Il futuro è gia passato!

Il governo Gentiloni tra continuità politica ed interessi delle élite europee

13 / 12 / 2016

Habemus premier. E, da ieri sera, abbiamo anche l’intera squadra del nuovo esecutivo. Dopo meno di una settimana di consultazioni con i vari partiti che compongono l’attuale arco parlamentare, il Presidente della Repubblica Mattarella ha investito Paolo Gentiloni dell’incarico di formare il nuovo governo. Mentre era ancora in corso il totoministri, appariva già abbastanza palese che le diverse cariche ministeriali sarebbero state il frutto di un accurato ricamo di poltrone tra le varie forze che hanno sostenuto il governo dell’ex premier Renzi, con Alfano, Verdini e addirittura Marcello Pera che hanno sgomitato per avere un ruolo di primo piano all’interno del nuovo esecutivo. Ma la partita è stata soprattutto interna al Partito Democratico, che necessariamente deve barcamenarsi tra fronte interno ed esterno per assicurarsi un posto privilegiato nella volata che condurrà alle prossime elezioni politiche. 

La scelta dei ministri è stata all’insegna di una continuità politica disarmante, che sembra ripercorrere le logiche della successione dinastica nell’Europa dell’ancien régime più che quelle di una “democrazia” rappresentativa. L’obiettivo era quello di consegnare al Paese l’immagine di un esecutivo che, nonostante la sonora sconfitta nella partita più importante giocata dalle forze che lo sostenevano, conservasse non solamente i tratti distintivi ma anche i dettagli di quello precedente. La poltrona che salta è solo quella della Giannini, colpevole, a detta di Renzi, di aver difeso ad oltranza una riforma, quella della Buona Scuola, che l’ex premier aveva criticato all’inizio di questo autunno, compiendo un voltagabbana tra i più clamorosi che si ricordino. Alfano viene spostato agli Esteri, la Boschi diventa sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, agli Interni subentra Marco Minniti, uomo dell’estrablishment Pci-Pds-Ds-Pd divenuto negli ultimi anni uno dei fedelissimi di Matteo Renzi.

Al di là dei giochi di palazzo, la decisione di Mattarella di far formare un governo a Gentiloni impone alcune riflessioni politiche che devono entrare nel metodo e nel merito della questione. Sul piano metodologico - che non è pura forma, visto che le regole ed il loro uso rappresentano l’architettura del comando – ci troviamo per la quarta volta consecutiva in pochi anni di fronte al cosiddetto “governo del Presidente”. Mai come negli ultimi anni il Colle si è avvalso della possibilità di scegliere direttamente il Primo Ministro eludendo il dibattito parlamentare, e di conseguenza il voto degli elettori. Non si tratta di prendere in esame i tecnicismi formali della Costituzione, né tantomeno di ergersi a paladini del parlamentarismo, cosa che francamente non ci ha mai appassionato. La prassi istituzionale, ormai consolidata, interroga immediatamente la Costituzione materiale del Paese ed i rapporti di forza che la determinano, i quali individuano nel Capo dello Stato l’unico reale garante tra gli assetti politici nazionali e gli interessi delle élite continentali. 

Proprio rispetto a quest’ultimo punto entriamo nel merito della scelta che ha portato Paolo Gentiloni al solium di Palazzo Chigi. Se il passato “rosso” del neo-premier ci sembra un dettaglio dal sapore folkloristico, visto che abbiamo assistito svariate volte a queste tristi parabole individuali nella recente e passata storia politica del Paese, quello su cui vale la pena di concentrarsi è proprio il ruolo politico ed istituzionale dell’ex ministro degli Esteri, nel delicato gioco di equilibri tra Italia ed Ue. Mai come in questi anni la Farnesina si è fregiata di un ruolo di primo piano in tal senso, condividendo con il Primo Ministro l’esposizione politica nelle trattative europee sulle leggi di stabilità, sul sistema bancario, sulla questione migratoria e su altri nodi centrali che si stanno definendo nel Vecchio Continente in questa fase. Gentiloni rappresenta la continuità con quella metodologia governamentale che sta tentando di amalgamare gli assetti e le istituzioni del comando con i rapporti di forza emersi dalla ristrutturazione capitalistica avvenuta nel corso della crisi. La scelta di formare un governo-fotocopia rispetto a quello presieduto da Renzi conferma in pieno attitudini e funzioni del Primo Ministro.

Il governo Gentiloni incarna dunque la prosecuzione storica della stagione dei “governi commissari”, inaugurata con l’esecutivo di Monti e ancora prima con la nota lettera di Trichet e Draghi a Silvio Berlusconi, datata agosto 2011, nel pieno dell’attacco speculativo ai titoli del debito pubblico italiani, in cui si chiedeva applicazione rispetto all’ «esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita». Se è vero che le politiche di rigore applicato al rapporto tra  debito pubblico e crescita si sono dimostrate fallimentari in tutto lo spazio europeo, è vero anche che l’elemento essenziale dell’austerity, ossia la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ha de facto e de iure irreggimentato in maniera irreversibile la gestione economica di qualsiasi ente pubblico. Le “misure” a cui Draghi e Trichet alludevano continuano inoltre a tradursi in una permanente e strutturale ridefinizione dei dispositivi che regolano la nuova accumulazione originaria del capitale sui vari segmenti del welfare in dismissione, il mercato del lavoro in entrata ed in uscita, la spesa pubblica e la fiscalità. 

Le garanzie offerte dall’ex ministro degli Esteri si spiegano su più livelli. Per l’Unione Europea si tratta di una garanzia di persistenza politica, sia per quanto detto finora sia per il ruolo di argine che il Pd continuerebbe ad avere rispetto all’avanzata anche in Italia dei cosiddetti populismi, all’interno di quella tensione tra il vecchio blocco di potere neoliberale ed un nuovo blocco di stampo nazional-sovranista. L’importanza di ottenere una figura di garanzia e continuità è inoltre funzionale alla stessa Bce, soprattutto in vista della gestione politica dell’affaire Mps, che rischia di avere ripercussioni per tutto il sistema bancario italiano. La prima prova a cui il governo Gentiloni è chiamato a far fronte sarà il giudizio definitivo che la Commissione Ue darà rispetto alla Legge di Bilancio italiana, previsto per il gennaio  del 2017. Ed è proprio in questa sede che verrà testata la garanzia italiana di far fronte, attraverso un governo di massima compatibilità, a quel “triangolo virtuoso” (rilancio degli investimenti, riforme strutturali e politiche di bilancio responsabili) che le oligarchie europee hanno imposto nelle agende economiche e politiche degli Stati membri. 

Tornando al panorama nazionale, per il principale partito di governo la figura di Gentiloni rappresenta un importante pegno in funzione della massima capitalizzazione di quel 40% di SI ottenuti il 4 dicembre che, a detta degli stessi esponenti di spicco del partito, rappresenta un bacino elettorale omogeneo per le prossime elezioni politiche. Questo soprattutto perché il neo-premier ha avuto un ruolo molto defilato all’interno delle faide interne che hanno scosso negli ultimi mesi il partito di Renzi. Giungere al prossimo congresso con una compagine governativa dove hanno prevalso le larghe intese interne assicura a Matteo Renzi il ritorno ad una posizione di forza, con una nuova investitura in vista delle prossime elezioni e con un governo “elettorale” in grado narrare al Paese i fasti dell’epopea politica dei mille giorni. 

La vera contesa elettorale che si apre all’interno del “fronte del SI” riguarda quegli elettori che ancora si dichiarano di Forza Italia e che al referendum sono stati convinti dalla proposta renziana. È proprio verso questo bacino che il Partito Democratico tenterà l’assalto nei prossimi mesi, enfatizzando - se possibile - ancora di più quell’estremismo di centro che negli ultimi anni ha rappresentato l’architrave ideologico del partito. Una strategia che paradossalmente è funzionale alla Lega di Salvini, intenzionato ad impedire la riorganizzazione politica di Forza Italia ed a dare la spallata finale a Berlusconi, sancendo definitivamente la sua leadership a destra e la compiuta trasformazione della coalizione liberal-conservatrice in un blocco politico nazionalista, di stampo lepeniano

Il gioco della Lega, e dello stesso Movimento 5 Stelle, è stato fin dal 5 dicembre quello di far rientrare nei ranghi della crisi di governo una frattura politica ben più profonda che il voto del 4 dicembre ha aperto nel Paese. La ricerca frenetica ed immediata di una compatibilità istituzionale da parte dei due maggiori partiti che hanno animato il “fronte del NO” è funzionale al tentativo di entrambe di egemonizzare quella stratificazione sociale che si è espressa per il netto rifiuto della riforma costituzionale. Un rifiuto che per tanti e tante interroga direttamente le condizioni di vita di milioni di persone, più che ambire ad una semplice alternanza di governo. Ed è proprio per questa ragione che si apre per i movimenti un’ importante fase di progetto, in cui il radicamento politico all’interno della composizione sociale del NO ha necessità di combinarsi con un allargamento degli obiettivi che segua una duplice direzione. Da un lato la messa in comune delle lotte territoriali, cuore della campagna “C’è chi dice NO” e motore politico del No sociale al referendum, deve rafforzarsi per inceppare definitivamente il legame tra gli interessi del capitale estrattivo internazionale e  quelli dei potentati locali. Interessi che si esplicano nella grandi opere, nelle infrastrutture energetiche e nella gestione dei servizi pubblici locali. Dall’altro lato è necessario fare riferimento alla dimensione europea, andando ad attaccare quei poteri che dall'alto della governance continentale condizionano quotidianamente la vita di milioni di persone. Ambire ad un'alternativa reale in Italia non è separabile dalla trasformazione del piano europeo vista la continuità tra governi, costituzioni nazionali e istituzioni europee. In generale, per entrambi i punti di vista, non possiamo accontentarci dell'esistenze, ma ambire ad aprire nuovi spazi di movimento per far emergere, all'insegna dell'ampliamento dei diritti e della decisione, le contraddizioni che hanno animato il No del referendum.