Il coraggio di osare: note dal corteo del 15/12 a Taranto

di Maurilio Pirone*

19 / 12 / 2012

Non ero mai stato a Taranto prima di sabato, anche se sono nato al Sud e ho girato la Puglia in lungo e in largo. Fino a qualche giorno fa conoscevo questa città, la sua storia e le sue vicende solo attraverso gli articoli dei giornali e i racconti dei tanti ragazzi tarantini costretti ad emigrare, come molti altri dalle mie parti, per poter studiare o trovare un lavoro. Ma bisogna andarci a Taranto per poter avere un'idea minima dell'aria che là si respira, in tutti i sensi. Una città viva, pulsante, rabbiosa e accogliente, tesa e in attesa, sospesa tra il desiderio di un cambiamento radicale e la difficoltà di scrollarsi di dosso il proprio passato. Un passato che è anche un presente, quello della politica industriale italiana degli anni '60 che ha disegnato il profilo architettonico e sociale di questa città cresciuta attorno alla più grande acciaieria d'Europa e alle due basi militari che occupano la zona della marina. Lavoro e disciplina, il ricatto del salario e l'etica dell'obbedienza. In mezzo la città vecchia a far da spartiacque tra il Mar Grande e il Mar Piccolo, scoglio su cui sono cresciute piccole case, stupenda nel suo abbandono, vero simbolo della condizione della città. Una perla incastonata fra quartieri dormitorio, venuti su come funghi per ospitare in palazzoni fatiscenti masse di operai.  
Potrebbe bastare questa breve descrizione della geografia della città per capire quanto il destino di Taranto sia legato in maniera profonda a quello del suo tessuto industriale. L'Ilva, questo mostro architettonico che allunga i suoi tentacoli su tutta la città e la stringe in una morsa corrosiva; descrivere lo stabilimento non è facile, ce lo si trova davanti non appena si esce dall'autostrada a Massafra e si imbocca la tangenziale per la città: le scritte “ILVA” a caratteri cubitali, i capannoni usurati, i nastri trasportatori a cielo aperto, i parchi minerari e, a fianco, le case, i campi, il mare.  
Tutti hanno qualcosa da dire su questo Mostro, storie di vite in cerca di dignità, stanche di dover accettare passivamente e in silenzio. Nessuno ama la fabbrica, eppure solo da poco tempo a questa parte si inizia a sperare in un futuro oltre l'acciaieria. Il contrasto fra lavoro e capitale qui assume la forma della contraddizione insanabile fra profitto e vita, fra calcolo economico e salute. Un contrasto che non appartiene solo a Taranto, ma che forse è la cifra dei conflitti del nostro tempo, quello della crisi, tempo in cui la necessità di far ripartire l'economia viene prima dei desideri, dei bisogni, dei progetti e delle vite della gente. A Taranto questo contrasto ha raggiunto uno stato parossistico, conflitto vivo, punto di non ritorno: comunque vada non è possibile pensare che il domani sarà uguale a ieri, il cambiamento è in atto ma i suoi contorni ancora non sono definiti, la partita è aperta e una parte della città la vuole giocare fino in fondo, fino all'ultimo respiro.  
I tarantini hanno un forte senso di appartenenza alla propria città, un legame di amore e odio con il proprio territorio, comunità terribile fatta di contraddizioni laceranti e speranze condivise. Lo si capisce subito al corteo. La manifestazione è organizzato da varie realtà cittadine, in primis il Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, ma anche tante associazioni a difesa della salute e dell'ambiente; al centro lo spezzone dei compagni e delle compagne dell'ArcheoTower con uno striscione che recita “Ci avete tolto tanto, ci riprenderemo tutto. Liberiamo la città dai ricatti della precarietà”: l'Ilva è solo uno dei tanti dispositivi con cui le nostre vite vengono espropriate, è giunto il momento di riprenderci ciò che ci spetta, senza se e senza ma. Con loro i compagni e le compagne di Bologna, Perugia, Roma, ma anche tanti ragazzi e ragazze che hanno appreso presto l'arte di arrangiarsi e gli studenti medi. C'è fermento al concentramento, tanti capannelli di mamme, operai, precari, studenti, tutti intenti a discutere, commentare, criticare, proporre. Sembriamo pochi e invece lentamente Piazza Sicilia si riempie e il corteo inizia a distendersi lungo le vie laterali. Partiamo e l'atmosfera inizia a scaldarsi, le voci anche, i cori si fanno sempre più forti, decisi, radicali; dai lati continua ad arrivare gente e il serpentone si ingrossa sempre di più, diventa un fiume in piena che invade le strade di Taranto, cuore e ventre che smuovono dall'interno il corpo in evoluzione di questa città. C'è anche tanta polizia, camionette e celere ad ogni angolo per impedire che il corteo devi, l'elicottero che ronza su di noi fin dal mattino, tensione nell'aria perché una città intera che scende in strada fa paura. Siamo il 99%, penso mentre sfiliamo e mi tornano in mente le parole di Roberto: “vorrei prendermi i soldi che la famiglia Riva ha fatto sulla nostra pelle, per bonificare quei chilometri di merda, con gli operai che ieri producevano acciaio, che inizino a smontare bullone dopo bullone quella fabbrica di morte”. Per un attimo mi sembra che tutto sia possibile. I compagni e le compagne dell'ArcheoTower hanno organizzato due azioni in soggettiva, una davanti la caserma Mezzacapo, l'altra davanti il Banco di Napoli: anche questo è un modo per riprendersi il territorio, connotare politicamente il corteo, lanciare un messaggio di cambiamento, ribadire il fatto che in gioco non c'è solo il destino di una fabbrica, ma quello di una città intera.
Le ore scivolano via, il fiume di corpi e voci arriva in Piazza della Vittoria dov'è montato un palco. Sarebbe il momento adatto per tirare le somme di questa grande giornata, per scandire con parole chiare e decise la volontà di tutte quelle persone ad andare fino in fondo, di non accontentarsi delle briciole che Riva e lo Stato sono disposti a concedere: o si vince o si perde, non ci sono più mediazioni arrivati a questo punto. E invece è previsto solo un concerto di artisti locali, canzonette che cozzano in maniera forte e stridente con quanto espresso fino a quel momento. Anche questa è Taranto. È in questo contesto che l'azione del nostro spezzone acquista ancora più significato. Viene srotolato uno striscione, “Pronto don Marco, sono Archinà”, si accendono fumogeni, partono cori e qualche intervento dal megafono. La gente si avvicina, cerca di capire che sta succedendo, si dimentica del concerto. Quello di don Marco è uno dei tanti nomi ad essere uscito fuori nelle intercettazioni che hanno messo a nudo la grande ragnatela del consenso che l'Ilva ha tessuto su questa città e che ha i suoi punti di forza in tutte le figure di potere del territorio, dalla malavita alla Chiesa passando per gli amministratori locali e i tecnici ambientali. Diventiamo sempre di più, c'è chi applaude, chi si avvicina per chiedere informazioni, chi inizia a cantare con noi. Ci spostiamo nella piazza accanto dove c'è la Chiesa del Carmine, proprio quella di cui è parroco don Marco. Lì prende parola Cristina, una compagna dell'ArcheoTower a cui precedentemente era stato impedito di parlare al microfono durante il corteo; il megafono diventa nelle sue mani una granata che esplode tutta la rabbia, tutta la voglia di cambiamento, tutto il coraggio di chi cammina a testa alta mentre cerca di riprendersi una vita dignitosa. La piazza si scioglie in una ridda di applausi e cori.
Un finale molto più appropriato per una giornata come questa; un piccolo gesto che in questo contesto assume un significato sociale forte: bastano degli strappi minimi nel tessuto già lacero della città per risignificare la trama politica all'interno della quale si gioca la partita del cambiamento. Un cambiamento che, purtroppo, non può far leva solo sui grandi numeri, ma che deve anche fare i conti con quelle relazioni di potere che hanno ingessato la città in un presente senza futuro. A volte bisogna osare per scalfire certi rapporti di forza, ci vuole quel coraggio che ho visto brillare negli occhi dei compagni e delle compagne ogni volta che ho chiesto loro di parlarmi di Taranto. Quel fiume di corpi che ha attraversato la città prima o poi romperà gli argini che lo contengono e allora niente più sarà come prima.
*attivista CS Tpo