I surfisti del "Terzo stato"

Tavola rotonda verso l'assemblea nazionale del 20 novembre

9 / 11 / 2009

Coniugare il bene comune con l'autonomia sociale delle persone, una riforma radicale del Welfare con la continuità di reddito contro il precariato e, infine, una nuova politica per l'università e la ricerca. Sono i temi essenziali affrontati nel forum al quale Il Manifesto ha invitato i “laboratori precari” della rete dei dottorandi e dei ricercatori precari delle università romane e la Federazione dei lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil, promotori dell'assemblea nazionale prevista per il pomeriggio del 20 novembre alla Sapienza di Roma. Una tavola rotonda, alla quale ha partecipato l'associazione dei dottorandi italiani (Adi), organizzata per capire quale base di discussione si sono dati alcuni dei protagonisti dell'Onda dopo la presentazione del disegno di legge che promette una riforma “epocale” dell'università italiana.

C'è un elemento singolare nel vostro appello. L'assemblea nazionale viene convocata dai dottorandi e dai ricercatori precari che si sono riconosciuti nello slogan “L'Onda è irrappresentabile” e la Flc-Cgil. Su quali basi nasce il vostro rapporto?

Francesco Brancaccio: L'Onda è stata un movimento generale che ha parlato all'intera società e ha posto un problema politico al sindacato e alle forze politiche. Non penso che l'assemblea del 20 abbia lo scopo di riprodurre lo schema classico di una mobilitazione che chieda al sindacato di rappresentare le proprie istanze. Il problema che abbiamo oggi è diverso. Dobbiamo costruire una mobilitazione larga che metta il sindacato davanti alla sua stessa crisi e, contemporaneamente, lo spinga a praticare delle aperture rispetto ai movimenti. L'appello chiarisce che il 20, e quanto seguirà, non sarà schiacciato sull'agenda sindacale, dobbiamo avere l'ambizione di aprire un percorso più generale di campagne tematiche sul terreno della formazione, del reddito e del nuovo welfare. Il fatto che ci sia una convergenza su tale impostazione mi sembra un punto di partenza importante.

Giuseppe Allegri: Il rapporto con la Flc è nato nel corso dell'Onda in cui ci sono stati diversi incontri pubblici. Dovrebbe essere recepito dalla Cgil, che oggi è isolata, come un invito a fare un'opposizione non giustizialista né scandalistica e ad investire sui lavoratori della conoscenza: docenti, ricercatori, scienziati, formatori, maestre delle elementari e delle medie, la vera ricchezza dell'Onda. Cosa non scontata, ma che le darebbe un ruolo innovativo. Quanto ai movimenti si tratta di rilanciare le loro intuizioni sul reddito e sul welfare prospettando una nuova stagione di conflitto in cui il dialogo con il sindacato è una parte inedita, ma significativa.

Qual è stato invece il ragionamento che ha portato la Flc-Cgil a confrontarsi con i movimenti?

Francesco Sinopoli: L'assemblea del 20 novembre nasce dalla necessità di tenere insieme una riforma adeguata dell'università e un nuovo Welfare contro la precarietà. Ormai non è più possibile separare la formazione e la ricerca da un'idea più complessiva del bene comune e della società. Per noi non è stata una scelta casuale. E' il risultato di un investimento che ha comportato forzature di natura organizzativa nella Cgil per creare un soggetto che modifichi gli indirizzi politici. Bisogna considerare che dentro il nostro sindacato ci sono persone che vivono nella stessa condizione dei precari e che cinque anni fa non c'erano. Il nostro obiettivo è rappresentare gli interessi di chi vive nell'università, senza riprodurre le dinamiche corporative degli anni scorsi. Anche perché certe alleanze non si daranno più. Vogliamo provare ad andare oltre il contrasto del Ddl e traguardare l'autunno con un percorso che metta insieme interessi diversi.

A differenza dell'anno scorso, la reazione contro il Ddl Gelmini da parte del mondo universitario, come di quello politico, sembra ancora blanda. Avete l'impressione che si tratti di una riforma bipartisan?

Andrea Capocci: La riforma bipartisan è un tormentone che ci portiamo dietro da anni. In realtà non c'è mai stata un'opposizione di sistema contro le riforme. Del resto, sarebbe contraddittorio contrastare riforme che procedono in continuità da un governo all'altro. Più che dire però che c'è stata una risposta blanda, sottolineerei il fatto che la proposta di riforma è arrivata dopo un anno. La scelta del disegno di legge, e non del decreto, è una soluzione che prefigura tempi molto lunghi in cui il governo cercherà delle mediazioni in Parlamento. E' la prova della capacità dell'Onda di praticare l'obiettivo, cosa che temo sia stata dimenticata dai ragazzi che hanno fatto il movimento. Se ancora oggi nel Ddl Gelmini si parla dell'abolizione del ricercatore, questo è il risultato del movimento contro la riforma Moratti che ha fatto saltare il progetto cinque anni fa. Per questo non sarei così catastrofista sulla debolezza della risposta. La vedremo nel tempo.

Francesco Brancaccio: Sono d'accordo con Andrea: è stata la risposta dell'Onda ad imporre al governo di procedere oggi attraverso un più prudente disegno di legge. Il rinvio della riforma non ha fermato i tagli di 1,5 miliardi per l'università e di 7 per la scuola previsti dalla legge 133, ma ha comunque congelato per più di un anno l'azione del governo sull'università. Dobbiamo ripartire con questa consapevolezza, avendo la capacità di tenere assieme la critica al ddl con la denuncia che si tratta dell'ennesima riforma a “costo zero”, riaprendo così la discussione sull'anomalia della situazione italiana, un paese nel quale non si investe nella conoscenza e si disprezzano le intelligenze. Nella scelta dei tempi bisogna inoltre fare attenzione ad un fenomeno particolare che sta accadendo ancor prima che la riforma diventi legge. Molti atenei, come la Sapienza, stanno adeguando i propri statuti rispetto alla governance voluta dalla Gelmini. La drastica riduzione del numero di facoltà per ogni ateneo viene fatta sulla base di presunti criteri di efficienza e produttività, laddove bisognerebbe semmai interrogarsi sulla crisi dell'attuale assetto delle discipline scientifiche. Tutto ciò impone una ripresa immediata delle mobilitazioni.

Francesco Sinopoli: Difficile dire se si tratti di una riforma bipartisan. Vorrei capire con quale altra parte sia stata concordata. Chi è il responsabile università del Pd o dell'Idv? Con chi avrebbe trattato sino ad oggi la Gelmini? Rispetto al 2004, si fa fatica a capire con chi dovremmo relazionarci per fare, banalmente, un'audizione parlamentare. Questa situazione complicherà il lavoro. Non c'è dubbio che sia avvenuto uno scambio con una parte del mondo accademico. Conferire poteri maggiori al rettore eletto solo dagli ordinari dice molto sul consenso che ha questa riforma. Così come il nuovo concorso gestito solo dagli ordinari. C'è poi lo scambio con l'Aquis, il consorzio delle 13 università “virtuose” a danno delle università “improduttive”, soprattutto meridionali, che ha spaccato il fronte accademico con la Conferenza dei Rettori (Crui). Ma questo non significa che l'accordo riguardi tutte le componenti dell'accademia. L'impostazione verticistica della riforma produrrà un assetto di potere che scontenterà molti, al di là dei precari e degli studenti.

A vostro parere il Ddl Gelmini affronta la situazione drammatica di un'università che ha mancato tutti gli obiettivi del processo di Bologna stabiliti 10 anni fa?

Cesare Gruber: La riforma Gelmini la ignora del tutto e, anzi, è addirittura un arretramento rispetto alla riforma Berlinguer del 1997. E' molto italiana perché prospetta, fintamente, una sistemazione per migliaia di precari, ma blocca la formazione dei dottorandi attuali. Legarci in Italia con 10 anni di precariato, dopo i quali non c'è alcuno sbocco, significa negarci la mobilità ed isolare l'Italia rispetto all'Europa dove essa viene garantita.
Francesco Vitucci: Questa riforma non garantisce alcuna continuità di reddito per chi lavora da precario nella ricerca e manda avanti l'università. E' irresponsabile perché danneggia l'autonomia del reddito che costituisce l'autonomia sociale delle persone. Letteralmente folle è poi non prevedere un canale alternativo dopo i 6 anni di contratto a tempo determinato per i ricercatori. Se si vuole dare una stabilità secondo il merito, allora il merito deve premiare la produzione scientifica e culturale e non quello fiscale premiando gli atenei “virtuosi”. Senza contare che il Ddl parla a malapena del dottorato e della necessità di cancellare i dottorati senza borsa.
Antonello Ciervo: Questa situazione si scontra con la realtà del baronato universitario, un corpo solido ed organizzato che si riproduce al di là delle frontiere politiche ed è impermeabile alle spinte esterne dell'impresa privata. La privatizzazione dell'università che le riforme cercano di stimolare dagli anni 90 non si è mai attuata perché il baronato ha reso l'università talmente medievale da renderla poco attraente persino al capitale privato. Salvo poche isole, la Microsoft a Trento e le industrie al Politecnico di Torino. E molti fallimenti come il polo farmaceutico di Chieti.

Francesco Sinopoli: Quanto all'idea della Gelmini di introdurre nei consigli di amministrazione “almeno” il 40 per cento di esterni è tutta da dimostrare. Sono anni che si sente dire che l'università deve essere aperta al territorio, ma ciò non è mai avvenuto. E' l'elemento ricorrente in tutte le riforme. L'autonomia voluta dalla Gelmini si tradurrà in tanti Cda con sedie vuote. Solo poche università codificheranno le relazioni già esistenti. Le altre andranno a mendicare. Avremo così un sistema di formazione più modesto, con una ricerca penalizzata che ricalcherà modelli aziendalistici che in Italia non hanno mai funzionato.

In questo Ddl, si parla tanto di valutazione. Voi cosa ne pensate?

Andrea Capocci: La valutazione è il caposaldo dell'ideologia bipartisan sull'università. Il suo obiettivo è di separare la riforma dell'università da quella del Welfare. Come ricercatore non posso non essere a favore della valutazione. Io lavoro per ampliare la conoscenza. Il problema è che se l'università di Milano riceve i fondi di quella della Calabria le disparità aumentano. Se invece si portano fondi in Calabria, allora si capisce che un sistema di valutazione va adottato in base ad una politica democratica. Un'altra cosa è valutare le università e, insieme, garantire il diritto alla mobilità, alla casa, al reddito, insomma un nuovo Welfare universalistico. Senza questa cornice, ogni valutazione diventa conservatrice. In un'economia della conoscenza, formazione, ricerca e welfare sono la stessa cosa.

Ma è possibile misurare la produttività di un lavoro come quello della conoscenza?

Andrea Capocci: Non è solo difficile capire cosa significa produttività della ricerca, ma è altrettanto difficile capire cos'è produttivo nella trasmissione di conoscenze. Spesso le due cose vengono separate, sebbene l'università faccia entrambe le cose. Nella conoscenza non esiste uno strumento di misura sganciato dall'obiettivo della misura stessa. Non si può definire prima cos'è la produttività, se non si sa a cosa serve una ricerca. In Italia non c'è solo il problema dei fondi. E' che non esiste una discussione pubblica sulla ricerca, né sugli obiettivi che dovrebbe avere la nostra economia della conoscenza. Se non c'è questo, ogni valutazione vivrà in un vuoto pronto ad essere occupato da chi ha le armate più potenti.

Che idea di università esporrete all'assemblea del 20?

Giuseppe Allegri: In questi 15 anni di precariato abbiamo capito che le lotte corporative non bastano e che la nostra generazione solo difficilmente entrerà nell'università. Penso però che sia venuto il momento di dare dignità pubblica ad un'idea di università non strumentale e non neutrale. L'università e la ricerca dovrebbero diventare uno strumento di opposizione alle scelte fatte dalle élite dirigenti e da quelle baronali che l'hanno ridotta ad un posto marginale nell'economia della conoscenza. L'università avrà di nuovo una legittimità solo quando tornerà ad essere una garanzia sociale e di reddito per tutti coloro che la vivono.
Antonello Ciervo: L'Onda non ha fatto solo una critica del potere dei baroni. Ha detto che con la riforma Gelmini è in gioco l'università pubblica in quanto diritto. La sua idea dell'autoriforma ha sparigliato le carte anche rispetto al problema classico dei movimenti, quello del diritto allo studio. Autoriforma significa che l'università è innanzitutto un bene comune. E, in quanto bene comune, il movimento cerca di riappropriarsi dal basso della funzione essenziale dell'università: essere luogo di trasmissione e di produzione del sapere.

Francesco Vitucci: La nostra è una lotta per la qualità del sapere e della mobilità sociale in una società che negli ultimi anni ha dimenticato queste prerogative.

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