Gradisca d’Isonzo - Visita al CIE: tra gabbie, sbarre e tanta incertezza

Riapertura prevista per l’inizio del 2015. Gli enti locali non ci stanno. Il Ministero non si pronuncia ma intanto proseguono i lavori

16 / 7 / 2014

Gradisca d’Isonzo, 14 luglio 2014. Varchiamo i cancelli d’ingresso e ci dirigiamo verso la guardiola per i controlli di rito. Con noi ci sono diversi rappresentanti degli enti locali ed una troupe della RAI.
E’ il giorno della visita al CIE. Il centro è chiuso dal novembre 2013, reso inagibile dalle rivolte, ma nelle ultime settimane è trapelata la voce dell’inizio dei lavori di ristrutturazione, suffragata da un reportage di un giornale locale entrato nel la struttura pochi giorni fa. La ristrutturazione è iniziata a giugno e l’area dovrebbe essere pronta a settembre. Si parla di una possibile riapertura già all’inizio del 2015. La notizia ha fatto infervorare più di un amministratore locale. Così, alla visita organizzata dalla Campagna LasciateCIEntrare ci sono tutti: i consiglieri Silvana Cremaschi e Giulio Lauri per la Regione FVG, la vice-presidente della Provincia di Gorizia Mara Cernic, il Sindaco di Sagrado Elisabetta Pian, l’Assessore all’immigrazione del Comune di Gradisca d’Isonzo Francesca Colombi, oltre a Melting Pot e Tenda per la Pace e i Diritti.
Fuori dal centro invece c’è un presidio tutt’altro che casuale messo in scena dagli operatori della Connecting People che protestano per il mancato pagamento degli stipendi, vittime a modo loro del sistema CIE. Si tratta per lo più di personale sanitario. La loro vita è legata a doppio filo all’appalto dell’ente gestore. il loro lavoro serve a dare al CIE una facciata “umanitaria”. Così c’è poco spazio per discutere. Sono parte integrante del sistema di detenzione ed il ricatto occupazionale funziona come leva per cancellare ogni titubanza etica.

Muoviamo i primi passi lungo il perimetro interno, costeggiando le spesse mura che in questi nove anni hanno separato a lungo la libertà dall’inferno. Oggi però dietro alle gabbie che vediamo all’orizzonte, fortunatamente, non incontreremo nessuno. Ma c’è poco da stare sereni, il rischio che a breve qualche “ospite” possa tornare a vivere in quello spazio così umiliante e totalizzante, è altissimo.

Ad accompagnarci nella “visita” ci sono i responsabili della ditta che si è assicurata l’appalto per i lavori, un affare da 800 mila euro solo per la prima tranche dell’opera. Con loro c’è la vice-prefetto vicario di Gorizia, Sandra Allegretto. Per lei il CIE è stato già fonte di non pochi problemi. L’inchiesta sulle "fatture gonfiate" dall’ente gestore le è costata già un rinvio a giudizio. Si dovrà difendere dall’accusa di falso. Cerca di avere un tono cordiale ma è evidentemente in imbarazzo quando si trova ad incassare con difficoltà le domande della delegazione. Tutto ruota intorno ad una audizione dello scorso 28 maggio che il Ministro dell’Interno Alfano ha tenuto al Comitato per l’applicazione degli Accordi di Schengen. Interrogato dall’On. Brandolin sul CIE di Gradisca, il responsabile del Viminale, aveva dichiarato che “la riapertura del centro e l’ipotesi di una sua possibile destinazione all’accoglienza dei richiedenti asilo erano oggetto di un’attenta riflessione da parte del Ministero dell’interno, che non mancherà di confrontarsi con gli organi di governo locale”. Per molti quelle parole erano suonate come la definitiva resa del Viminale alle contrarietà espresse dal territorio. Ma la sensazione è che ancora una volta, come in tutta la storia dell’ex caserma Polonio, una coltre di fumo avvolga la verità.

Certo, la vicinanza della Presidente della Regione FVG, Debora Serracchiani, al Premier Renzi potrebbe far pensare che la decisione (sempre che non sia già stata presa) non sia poi così semplice. Dieci anni di CIE, con il carico di brutalità che ha consegnato ad una intera Regione, pesano come un macigno sugli equilibri politici di un territorio deciso a non demordere. Ed è forse per questo che l’aria che tira a Gradisca mette subito tutti in guardia. La struttura sembra tutt’altro che in dismissione. E l’unica cosa certa è che il centro di via Udine era e rimane un groviglio di gabbie e filo spinato. Le parole impacciate pronunciate dalla vice-prefetto Allegretto lo confermano “...qui si sta ripristinando la funzionalità di ciò che c’era.... quindi un CIE ...”.

Le amministrazioni non lo vogliono e tra le nostre "guide" c’è il timore di esporsi troppo. Così si inizia a discutere di capitolati di spesa e di appalti, di “possibili, eventuali, auspicabili, proponibili, paventati” ulteriori lavori per convertire l’area alla funzione di CARA. Intorno a noi vediamo gabbie e reti di contenimento ovunque ma, ci dicono, potremmo sempre toglierle o tenere i cancelli aperti se il centro venisse convertito il CARA. Niente di meglio per chi fugge da guerre e torture che essere ospitatati tra sbarre e cancellate. In ogni caso anche l’ipotesi di un allargamento del centro per richiedenti asilo e rifugiati piace poco alle amministrazioni locali. I CARA hanno dimostrato nel corso degli anni la loro inadeguatezza. Pur non essendo strutture chiuse svolgono comunque una funzione di contenimento e non è un caso che nel bilancio dello stato si trovino sotto la stessa voce del capitolato di spesa dei CIE. Nulla a che vedere con l’accoglienza diffusa e decentrata che auspicano gli enti locali per chi fugge dalla guerra ed ha bisogno di inserirsi nel territorio.

I cantieri intanto vanno avanti e qualcuno, come sottolinea il consigliere regionale Lauri, dovrebbe spiegare a cosa servono gli 800 mila euro di soldi pubblici stanziati per ricostruire il CIE se la decisione, veramente, ancora non è stata presa.
Così nella discussione irrompono i responsabili della ditta che sta realizzando i lavori di ristrutturazione. “Gli interventi si concentrano sul ripristino degli spazi e non sui dispositivi di contenimento e sicurezza – ci dicono. Ma appena giriamo l’angolo vediamo quattro operai intenti a ricucire le reti di copertura delle “gabbie”. Da quel momento sembrano proprio i responsabili della Easy Light a condurre la visita. Si tratta formalmente di un cantiere e la cosa potrebbe quasi passare inosservata. Ma la storia di quelle mura, le sue morti, le sue violenze, stonano non poco con il linguaggio tecnico di chi discute di impianti di aerazione e dispositivi anti-incendio.
Il perché di tanta “ingerenza” è probabilmente spiegato dalla lunga esperienza e familiarità con il luogo che vanta la ditta nel suo curriculum. La ristrutturazione, che procede divisa in più lotti, dura ormai dal 2011 (anno in cui le rivolte resero inagibili le zone blu e verde lasciando disponibili solo 74 posti su 248) e assomiglia ad uno di quegli appalti destinati a non finire mai visto che, una eventuale riapertura, significherebbe anche la ripresa delle proteste interne che difficilmente le gabbie, le reti, gli impianti di aerazione e gli psicofarmaci, riusciranno a sedare. Un businness fatto di danneggiamenti e ristrutturazioni: anche per questo il CIE deve riaprire.

Il momento più macabro e grottesco della visita ce lo offrono proprio i responsabili dell’impresa. Cnsegnano un volantino che pubblicizza l’innovativo sistema della Easy Light chiamato "Unità Mobile". Ma non si tratta di un nucleo operativo delle forze dell’ordine: E’ una macchina pulente che, si legge, "tratta con successo superfici gravemente danneggiate da incendio, senza aggredire i materiali architettonici che lo compongono, ridando loro nuova vita". L’intero dépliant è fatto utilizzando le immagini delle stanze del CIE annerite dal fuoco. Poco importa che in quelle stanze i migranti abbiano sofferto, che la disperazione li abbia portati ad infliggersi ferite, che contro di loro siano stati sparati lacrimogeni e operati pestaggi, che qualcuno abbia perso la vita come è successo ad Abdel Majid El Kodra.

L’immagine della stanza tirata a nuovo, con i suoi letti ben bullonati a terra, esalta le capacità dell’Unità Mobile "approvata da numerose Sovrintendenze alle Belle Arti".
Un vanto per il CIE di Gradisca d’Isonzo: patrimonio dell’umanità persa.
Così basta una passata con l’ Unità Mobile e tutto torna come prima, cancellando sentenze, decine di rapporti sulle condizioni disumane del CIE, migliaia di storie individuali di chi lì dentro ha vissuto l’ inferno. Ma è sul secondo punto, quello in cui viene precisato che la struttura architettonica non sarà in alcun modo aggredita, che vale la pena concentrarsi. L’operazione di marketing della Easy Light richiama infatti un ben più importante documento redatto lo scorso anno, il 14 agosto 2013. Si tratta della relazione del responsabile Igiene e Sanità pubblica dell’Azienda Sanitaria Locale in cui viene rilevato come vi sia "dal punto di vista strutturale, una grave carenza dei requisiti relativi al ricambio dell’aria" e unitamente ad altre criticità rilevate ritiene "che il Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca d’Isonzo non possieda al momento i requisiti strutturali e funzionali per accogliere gli ospiti" . Il CIE di Gradisca insomma è strutturalmente inidoneo al suo utilizzo, cioè quello di “contenere” delle persone. Una contraddizione di non poco conto ascoltando con quanta enfasi la funzionaria della Prefettura sottolinea come i lavori mirino a ripristinare la struttura proprio così com’era prima delle rivolte dell’estate 2013.

Ci addentriamo nell’area verde, quella bruciata nel 2011. I lavori qui sono quasi completamente ultimati. Soffermarci sui bagni fatiscenti o sulle tinteggiature alle pareti, servirebbe solo ad introdurci nel viale della rassegnazione per cui sembra possibile pensare solo a migliorare le condizioni di detenzione e non invece a cancellarne i presupposti. Poi ci dirigiamo verso l’area blu, dove i lavori sono ancora in corso, attraversando quello che dal 2006, anno di apertura del centro, doveva essere il campo da calcio ma è rimasto da sempre un perimetro recintato da reti e muri. Una delle tante prese in giro nella gestione del CIE. Sulle recinzioni sono appoggiate le porte delle stanze ancora annerite dai fumi degli incendi. Le mense invece, così come le aree comuni, sono ancora inagibili. Sono chiuse dal 2011 e negli ultimi due anni i migranti sono stati costretti a consumare i loro pasti nelle celle e a trascorrere i pochi momenti d’ aria nel cortile avvolto dalle sbarre proprio fuori dalle stanze. Chiunque sarebbe impazzito in quei pochi metri quadri.

Le autorità locali continuano intanto a rivolgere domande alla rappresentante della Prefettura che, via via, diventa sempre più restia a rispondere. Per lei è ora di andare. Così prega i partecipanti di far pervenire un documento con le rimostranze che verrà certamente inviato al Ministro. Il 22 luglio invece sarà il momento di Linda Tomasinsig, Sindaco di Gradisca. Toccherà a lei presentare al Comitato per l’applicazione degli Accordi di Schengen la posizione dei Comuni del territorio isontino che stanno deliberando numerosi in questi giorni la loro contrarietà alla riapertura del CIE.
La delegazione intanto conclude il suo giro sul retro del CIE, dietro agli stabili della cosiddetta area rossa. Lì, dove Majid si è lanciato dal tetto cercando di saltare fuori dalla recinzione ed invece ha trovato la morte dopo otto mesi di coma, lo scorso 30 aprile. Per far luce su quanto accaduto in quella notte del 12 agosto 2013 è stato presentato un esposto da moltissime associazioni e rappresentanti istituzionali.
Noi invece, dopo quasi un’ora e mezza di gabbie e reti, da quel recinto possiamo uscire per digerire a fatica novanta minuti di ipocrisie e frustrazioni e tanta voglia di impugnare gli attrezzi e smontare bullone dopo bullone, mattone dopo mattone, ogni centimetro di questo monumento alle brutalità del ventunesimo secolo. Ma per questo c’è ancora tempo.

Visita al CIE di gradisca

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