Dell’uso strumentale del reddito per finalità politiche

di Andrea Fumagalli e Cristina Morini, da Effimera.org

15 / 1 / 2018

Proponiamo un pezzo di Andrea Fumagalli e Cristina Morini, pubblicato su Effimera.org, che affronta in maniera articolata il modo strumentale - e fuorviante  - con cui il tema del reddito sia entrato nella campagna elettorale che ci condurrà alle elezioni politiche del 4 marzo.

Non è necessario essere dei veggenti, ma neppure fini analisti, per prevedere che uno degli argomenti al centro della prossima campagna elettorale sarà costituito dal tema del reddito.

Le tre principali forze politiche (5 Stelle, Pd e infine, ultima in ordine di apparizione, Forza Italia) si stanno sfidando. I 5 Stelle da anni hanno lanciato la proposta di “reddito di cittadinanza”, il Pd ha recentemente proposto e fatto approvare la misura del “reddito di inclusione” (ReI), Berlusconi, per non essere da meno, ha aggiunto la proposta del “reddito di dignità”, scippando  un’espressione da tempo utilizzata da una campagna promossa dall’associazione Libera e da altre realtà della società civile.

In tutti i casi, il tema del reddito è strumentalmente utilizzato per altri fini e in particolare viene declinato come forma di controllo della povertà. Tale interpretazione è propedeutica all’imposizione di un sistema di welfare che si avvicini il più possibile al workfare liberista di matrice anglosassone, eliminando ciò che resta del welfare universalistico (in materia di sanità e scuola pubblica).

Questa finalità è comune a tutti e tre i raggruppamenti politici, senza grandi distinzioni e si fonda su due aspetti omogenei alle tre proposte, che vale la pena approfondire.

Il reddito subordinato al lavoro

Il reddito viene concepito come misura sempre subordinata all’obbligo del “lavoro”: questo è il primo elemento da sottolineare. Nella proposta dei 5 Stelle si fa notare con enfasi che il “reddito di cittadinanza” è una misura “condizionata”. Comporta, cioè, precisi obblighi per il destinatario, come l’iscrizione ai centri per l’impiego pubblici e la necessità di garantire un contributo di circa otto ore settimanali ai progetti sociali del Comune di residenza. I controlli sono affidati agli stessi centri, collegati telematicamente con i ministeri e con l’Agenzia delle Entrate.

Come giustamente afferma Roberto Ciccarelli: “c’è una truffa lessicale che, tra l’altro, si è trasformato in un boomerang per questo movimento. Il reddito di cittadinanza va a tutti i residenti con la cittadinanza a vita. In questa forma è applicato solo in Alaska. Quello M5S è invece un reddito minimo condizionato dallo scambio con un lavoro”.

Per il Pd di Renzi, ma anche per buona parte delle nuove formazioni a sinistra del Pd “Liberi e uguali” e “Potere al popolo”, il vero tema non è l’erogazione di un reddito di cittadinanza ma quella di un “lavoro di cittadinanza”. E infatti, l’introduzione del reddito di inclusione rispecchia tale orientamento. Nel caso del ReI, occorre anche ricordare che l’introduzione di una misura di contrasto alla povertà era atto dovuto (o meglio obbligato) all’Europa, dopo i numerosi richiami che la Commissione Europea aveva rivolto all’Italia e il conseguente rischio di sanzioni. Un vulnus, tra l’altro, difficilmente sostenibile per un governo che si professa europeista.

Per ricapitolare velocemente, i requisiti economici per l’accesso alla misura del ReI (art. 3 comma 1 lett. b), prevedono che il nucleo familiare nella sua interezza presenti un reddito Isee non superiore a 6.000 euro lordi l’anno, con un valore del patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20.000 euro e un patrimonio mobiliare non superiore ai 6.000 – accresciuta di 2.000 euro per ogni componente del nucleo familiare successivo al primo, fino a un massimo di 10.000 euro. Sono indicati ulteriori titoli relativi al possesso di automobili, imbarcazioni e motorini.

Si tratta di una misura fortemente condizionata in senso familista e assistenziale: possono accedere solo i nuclei familiari che si trovano in una delle condizioni già previste per Sostegno di Inclusione Attiva e dunque hanno al proprio interno un minore di anni 18 o un disabile o un anziano di cui ci si fa carico o un disoccupato di oltre 55 anni, al momento privo di sostengo.

Ne hanno diritto solo i cittadini italiani e dell’unione europea e i titolari del permesso di lungo soggiorno, cosicché rimangono esclusi, oltre alla stragrande maggioranza dei migranti regolari (che sono anche i più poveri), i titolari dello status di rifugiato o protezione sussidiaria. Un paradosso: già in occasione di due analoghe esclusioni, l’Inps è poi dovuto intervenire con propria circolare, estendendo l’accesso. Visti insomma vincoli e limiti, non stupisce che il ReI possa raggiungere una platea pari a poco più del 22% delle famiglie in condizione di povertà assoluta.

L’aspetto inquietante del ReI è la filosofia sottostante, che prevede una preventiva valutazione multidimensionale del bisogno del “povero” e l’elaborazione di un progetto personalizzato contenente obiettivi specifici (occupazionali, di inserimento sociale ecc.). La costruzione di tale processo personalizzato è assai invasiva nella vita delle persone, sia in termini di controllo sui consumi che sulle scelte esistenziali. Deprimente e stigmatizzante sentirti dire che non puoi comprare cibo per un piccolo animale o una bottiglia di vino. L’intendimento di perenne esame e di disciplinamento del povero è del tutto evidente, visto che in caso di mancato rispetto del progetto, i beneficiari sono soggetti a sanzioni che possono arrivare fino alla revoca del beneficio.

Inoltre, l’esiguità della cifra erogata e la brevità del beneficio (diciotto mesi) avvalorano l’idea che la misura non sia di per sé né sufficiente né utile a far fuoriuscire i beneficiari dalla condizione di povertà.

Piuttosto, il ReI è una misura di controllo e gestione della povertà e insieme un business. Nel momento stesso in cui il pensiero neo-liberista manifesta tutta la sua forza, piegando l’intera logica economica agli interessi delle nuove oligarchie geo-economiche e politiche, la lotta alla povertà e per lo sviluppo diventa il nuovo mantra della governamentalità sociale e nuova fonte di valorizzazione. Gli aiuti ai poveri, così come ai migranti, alle persone in difficoltà possono diventare una “forma di impresa”. Un esempio paradigmatico, in tal senso, è offerto dalla gestione privatistica dell’accoglienza dei migranti e dei rifugiati, intorno alla quale si è creato un sistema di profitto di notevoli proporzioni. Esempi analoghi di “impresizzazione del welfare” si hanno nella sanità (vedi il caso lombardo) oppure nell’istruzione, all’indomani della parificazione tra scuola pubblica e privata.

La proposta di Berlusconi del reddito di dignità è ancora troppo lacunosa e incerta per analizzarla in dettaglio. Notizie di stampa hanno riportato, nelle scorse settimane, la seguente dichiarazione del leader di Forza Italia: “Chi si trova sotto una certa soglia di reddito, potrebbe essere 1000 euro al mese da aumentare di un tot per ciascun figlio a carico, non solo non dovrebbe pagasse le tasse, ma lo Stato dovrà versargli la somma necessaria per arrivare ai livelli di dignità garantita da Istat. Una somma che può variare, a seconda della zona del Paese in cui la persona vive”. Scommettiamo comunque che anche un tale provvedimento, se verrà confermato, sarà fortemente condizionato dalla necessità di dimostrare la propria attivazione nel mondo del lavoro.

La riforma del welfare e della tassazione

Cosicché arriviamo al secondo aspetto che accumuna le tre misure di reddito al centro del dibattito politico italiano: esse sono un tassello importante del workfare.

Il Workfare non è un sistema universale di assistenza sociale (come quello keynesiano): è garantito solo a chi ha i mezzi finanziari per sostenerlo, oggi sempre più tramite contributi versati a imprese e finanziarie private che gestiscono servizi assicurativi in materia previdenziale, sanitaria e di istruzione. Si tratta di un sistema di welfare auto-finanziato, come la maggior parte del sistema previdenziale europeo di oggi, funzionale al processo di privatizzazione della sanità, dell’istruzione e della previdenza. Il Workfare è complementare al cosiddetto “principio di sussidiarietà”, secondo il quale lo Stato può intervenire solo quando gli obiettivi posti non possono essere raggiunti in modo soddisfacente dal mercato privato.

In quest’ottica, lo Stato svolge un ruolo minimo. Il reddito di cittadinanza, di inclusione o di dignità ha così lo scopo di intervenire per i livelli assoluti di povertà (i diseredati), per poi giustificare lo smantellamento di altri servizi sociali di base e favorire una riduzione dell’imposizione fiscale.

Non a caso Berlusconi fa esplicito riferimento alla teoria dell’imposta negativa sul reddito. Tale teoria venne sviluppata da Milton Friedman (il padre del neoliberismo) e Juliet Rhys-Williams come strumento di politica fiscale, ed è intesa come un’imposta personale sul reddito che, al di sotto di una determinata soglia, definita minimo imponibile, si trasforma in un sussidio. Secondo l’approccio neoliberista, l’imposta negativa dovrebbe costituire un sistema universale di supporto agli individui a basso reddito, con l’obiettivo di sostituirsi agli attuali approcci di assistenza sociale per ridurre i costi elevati dovuti al mantenimento della burocrazia necessaria a gestirne i programmi e disincentivare comportamenti parassitari. Il welfare pubblico viene così del tutto svuotato a favore del mercato e della finanziarizzazione privata dei servizi sociali.

Tale proposta prevede quindi una profonda riforma del welfare e della tassazione. I servizi sociali primari (sanità e istruzione in primo luogo) vengono privatizzati e si aprono le condizioni per introdurre la flat tax, ovvero un’unica aliquota fiscale a prescindere dal livello di reddito. Ricchi e poveri pagano così la stessa aliquota di tasse, esclusi coloro che si trovano al di sotto  della soglia del minimo vitale. La progressività delle aliquote diventa un vago ricordo.

Il risultato finale è che, con la scusa di garantire un reddito di sopravvivenza ai più poveri, i più ricchi hanno elevati vantaggi fiscali e i mercati finanziari possono brindare a nuove opportunità di guadagno grazie alla privatizzazione del welfare.

Anche le proposte di reddito dei 5 Stelle e del Pd, seppur in modo non così esplicito, si muovono in questa direzione. Non si parla espressamente di privatizzazione del welfare, ma di “semplificazione fiscale” (i 5 Stelle) e di “muoversi nel solco della riduzione delle tasse e del debito” (il Pd). Le leggi di stabilità degli ultimi tre anni si sono infatti collocate all’interno di questa filosofia di intervento selettivo a vantaggio della diminuzione delle tasse per le imprese e per i profitti e di riduzioni dei budget pubblici per i servizi sociali.

Cambiare rotta

Che l’Italia sia un paese ipocritamente intriso di etica del lavoro è cosa nota. Che i partiti di sinistra e i sindacati siano sempre stati i più strenui sostenitori dell’obbligo/obiettivo della piena occupazione lo è altrettanto. L’idea che solo il lavoro tradizionalmente inteso sia fonte di dignità e di rispetto, elemento di inclusione e di cittadinanza, è dura a morire. Eppure, il lavoro, a meno che non venga inteso come opus o ozio creativo, quasi mai è frutto di libera scelta, non finalizzato a produrre valore di scambio ma a soddisfare i propri bi/sogni in un’ottica di autonomia soggettiva e di autodeterminazione. E ciò vale tanto più oggi, in un’epoca in cui assistiamo alla diffusione generalizzata del lavoro non remunerato. Si tratta di una realtà che è perfettamente coerente con i processi di valorizzazione e di sfruttamento del capitalismo bio-cognitivo. Sempre più la vita e la soggettività degli esseri umani tendono a costituire l’input principale per la produzione cognitivo-relazionale (socialità e sessualità) di cui il capitalismo contemporaneo si alimenta. Siamo tutte e tutti, nessuno escluso, “produttori di dati e di relazioni” che entrano in modo sempre più diretto nei processi di accumulazione capitalistica, o per via di espropriazione o per via di assoggettamento. La remunerazione simbolica tende a sostituirsi alla remunerazione monetaria.

Per questo è necessario ribadire che il reddito di base, lungi dall’essere forma di assistenza, è lo strumento della remunerazione del lavoro contemporaneo (relazionale e della cooperazione sociale) sfruttato – ora organizzandolo esplicitamente; ora in modo parassitario – dal biopotere del capitale.

Ciò non è presente nel dibattito attuale del reddito e nessuna forza politica, anche quella più antagonista, sembra in grado di cogliere il passaggio: il fatto che la discriminazione sociale oggi si definisce tra chi svolge un’attività produttiva riconosciuta (e quindi remunerata, seppur in modo sempre più precario) e chi, pur partecipando alla creazione di valore (di scambio), non viene remunerato. Non vi è differenza tra chi oggi è occupato e chi ufficialmente viene definito disoccupato: entrambi, pur nelle diversità, partecipano direttamente alla produzione di valore. La differenza è tra chi percepisce reddito e chi no. Il tema dirimente non è la continuità di lavoro ma quella di reddito.

Ne consegue che il reddito di base è forma di remunerazione, è reddito primario, come da tanti anni sostenuto da Carlo Vercellone; di conseguenza, per definizione, deve essere incondizionato. Non è un caso che è proprio su questo attributo che è possibile comprendere se le proposte di reddito (di cittadinanza, di inclusione o di dignità) sono effettivamente proposte di reddito di base. Nessuna di queste lo è.

Solo se il reddito di base è incondizionato può realmente rappresentare un’opzione di cambiamento reale dello stato di cose presente e aprire alla possibilità di autodeterminazione della vita e di autonomia della soggettività. Altrimenti, continueremo a essere schiavi delle nostre e delle altrui catene.

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