Europe on fire

23 / 3 / 2016

Già dai primi minuti che seguivano gli attentati avvenuti ieri mattina a Bruxelles su twitter è iniziato a circolare l’hashtag #brusselsonfire, attraverso il quale i sostenitori di Daesh celebravano l’attacco al cuore della capitale belga. Si è ripetuto il copione del 13 novembre a Parigi, quando #parisonfire dava il saluto virtuale alla strage del Bataclan.

E’ fin troppo semplice trovare le analogie, i nessi di continuità tra i due eventi che maggiormente hanno segnato la storia europea degli ultimi decenni. Se a Parigi sono stati attaccati gli spazi della vita in comune e della socialità a Bruxelles vengono colpiti i luoghi di transito della mobilità urbana ed internazionale. Il terrore fondamentalista si scaglia con violenza contro i corpi che vivono ed attraversano lo spazio delle relazioni urbane. Questo è il dato crudo ed ineluttabile, che storicamente costituisce la base di qualsiasi forma organizzata di violenza che agisce in senso conservatore o reazionario.

C’è inoltre un altro aspetto che vale la pena analizzare in questa cartografia del terrore che si sta delineando in questo momento nel “vecchio continente”. Partendo dalla sede di un giornale satirico, e passando per il cuore della vita sociale parigina, si è giunti questa mattina alla stazione metro di Maalbeek, a pochi metri dal cuore politico dell’Unione Europea. Nel decretare di fatto l’indifendibilità dei suoi istituti maggiormente rappresentativi, Daesh sancisce anche il punto di non ritorno della crisi complessiva dell’Unione Europea. La coltre di fumo che si alza da Maalbeek attanaglia anche i palazzi della Commissione europea, del Consiglio e del Parlamento, proprio nel momento in cui i pilastri che hanno guidato il processo d’integrazione formale e materiale europea, Shengen e Maastricht sono in una fase di pieno superamento. E’ significativo, il fatto che Bruxelles venga colpita a distanza di due giorni dalla stipula dell’accordo tra Unione Europea e Turchia sul rimpatrio dei migranti, in cui la capitale belga è stata teatro di uno dei più grandi scempi politici ed umanitari della storia contemporanea.

Se Daesh è riuscito a colpire l’Europa nel cuore e nel ventre delle sue debolezze politiche ed organizzative, lo deve anche al completo fallimento della sua “intelligence”, come scrive Alberto Negri in un’editoriale apparso su Il Sole 24 ore a poche ore dagli attentati. «L'Europa deve rendersi conto» scrive il giornalista milanese «che il terrorismo vive tra noi, che vittime e carnefici stanno gli uni accanto agli altri, che non si tratta di episodi isolati, che hanno radici profonde tra le guerre mediorientali e nei conflitti che percorrono lo stesso continente». Le enormi e massicce misure di sicurezza adottate nella capitale belga dopo gli attentati parigini non sono servite a nulla. In una Bruxelles considerata il centro nevralgico del terrorismo fondamentalista europeo e ripiombata in uno scenario che riportava in auge immagini e sensazioni della seconda guerra mondiale, i terroristi hanno avuto tutto il tempo e la tranquillità di organizzare con minuzia gli attentati all’aeroporto ed alla metropolitana e di attuarli nel momento politicamente più propizio ed opportuno. Anche se è ancora tutto da dimostrare, la relazione tra gli attacchi di oggi ed il blitz del 18 marzo che ha portato all’arresto di Salah Abdeslam, mente degli attentati di Parigi e presunto “pentito”, appare tutt’altro che casuale.

Il fallimento dell’intelligence, ed in generale di tutte le misure di sicurezza, induce a considerazioni. In primo luogo Daesh conferma la sua forza politico-militare, in grado di agire su scala globale (ricordiamo, nel solo mese di marzo, gli attentati avvenuti ai resort di Grand Bassam, in Costa d’Avorio, e l’attacco avvenuto a Ben Guerdane, in Tunisia, al confine con la Libia), ma soprattutto di organizzarsi e radicarsi a livello territoriale, dimostrando una grande capacità di arruolamento nei margini urbani delle città europee. Spazi di confine e di sofferenza sociale, che negli ultimi anni hanno visto intrecciarsi i limiti storici dei processi di integrazione culturale con le difficoltà materiali che hanno investito le seconde e terze generazioni di migranti negli anni della crisi. In secondo luogo si palesa il fatto che l’istituzione dello “stato d’emergenza”, avvenuta in Francia dopo il 13 novembre ed allargatasi a tutto lo spazio europeo, non fosse funzionale al contrasto del terrorismo fondamentalista, ma agisse nella direzione di un attacco, normato e formalizzato, alle libertà ed ai diritti individuali e collettivi. In altri termini lo “stato d’emergenza” rappresenta la condizione comune europea all’interno della quale viene esautorato completamente il ruolo storico e giuridico dello Stato di diritto.

I nuovi assetti di potere che stanno definendo in questa fase il transito verso la post-democrazia, di cui lo “stato d’emergenza” è espressione politica ed istituzionale (come dimostra la modifica della Costituzione che sta avvenendo in Francia), sono gli stessi che governano la nuova crisi finanziaria, in cui stagnazione ed immissione di liquidità creano le condizioni per cicliche bolle speculative, e la cosiddetta crisi dei confini, in cui l’Europa fortezza assume caratteristiche inedite nella gestione dei flussi migratori.

Crisi economica, crisi politica, crisi sociale e umanitaria, uniti ad una nuova centralità assunta dal Mediterraneo sul piano geo-politico e degli interessi strategici, rappresentano gli elementi nei quali s’innesta la guerra globale nella sua declinazione contemporanea. La guerra contiene il terrorismo e non viceversa. Guerra e terrore si nutrono vicendevolmente, hanno lo stesso codice necropolitico che agisce con violenza estrema contro qualsiasi forma  di trasformazione, o di spinta in avanti, dell’esistente.

Per fermare le violenze del terrorismo, dal Belgio alla Costa d’Avorio, dal Francia al Kurdistan, per fermare i massacri di civili che avvengono quotidianamente in tante zone interessate da conflitti bellici, bisogna arruolarsi contro la guerra globale del capitale. Lungi da ogni velleità retorica, si tratta, qui ed ora, di definire nessi strategici e pratici di contrasto a chi, utilizzando la dimensione multiforme della guerra, rafforza la propria capacità estrattiva sfruttando le risorse ed espoliando territori, redistribuisce ricchezza verso l’alto finanziarizzando l’economia e si riproduce, sul piano biopolitico, fomentando la guerra tra sfruttati.