Flop21, i termini di un fallimento

15 / 12 / 2015



“History will remember this day,” ha annunciato Ban Ki-Moon. “The Paris agreement on climate change is a monumental success for the planet and its people.”

Così il segretario generale delle Nazioni Unite ha celebrato l’accordo firmato a Parigi, nel quadro della COP21. 
E va riconosciuto che, storicamente, il dato monumentale si dà nella stesura di un accordo universale sul clima, oggetto di consenso da parte di un numero di paesi mai così elevato. Altrettanto monumentale però, il fallimento, considerato che oltre ad essere un accordo non vincolante, si presenta nella materia assolutamente insufficiente. 
Sin dall’evoluzione delle bozze susseguitesi durante la Conferenza, è apparso con evidenza che a guidare le trattative sia stata una semplice logica dell’accordo, alla ricerca di un piano che fosse condiviso, più che risolutivo. Ne sono infatti evidenti i vuoti normativi, la riduzione progressiva delle clausole e l’esclusione di termini definitivi.


Un documento che riconosce emergenze globali, ma che manca nel tracciarne vie d’uscita.


Entriamo velocemente nel merito. L’obiettivo principale delle Parti è quello definito nell’articolo 2 dell’accordo. Esso si propone di contenere l’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto dei 2°C, mirando alla temperatura di 1,5°C in relazione al livello medio preindustriale. Goal in linea con i dati pubblicati dall’IPCC e con le ultime ricerche scientifiche quali quella del GIEC. Ebbene, le misure proposte risultano insufficienti e deboli, alla luce dei rapporti nazionali singoli (INDC), e delle misure ad essi legate. 
Tale dato era in larga parte atteso, a partire dalla svolta di metodo che la COP15, tenutasi a Copenhagen nel 2009, ha impresso alle trattative. Ricostruiamo in breve la genesi di tale cambiamento, per poi ritornare agli INDC, fulcro attorno al quale ruotano i termini dell’accordo.



Da Kyoto a Parigi


Fino a Copenhagen, a regolare le negoziazioni era stato un sistema multilaterale che aveva portato alla stesura del protocollo di Kyoto nel 1997. Con esso 55 paesi industrializzati, rappresentanti il 55% delle emissioni globali di CO2, si impegnavano a ridurre del 5% le emissioni di gas serra tra il 2008 e il 2012. Previsto tra gli altri meccanismi deterrenti, un sistema di sanzioni e un secondo piano di riduzioni che non troverà applicazione nella grande maggioranza dei casi nazionali. Mancarono tuttavia la ratifica degli Stati Uniti e l’impegno alla riduzione di CO2 di Cina e India. E uno dei risultati di tale accordo fu una diffusa delocalizzazione del settore della produzione industriale nei paesi emergenti.


Fu la necessità di estendere la lotta al cambiamento climatico ai suddetti paesi “disimpegnati”, e a quelli in via di sviluppo, che portò nel 1992 al Summit della Terra, orchestrato dalle Nazioni Unite, che adottò la Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (CCNUCC). Con essa fu creata la Conferenza delle Parti. 


Il sistema delle negoziazioni-che avrebbe dovuto riproporre un protocollo di Kyoto globale- fallì definitivamente a Copenhagen, nel 2009. Scopo della COP: un accordo mondiale. Risultato ottenuto: una“presa di nota” condivisa. 


Il grande numero dei partecipanti, ma soprattutto l’evidente indisponibilità, da parte degli storici paesi protagonisti del riscaldamento globale, a internalizzare nei propri sistemi produttivi la lotta al cambiamento climatico, portò, con Copenaghen, all’introduzione del sistema degli INDC. Esso fu adottato nel 2013 a Varsavia in occasione di COP19 ed è il cuore dell’accordo appena siglato. Torniamo dunque a questo dispositivo organizzativo per entrare nel merito dell’accordo.



INDC e Climate Finance


Gli INDC (Intended Nationally Determined Contributions) sono contributi che le singole Parti sono chiamate a stilare e che devono descrivere quali obiettivi le stesse sono pronte a darsi e quali azioni intendono intraprendere per lottare contro il cambiamento climatico in funzione delle loro specificità nazionali. Una misura di autodifferenziazione che mira a fondare l’accordo su interventi ad hoc che ciascun paese si propone di adottare, ma che non esplicita esigenze di contenuto particolari.Tali rapporti sono stati consegnati nel mese di ottobre in vista della Conferenza di Parigi.


Secondo le analisi dello Stockholm Resilience Center, del Potsdam Institute, di CICERO e di diversi istituti di ricerca sul clima, l’insieme delle misure proposte negli INDC produrrà una variazione di temperatura che si aggirerà nel 2050 tra i 2,7°C e i 3,7°C; vale a dire ben al di sopra dell’ambiziosa soglia critica di 1,5°C. 


Inoltre, il sistema di revisione previsto consiste in un aggiornamento degli INDC quinquennale e l’accordo entrerà in vigore nel 2020. Tali dati escludono la possibilità di raggiungere l’obiettivo che, come rilevato dai suddetti istituti, richiede un immediato programma di taglio delle emissioni di gas serra tra il 70% e il 95% entro il 2050. D’altronde nel paragrafo 17 dell’accordo relativo agli INDC, sono le stesse Parti a rilevare con “preoccupazione” l’evidente insufficienza delle misure proposte.

Ciononostante, è addirittura assente un termine definitivo per la neutralità delle emissioni di gas serra.


Sulla base di tale dispositivo si prova a sviluppare la cosiddetta differentiation che attribuirebbe maggiori oneri di intervento ai paesi storicamente responsabili del riscaldamento climatico. Tuttavia non è specificato in che termini ciò debba avvenire.
 A consentire un miglioramento qualitativo degli INDC sottoposti a revisione, come affermato nell’articolo 9, dovrebbe intervenire una politica di climate finance, fondata sull’accordo del 100 billion goal formalizzato a Cancun nel 2010. Esso dovrebbe essere il passo centrale verso la riduzione delle emissioni di gas serra a Sud del globo.


In breve, i paesi industrializzati si farebbero carico di trasferimenti finanziari di 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2020 indirizzati ai paesi in via di sviluppo. Secondo l’accordo tali fondi sarebbero destinati alla mitigation e all’adaptation. Esso interverrà cioè nella riduzione delle emissioni e nello sviluppo di capacità di resilienza.

La criticità in merito a tale misura è la sua inadeguatezza rispetto alle previsioni nel breve periodo. L’assenza di informazioni quantitative e qualitative rispetto all’emissione dei flussi finanziari lascia intravedere una inevitabile lentezza e un ritardo che poco implementeranno i programmi di intervento dei suddetti paesi. 
Riconfermato in ultimo il Meccanismo Internazionale di Varsavia per le perdite e i danni, con apertura a possibili concertazioni con esperti esterni all’accordo. Scompare dagli oggetti di cooperazione tra i paesi, la menzione dei casi di rifugiati climatici.
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I grandi assenti


Oltre alle insufficienze rilevate, sono i grandi assenti dell’accordo che certificano la scelta politica di conservazione di un modo di produzione biocida e irriformabile. 
La decarbonisation, presente nei progetti di bozza, è definitivamente scomparsa nell’accordo finale. Il “bilancio energetico” annunciato, non costituisce alcun vincolo per le multinazionali che continueranno a utilizzare combustibili fossili destreggiandosi tra le larghe maglie di questo accordo. Il processo di accumulazione dei rischi climatici procede incontrastato nelle sue forme più pericolose.


Nessun riferimento, infine, alla regolamentazione di aerei e navi, un punto che vede i governi vincolati ai trattati commerciali -TTP e TTIP- siglati dagli stessi. Dato che propone in chiara luce, rispetto agli scambi internazionali, la contraddizione che impedisce ai governi di costituirsi come agenti di una transizione ecologica e sostenibile del sistema economico. Insomma non sarà certo questo accordo a fronteggiare il cambiamento climatico. E i migliaia di manifestanti che hanno invaso Champ-de-Mars domenica, non hanno dovuto attendere l’esito della conferenza per saperlo. Un accordo già scritto che poco cambierà la morfologia dell’economia reale. 
Si insiste, tuttavia, nelle ultime ore, sulla nullità dell’accordo, se non se ne celebra la sacralità. E si dimentica che, sul piano politico, tale accordo riconosce a tutte le esperienze di lotta, in difesa del territorio e delle vite che lo abitano, una forma di legittimità.

E’ in nome degli stessi obiettivi siglati e delle stesse emergenze rilevate, che i comitati territoriali e ambientali, i movimenti sociali e tutte le coalizioni in lotta hanno combattuto e combatteranno. E sarà sul terreno dei conflitti locali che si rifletterà questo dato, vale a dire l’universalità delle istanze difese. Lì dove le esperienze di resistenza hanno prodotto pratiche e saperi alternativi. Lì dove è già stato scritto un accordo globale.