di Pietro Fanesi e Stefano Re

Dopo gli stadi e i centri, un'isola: Lampedusa

Eccedenze di libertà e nuovi dispositivi di controllo

29 / 3 / 2011


Appena tornati da Lampedusa tutto sembra strano e senza senso, leggere quella realtà in assenza della percezione diretta di ciò che sta accadendo fa risaltare come il filtro imposto dall’ordinarietà mediatica mainstream nulla dice e nulla denuncia della complessità della catastrofe lampedusana. Le immagini ripetitive e ridondanti degli ‘sbarchi’ al porto non possono raccontare la cruda fisionomia che l’isola ha assunto ormai da qualche settimana.

La notizia della chiusura del porto ai giornalisti fa però venire a galla ciò che accade e ciò che con i nostri occhi abbiamo visto durante i primi giorni del presidio della campagna Welcome!. A chi ha avuto la possibilità di toccare con mano la situazione drammatica di queste ore, appare evidente che Lampedusa non è l’avamposto di un’invasione ‘biblica’, ma rappresenta piuttosto una delle nuove forme di confinamento, una modalità nuova (e se possibile ancora più degradante) nella quale la forma-campo si esprime, attingendo dalle esperienze ormai decennali di detenzione amministrativa dei migranti: dalle prime sperimentazioni degli anni ’90 nelle quali venivano utilizzati gli stadi, all’istituzione dei primi Centri di Permanenza Temporanea ( e assistenza), poi divenuti Centri di Identificazione ed Espulsione, fino alla ‘cittadella di transizione’ rappresentata dal villaggio di Mineo.

Lampedusa è, ora, un isola di permanenza temporanea. Va detto chiaramente. È un grande centro di detenzione delle e dei migranti a cielo aperto, in cui casualmente questa volta, per (s)fortuna, si trovano a vivere anche cittadine/i lampedusane/i. Lampedusa rappresenta la valvola che impone al viaggio di queste migliaia di persone verso un futuro di speranza il primo stop: le imbarcazioni di fortuna con le quali cercano di avviare questa nuova vita vengono forzosamente tradotte e accompagnate dai mezzi delle autorità italiane verso l’isola; destinazione dalla quale si esce solamente smistati nei vari Centri d’identificazione provvisori, febbrilmente allestiti in questi giorni dal Governo e che altro non sono che luoghi di confinamento e detenzione. All’interno dell’isola i vari spazi, ben visibili e definiti – il Centro di accoglienza di Contrada Imbriacola, il Museo del mare destinato ai minorenni ma poi occupato anche dagli adulti, l’ex base Loran, la parrocchia e la zona absidale della chiesa dove vengono distribuiti i vestiti, la spiaggia con le capanne costruite dagli stessi migranti e ripulita solamente per l’arrivo del governatore Lombardo ed infine il porto –, sono la cartina al tornasole della situazione dell’intera isola: sono infatti parte, volontariamente o involontariamente, di un meccanismo la cui funzione contenitiva è stata dal Governo imposta a tutti, migranti e non.

Se finora l’equilibrio interno a questo avamposto della detenzione amministrativa ha in qualche modo retto, è grazie allo straordinario spirito di tolleranza ed accoglienza dimostrato dalla popolazione isolana – giunta ormai all’esasperazione, ma ciononostante fermamente refrattaria a qualsiasi discorso xenofobo e razzista che i vari Bossi, Borghezio o Le Pen cercano di instillare ed esportare – e al mix di timore per il proprio futuro e speranza nei confronti dell’Italia che ancora i migranti tunisini vogliono (devono?) nutrire. La macchina organizzativa per lo svuotamento dell’isola ha finora lavorato in maniera assolutamente deficitaria e solo l’aumento vertiginoso dei recuperi in mare verificatosi negli ultimissimi giorni ha reso ineludibile la sua messa a pieno regime, tant’è che il Commissario per l’emergenza lampedusana Caruso si sarebbe finalmente deciso a prendere provvedimenti in tal senso, predisponendo a partire da domani l’utilizzo di cinque navi passeggeri più la nave militare San Marco per il trasferimento di tutti i migranti presenti nell’isola verso i nuovi Centri d’identificazione.

Ciò rende evidente come l’empasse lampedusana sia solo una prima, temporanea fase di una ben più ampia pratica di gestione che i governi europei e in particolare quello italiano prova a sperimentare nei riguardi degli straordinari eventi che stanno sconvolgendo l’area mediterranea; un pratica che nulla a che vedere con un’effettiva accoglienza, ma piuttosto sembra delinearsi sempre più come una grande fabbrica di nuova clandestinità. Lampedusa rappresenta allora una fase all’interno di questo meccanismo, propedeutica al trasferimento di massa nei nuovi luoghi di confinamento e detenzione.

È proprio per questo che, ora che la situazione lampedusana sarebbe destinata a stabilizzarsi, è necessario sforzarsi di guardare avanti e mantenere vigile l’attenzione sulla sorte di questi giovani venuti dalla Tunisia, di tutti, adulti o minori che siano. Il loro destino parla infatti di nuovi Centri d’identificazione, ennesime forme di confinamento create ad hoc “a causa dell’emergenza”. Le tendopoli circondate da filo spinato parlano un linguaggio chiaro (anche a chi delle politiche italiane sull’immigrazione non sa, ancora, niente): non è un caso che da subito si siano verificate numerose fughe, a dimostrazione del carattere dirompente di questo inarrestabile ed eccedente spirito di libertà che soffia dalla Tunisia e dal nord Africa tutto. Quasi nessuno infatti vuole rimanere in Italia e tutti vogliono andarsene di qua, decidendo finalmente il proprio destino.

Nel prossimo futuro dovremmo gettare allora gli occhi anche sulle carceri, per vedere se chi è uscito da Manduria o dagli altri Centri (provvisori o meno) lo ha fatto con un foglio di via scaduto dopo un breve periodo, fino ad essere arrestato per non aver ottemperato all’ordine di allontanamento.

Questo è infatti il classico strumento di produzione della clandestinità, che vede gli ingressi nei CIE gestiti dal Ministero dell’Interno estranei al tipico status previsto dalla legge, quello dell’espulsione. Chi da ora entrerà nei nuovi centri non lo farà perché espulso ma perché smistato da Lampedusa; allo stesso tempo chi uscirà dal CIE avrà lo stesso trattamento di chi, invece, nello stesso vi finisce per via ordinaria, con un foglio di via, una velleitaria intimazione ad andarsene dal territorio che produrrà come effetto solo quello del divenire irregolare.

Questi interrogativi traggono una ragione che interessa l’intero assetto sistematico della questione immigrazione in Italia. In un momento cruciale che vede la normativa comunitaria collidere profondamente con l’impianto procedimentale del testo unico in materia di espulsioni. In un momento in cui la stessa Corte di Cassazione sta valutando sulla diretta applicabilità della direttiva rimpatri, la quale prevede nuove garanzie legate all’allontanamento alla frontiera.

Nuovi dispositivi che introducono come parametri di valutazione del singolo caso anche elementi slegati dal possesso di un titolo di soggiorno, come la durata della permanenza in Italia, il passato lavorativo o il nucleo familiare a prescindere dell’avvenuta stipulazione di un matrimonio riconosciuto. Queste pur piccole aperture hanno negli ultimi mesi destabilizzato l’impianto sostanziale e procedurale della disciplina sull’immigrazione, dando la speranza di un radicale cambiamento rispetto alle classiche incriminazioni connesse alla condizione di irregolarità, cavallo di battaglia della normativa italiana in materia di espulsione.

Ora tutto è oggetto di un grande rimescolamento delle carte: se al vaglio delle Corti preposte giace la sorte di un intero sistema restrittivo frutto della Legge Bossi-Fini in materia di immigrazione, la cui negatività è stata assunta e colpita dal disposto di una direttiva comunitaria (c.d. direttiva rimpatri, n. 2008/115/CE) in tempi non sospetti (entrata in vigore a fine dicembre 2010), in ragione dei nuovi eventi non pare certo impensabile una chiusura a riccio dell’intero sistema interno e comunitario.

La ‘battaglia’ per la conservazione degli stessi dispositivi della Bossi-Fini da parte del Governo garantirebbe, ora, al Ministero dell’Interno un enorme clandestinizzazione, con eventuale conseguente carcerizzazione, delle migliaia di persone giunte nelle recenti migrazioni, travolte e ingabbiate nelle stringenti maglie del foglio di via, della catena delle inosservanze all’ordine di allontanamento del questore e quindi, al lungo andare, del carcere.

La posta in gioco è allora molto alta. Le prime dichiarazioni di intento di chi, Governo in primis, l’immigrazione l’ha da sempre trattenuta, marginalizzata, criminalizzata e sfruttata ci parlano di nuovi dispositivi per promuovere ancora una volta l’esclusione sociale e la ricattabilità generalizzata dei migranti, per negare e stroncare l’aspirazione per la conquista della libertà, dei diritti, della dignità di migliaia di persone, che nei mesi scorsi hanno coraggiosamente rischiato la loro vita per tutto questo, offrendo a tutto il mondo un esempio indimenticabile.

È per questo che va dunque contrapposto ai piani di “clandestinizzazione di massa” una risposta forte e determinata che parli d’accoglienza e di libertà di scelta per il proprio destino e la propria vita. Solo con la concessione di una protezione temporanea si potranno evitare il sorgere di spirali che impogono, ancora una volta, ai migranti condizioni degradanti. Solo la promozione di un soggiorno regolare in Italia e in Europa getterebbe le basi di un percorso sicuro per chi fugge cercando libertà e una vita degna.

Per questo ora più che mai, di ritorno da un isola trasformata in un girone infernale, è importante gridare Welcome! e supportarne la campagna per il diritto di asilo europeo.