bancarie in quella che, secondo alcuni politici ed economisti, sarà la fase della ripresa economica, ma che in realtà si preannuncia come l’inizio di una lunga stagnazione.