I motori (spenti) del capitalismo italiano

di Maurilio Pirone*

4 / 4 / 2015

Non sono passati che pochi giorni da quanto Renzi e Poletti annunciavano trionfanti la creazione di 79 mila nuovi contratti a tempo indeterminato. A detta loro, questi non erano che i primi effetti delle politiche messe in campo dal governo. Prima fra tutte la Legge di Stabilità 2015 che garantisce alle imprese una decontribuzione Inps per i primi 3 anni sui nuovi contratti a tempo indeterminato. A questa andrebbe poi aggiunto il JobsAct con i nuovi contratti a tutele crescenti. "Fino ad adesso abbiamo volato con un motore, da marzo avremo due motori e vedremo quello che sta succedendo” ha dichiarato Poletti. Renzi ha rincarato la dose: "è il segnale che l'Italia riparte". Addirittura il ministro del lavoro si è sbilanciato, paventando il miraggio di un milione di posti di lavoro: “un numerone, ma ci sono sintomi”.

A spegnere gli entusiasmi ci ha pensato però l'Istat che ha rilevato un nuovo innalzamento del tasso di disoccupazione a febbraio dopo i segnali di contrazione di dicembre. Come è possibile? Non stavamo ripartendo alla grande? Non sarà che la benzina nei motori è già finita?

Non ci sono ancora molti dati a disposizione ma alcuni fattori ci suggeriscono delle considerazioni. Prima fra tutte che la contrazione del tasso di disoccupazione a dicembre sia dovuta più a fattori “fisiologici” (il lavoro stagionale nel periodo di Natale) che all'effettiva creazione di nuovi posti di lavoro.

Inoltre altraeconomia.it fornisce qualche numero in più da prendere in considerazione (http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5080). Rispetto all'attivazione di 79 mila nuovi contratti a tempo indeterminato, si segnala un forte aumento (+8,9% nei primi due mesi) delle cessazioni di rapporti di lavoro, ovvero 75.535 unità in più rispetto allo scorso anno (924.340 in totale nei primi due mesi 2015). Cosa possiamo ipotizzare? Che in realtà non si è verificata la creazione di nuovi posti di lavoro ma una semplice sostituzione fra vecchi e nuovi contratti. Per quale motivo? Perché alle aziende convengono in quanto possono arrivare a risparmiare fino a 8000 euro nell'arco di 3 anni. Inoltre, grazie al JobsAct che è entrato in vigore da marzo, i nuovi contratti a tutele crescenti (nome a dir poco fantasioso in quanto non esistono tutele che si acquisiscono col tempo) permettono anche la possibilità di licenziare senza il rischio del reintegro in caso di illegittimità. Lasciare un lavoratore a casa nei primi 3 anni sarà praticamente a costo zero per le imprese, azzerando di fatto la possibilità di tutela sindacale. Altro che stabilizzazione dei precari! Meno diritti, più sgravi fiscali: per quale motivo non cambiare i contratti?

A questo quadro vanno aggiunti i recenti dati sul costo orario del lavoro in Europa. Sorprendentemente l'Italia (28,3) risulta molto vicina alla media europea (24,4) che spazia dai 3,8 euro l'ora della Bulgaria ai 40,3 della Danimarca. Inoltre la percentuale di aumento dei costi nel nostro paese (0,7%) è molto più bassa della media europea (1,4%). Da notare che, al contrario di quanto si possa pensare, il costo del lavoro è più basso in quei paesi che costituiscono la periferia del capitalismo continentale mentre è molto alto in quelle che sono le eccellenze: Germania 31,4 euro per ora; Francia 34,6; Svezia 37,4; Norvegia 54. Ma non erano i salari a pesare sulla mancata crescita dell'economia italiana?

Davanti a noi quindi si presenta un quadro tutt'altro che sfavorevole per i grandi imprenditori nel nostro paese, eppure ogni giorno siamo sommersi da notizie, proclami, storie su quanto sia difficile fare impresa (e quindi sulla necessità di rosicchiare ancora un po' salari e diritti). Allo stesso tempo, non si contano più ormai le inchieste e gli scandali giudiziari su appalti truccati, tangenti, corruzione. In questo torbidume si trovano coinvolti politici, imprenditori, malavita e tecnici statali: dalle grandi opere come il Mose o Expo fino ai piccoli comuni come Ischia. L'intreccio fra politica ed economia rivela un situazione che non è possibile etichettare come eccezionale ma fortemente radicata nel tessuto sociale del nostro paese. Non si tratta di un problema di morale (i corrotti come cattivi cittadini) o di illegalismo (servono leggi più severe). Questo tipo di approcci servono solo a nascondere le responsabilità collettive o le cause materiali di un fenomeno che è sistemico: la corruzione, intesa come meccanismo di favoritismi ad personam, di legame diretto fra potenti, non è altro che la base dello sviluppo economico nel nostro paese. Per avere un appalto servono i favori del politico di turno che, in cambio di pacchetti di voti, soldi e qualche bel viaggetto, è in grado di garantire la gestione e l'attribuzione delle commesse.

Vuoi vedere che alla fine la vera causa della stagnazione italiana è proprio la peggiore, corrotta, truffaldina, meschina, cafona, bambocciona classe dominante?

Non sono i diritti, non sono le ore di ferie di studenti ed insegnanti, non sono i salari, non sono i contratti tutelati le cause della crisi. È la vostra fame senza limiti di profitti ad averci portati a questo punto. 

*attivista c.s. Tpo