...E tu vivrai nel terrore! L'aldiqua

8 / 6 / 2017

La sicurezza è ormai diventata un tema essenziale delle campagne elettorali dei partiti politici europei, in sostanziale continuità con quanto già accaduto nel recente passato.

Secondo l’opinione mediatica, sarebbe entrata a gamba tesa nel dibattito britannico dopo gli ultimi tre mesi, quando a distanza di poco tempo l’uno dall’altro tre attentati terroristici hanno colpito i due polmoni del Regno Unito, Londra e Manchester. Non c’è alcun dubbio sul fatto che, in un certo senso, la sequenzialità dei tre episodi di morte e violenza sia stata così rapida perché il Regno Unito entrava ufficialmente nel clima elettorale. L’attacco a Westminister dove ogni giorno passano milioni di persone, l’esplosione nel bel mezzo di un pubblico perlopiù adolescenziale dopo un concerto di una pop star famosa, le falciate e gli accoltellamenti nei luoghi della socialità londinese sono stati un macabro e disumano mezzo di comunicazione: il fascismo nero jihadista ha voluto ricordare che esiste ancora e che è in grado di influenzare enormemente le opinioni e l’orientamento politico della società. I vari responsabili degli attentati hanno sottolineato con tutta l’atrocità dei loro gesti che nel Regno Unito, in Europa, non si possono dare i momenti di partecipazione alla “vita democratica occidentale” cercando di nascondere sotto al tappeto tutti gli eventi che sono passati. E per eventi passati non dobbiamo intendere solo gli episodi di terrorismo che ormai, incessantemente, riemergono giusto in tempo per risvegliare dall’anestesia (auto)indotta la nostra percezione, abituata a eclissare nel passato ogni attacco come se fosse una cosa irrepetibile. Questo è un meccanismo di autodifesa che serve solo a non interrogarci profondamente sulle cause corrette che producono questo fenomeno. Non possiamo più continuare a fingere che non ci siano connessioni tra quanto accade in Siria e in Medio Oriente e le ripercussioni che tali avvenimenti hanno nel Vecchio Continente.

La centralità della sicurezza nelle elezioni inglesi non è di certo solo una conseguenza di quanto accaduto in questi ultimi mesi. Lo spazio europeo è sempre stato tormentato dalla sicurezza, uno dei pilastri su cui si è fondata l’Unione dalla quale il Regno Unito ha deciso di uscire. Il problema è che si è sempre parlato di un concetto molto astratto di sicurezza, tanto da poter far rientrare sotto il suo ombrello il problema del terrorismo come quello dei migranti esterni o della presenza dei poveri e delle marginalità nello spazio cittadino. Sicuramente, da quando è successo il primo della lunga serie di attentati jihadisti in Europa (il 7 gennaio 2015 nella sede di Charlie Hebdo), il tema della sicurezza ha iniziato a concentrare su di sé ancora più significati e ad essere messo sotto i riflettori mediatici, investendo qualsiasi ambito delle nostre esistenze. Non è un caso se la sicurezza si possa declinare come “stato d’emergenza” in Francia a uso e consumo della repressione di Stato, come Decreto Minniti-Orlando in Italia per normare dispositivi securitari (come il Daspo urbano) o favorire i procedimenti di espulsione per i migranti, criminalizzando di fatto l’atto stesso della migrazione. Nell’opacità general generica della sicurezza molto spesso l’effetto di questo tipo di discorso si limita da una parte a occultare ancora una volta le responsabilità politiche che stanno alla base del fenomeno del jihadismo, dall’altra ad inverare sempre di più la percezione di insicurezza generando una serie di effetti che vanno dalla negazione delle libertà e dei diritti umani fino alle scene da psicosi collettive – che non hanno niente di “patologico”, ma tutto di politico - come quelle accadute a Torino durante la finale della Champions League. Sembrerà assurdo e inverosimile, si dirà, accostare in un unico schema di senso questi avvenimenti. Proviamo però a dare un’occhiata più da vicino a ciò di cui stiamo parlando.

Prendiamo ad esempio il contesto da cui siamo partiti, la campagna elettorale inglese. Dal giorno di Westminister Theresa May è stata criticata per aver tagliato i finanziamenti alla polizia e all’intelligence, un argomento che prima di marzo, per quanto sempre presente, passava in secondo piano rispetto alla vera battaglia politica del Primo Ministro: la negoziazione della Brexit. I deficit dei sistemi di spionaggio e sicurezza del Regno Unito, caduti sotto inchiesta sia per l’attentato di Manchester che per quello del London Bridge, pesano come macigni sulla candidatura di May, soprattutto alla luce delle notizie che confermano la precedente conoscenza da parte delle forze di polizia di quasi tutti i responsabili degli attacchi (con tanto di disputa tra Mi5 e i servizi segreti italiani sulla segnalazione del cittadino italo-marocchino che ha compiuto l’ultimo attentato). Spinta dalle aperte critiche di Corbyn e dalla pressione mediatica, May ha dichiarato nel giro di due giorni che «quando è troppo, è troppo»: bisogna intensificare le leggi che impediscano il movimento, che aumentino le misure cautelari e che traggano in fermo in assenza di un giudice i sospettati di terrorismo – anche se le prove non sono sufficienti. May ha anche sostenuto che «se le leggi sui diritti umani ci impediranno di farlo, cambieremo quelle leggi per riuscire a farlo», alludendo alla negazione di qualsiasi rivendicazione dei diritti della persona (come, per esempio, l’habeas corpus) nel caso di arresti ingiustificati. Con un colpo di mano, il Primo Ministro unisce il suo cavallo di battaglia - la Brexit - con un tentativo di guadagnare terreno sul tema della sicurezza: essendo uscito dall’Unione Europea, il Regno Unito può autonomamente decidere, senza passare per trattati intermedi, di andare in deroga alla Corte Europea dei Diritti Umani. La gravità di quanto detto riguarda sia il piano formale che il piano del contenuto, visto che May sta cercando di cavalcare l’ondata immediatamente successiva all’attentato del London Bridge e, allo stesso tempo, apre alla possibilità di negare i diritti umani. Se mai dovesse succedere, questo precedente non sarebbe soltanto ingiusto nei confronti di coloro che saranno infondatamente trattenuti anche in assenza di prove, ma potrebbe estendere l’eliminazione dei diritti umani in qualsiasi circostanza e nei confronti di tutti, creando così un deterrente a qualsivoglia opposizione politica. Quante persone desisterebbero dal partecipare ai conflitti sociali di un Paese, una volta che vengono dati alla polizia poteri illimitati e che vengono ridotte drasticamente le proprie garanzie?

La promessa di rip up (strappare in pezzi) i diritti umani nasconde sotto al tappeto la grande colpa britannica e occidentale: le alleanze economiche con Paesi come l’Arabia Saudita, così come con il Qatar fino a pochi giorni fa, che con l’obiettivo di destabilizzare l’asse Assad-Iran in Siria hanno da sempre rifornito di armi e equipaggiamento i fascisti dell’ISIS, per non parlare della propaganda ideologica sunnita che fomenta il jihadismo nero. Sebbene May abbia parlato di «conversazioni dure» da fare con chi finanzia armi all’esercito di Al-Baghdadi, il Primo Ministro sembra aver pronunciato tali parole più per motivi propagandistici che con convinzione, infatti non ha mai sostanziato la sua dichiarazione. Invece di puntare allo strappo nei confronti di queste potenze del petrolio, di puntare il dito contro chi, come Erdogan, fino a poco tempo fa faceva passare l’ISIS dalle sue frontiere per attaccare i curdi e le curde del Rojava, ancora una volta le misure proposte ricadono sulle libertà collettive e individuali dei cittadini. Un altro grande rimosso sembra essere, contro qualsivoglia buon senso di sociologia spicciola, il passato coloniale che si è riprodotto all’interno delle frontiere. Il fatto che la maggior parte degli attentatori siano cittadini inglesi e europei dovrebbe forse interrogare il livello di uguaglianza, opportunità, riconoscimento sociale e simbolico per tutta una serie di cittadini. In particolare in un’epoca storica in cui la competizione sfrenata e la centralità del merito personale sono i nuovi baluardi per ottenere diritti, l’atomizzazione delle comunità porta all’estremo lo stato psicologico e sociale di alcuni individui. Per poter davvero parlare di sradicamento della piaga del jihadismo nero, si dovrebbe parlare sì di sicurezza, ma di sicurezza sociale che non lascia indietro nessuno e che riscostruisce legami di cittadinanza senza basarsi sull’astratta quanto falsa “superiorità dei valori occidentali”. Detto questo, non vogliamo assolutamente giustificare gli atti terroristici in quanto espressione del proletario urbano: la scelta di affiliarsi ad un’ideologia fascista e mortifera, che punta alla prevaricazione e alla subordinazione degli “infedeli”, rimane un’assunzione morale e politica personale. Chi segue i dettami del Califfato Nero è un nemico. Ma quali condizioni di possibilità abbiamo creato perché una scelta fosse più possibile di un’altra?

Come al solito, il discorso politico si piega alle esigenza della contingenza, al momento singolare, alle paure e alle percezioni scaturite subito a seguito dell’evento. Un’altra maniera per parlare della sicurezza solo in termini militari, un altro modo per dire che il nemico “esterno” è in mezzo a noi e che questa è l’unica soluzione che abbiamo a disposizione. Ovvero, un modo per mettere da parte le proprie responsabilità e non approfondire gli argomenti seguendo la scia sensazionalistica solcata dai giornali, immediatamente pronti a lasciare la notizia dell’ultimo attacco nelle colonne più invisibili delle loro homepage dopo pochi giorni. Ripetiamo, la questione non può essere quella di rivedere l’uso dei dispositivi militari per evitare che accadano gli attentati; piuttosto, non si possono sottacere una serie di ipocrisie. Ci siamo già dimenticati degli uomini, delle donne e dei bambini che sono morti nel corso dei sei anni di conflitto - e che continuano a perire - sotto i bombardamenti di Assad in Siria con tutto l’Occidente che si tappa gli occhi? Ci siamo dimenticati che abbiamo consegnato intere famiglie ad un dittatore turco? E i recenti bombardamenti di Trump? E il fatto che la Casa Bianca abbia ammesso di aver ucciso 300 civili innocenti durante un’operazione militare? Non ha fatto versare neanche la più umanitaria lacrima dagli occhi di una star di Hollywood. Se all’interno di questo contesto aggiungiamo la sconfitta che lo Stato Islamico sta subendo ad opera dei battaglioni YPG e YPJ  e delle Forze Democratiche Siriane (come dimostra l’ultima fase dell’operazione Wrath of Euphrates, che vede come meta finale la liberazione di Raqqa, che sta avvenendo in questi giorni), nonché il suo progressivo isolamento, capiamo che i jihadisti organizzati o i cosiddetti “lupi solitari” hanno trovato delle leve assai forti per colpire in quest’arco temporale. Di nuovo, parlare di limitazione delle libertà e di impiego degli uomini nelle strade è una panacea – malandata e che ha grandissimi costi – per i sintomi, non per la causa.

Come si collega la particolarità del contesto britannico con quanto accaduto a Torino sabato sera? Se astraiamo degli elementi prettamente nazionali, capiamo che in Europa si sta creando una ragione securitaria che la governance sta adottando in lungo e in largo. Le omissioni e la parzialità delle dichiarazioni di May in Gran Bretagna, la proposta di adottare delle misure incompatibili con i diritti umani, non risponde solo ad un’esigenza di sicurezza, ma creano esse stesse il bisogno di sicurezza. Più i cittadini vedono intensificarsi le forze armate, più vedono che le leggi restringono i loro spazi di libertà, più vedono comprimere l’argomento politico sul terrorismo a questioni di repressione e prevenzione, più se ne parla come di un qualcosa di inevitabile e con cui non si può fare i conti, più percepiranno un alto livello di insicurezza. E la diffusione onnipervasiva di questo tipo di discorso non farà altro che provocare stati d’animo fondati sul terrore. In un Continente in cui, in Italia più che in altri Paesi, il fenomeno del terrorismo viene discusso in relazione all’immigrazione e in cui la crisi ha generato una guerra tra poveri, il clima sociale che si respira è quello della diffidenza reciproca, della rivalità, di una guerra silenziosa perché sempre potenziale. Basta una scintilla, anche accesa da una persona con un senso dell’umorismo distorto, e la paura si concretizza nonostante non ci sia niente di concreto dietro. L’aspetto sconcertante della folla di Torino non è stato solo la reazione all’ambiente politico creato ad hoc dal discorso sulla sicurezza, ma la travolgente assenza di solidarietà – salvo alcuni casi - tra gli individui presenti in piazza, con i calpestamenti reciproci, gli spintoni, corpi di bambini inermi a terra. È questo ciò di cui vogliamo essere protagonisti? Quanto saremo disposti non solo a rinunciare alle nostre libertà, ma anche alla relazione mutualistica, di solidarietà tra persone in nome della sicurezza? Un’analisi attenta del terrore percepito a Torino in piazza San Carlo non derubricherebbe a psicosi collettiva quanto accaduto: si preoccuperebbe di rilevarne i dati allarmanti perché registra un chiaro esempio di un’antropologia europea che ci stanno, e ci stiamo, cucendo addosso.

Oggi i cittadini del Regno Unito stanno andando al voto. Il dibatto, come abbiamo cercato di rendere, è profondamente segnato e veicolato tanto da impedire una riflessione a lungo termine in cerca dei nodi principali attorno i quali può essere trovata una soluzione determinata contro la riproduzione del jihadismo e per l’estensione dei diritti di cittadinanza. Il Labour Party riformato di Jeremy Corbyn, nonostante le strappature interne al partito, è l’unica forza politica che finora ha provato ad articolare un ragionamento fondato sulla sicurezza nei termini di multiculturalità, di convivenza tra diversità sulla base di diritti accessibili a tutti in aperta opposizione agli strascichi coloniali che il Regno Uniti si porta appresso da secoli. La linea di Corbyn è stata dura rispetto al modello di “lotta al terrorismo” interamente basato nei termini della “sicurezza nazionale”. Il candidato laburista ha spesso ammesso le colpe del Regno Unito, e non solo, rispetto al tema dell’interventismo militare e dei finanziamenti al fondamentalismo islamico, ma il suo pensiero non è del tutto condiviso all’interno delle sue stesse fila e non colpisce dritto al punto i complessi legami economici tra Europa e Medio-Oriente. Fin quando non verranno messe seriamente in questione le guerre, i traffici commerciali di armi, le barriere coloniali e di discriminazione che abbiamo nelle nostre città, non riusciremo mai a far fronte alla crisi (in tutte le sue accezioni) che sta inevitabilmente segnando l’Europa. Il Regno Unito ha già scelto una via nazionalista come risposta a tutto questo. Anche alla luce degli ultimi eventi, non possiamo che continuare a pensare che la soluzione dei problemi debba essere trovata in un nuovo senso da dare alla parola Europa.