LE LARGHE INTESE FANNO SCUOLA: FA CAPOLINO IL GOVERNISSIMO SINDACALE-PADRONALE

Il governissimo sindacale-padronale

Accordo del 31 Maggio sulla rappresentanza sindacale

5 / 6 / 2013

Per quanto ne possano dire le solite Cassandre del panorama politico e sindacale, solo un anno fa in pochi avrebbero scommesso un euro sul quadro politico-sindacale che si sta determinando in queste ore.

Che si potesse arrivare ad un accordo sulla rappresentanza siglato da tutte le OO.SS. e che riesce a tenere dentro il quadro di compatibilità anche la FIOM, che un anno fa portava Fiat in Tribunale e organizzava scioperi a singhiozzo contro la modifica - abrogazione dell’articolo 18, allora sembrava davvero impossibile.

Il fatto che ci si arrivi adesso, dopo le elezioni e in un momento in cui le larghe intese hanno assunto una posizione di egemonia nel paese, impone a tutti una riflessione sul punto in cui siamo. Partiamo dal dire che non si può negare che il raggiungimento di un accordo sulla misurazione e sull’esigibilità degli accordi sindacali sia una svolta storica. Basti pensare che si tratta della traduzione pattizia di quell’articolo 39 comma 2 della Costituzione, per 50 anni rimasto inapplicato, anche perché le sigle sindacali hanno sempre rifiutato l’idea di far certificare da un organo terzo il proprio peso in termini di numero di iscritti.

Che ci si arrivi adesso, in pieno governo di larghissime intese e nel clima di restaurazione sociale indotto dalla crisi della rappresentanza, è senz’altro rilevante. Senza negare la portata storica di quest’accordo, è innegabile, dal nostro punto di vista, che questo rappresenti la trasposizione sul piano sindacale proprio di questo clima. Siamo in presenza di una sorta di governissimo sindacale - datoriale di larghe intese formato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria che deve risolvere il delicato nodo della crisi della rappresentanza sindacale, segnato da un’erosione del consenso che riguarda tanto Confindustria (che ha subito lo smacco dell’uscita dal proprio perimetro di Fiat), quanto le organizzazioni sindacali (che perdono iscritti [anche] sotto i colpi inferti dalla crisi.)

Il fatto che tanto Landini, quanto Dolcetta (vice-presidente di Confindustria), rivendichino l’accordo come una propria vittoria, pur rappresentando da un lato il solito gioco delle parti, è anche in linea con la natura compromissoria di quest’accordo. 

Quanto detto si riflette, inevitabilmente, sui contenuti dell’accordo stesso nel quale si possono riconoscere i tratti tipici delle larghe intese, cioè clausole elastiche che rinviano agli accordi nazionali di categoria per la soluzione dei tanti nodi irrisolti. In questo modo viene lasciata anche alla FIOM la possibilità di ritagliarsi un ruolo nel proprio comparto, anche se tutto interno alla dinamica sindacale. La Fiom ne esce, così, ridimensionata da un punto di vista politico, ma si sottrae all’isolamento sindacale in cui si era ritrovata con l’Accordo del 28 Giugno 2011, la vertenza di Pomigliano e l’opposizione solitaria alle modifiche dell’articolo 18  e 8 (sostenute anche dalla CGIL).

Nel protocollo ci sono tre elementi, secondo noi, rilevanti: 1) l’obbligatorietà della sottoposizione a consultazione delle ipotesi di CCNL; 2) il principio che l’Accordo è valido solo se sottoscritto dal 50 % + 1 dei soggetti deputati a trattare, 3) le RSU saranno elette con meccanismo proporzionale  e quindi senza l'attuale riserva di 1/3 a favore dei sottoscrittori dell'accordo.

Il primo è un principio cardine della democrazia sindacale, particolarmente sostenuto dalla segreteria di Landini (anche se nel protocollo non si parla in maniera esplicita di referendum). Il secondo potrebbe significare la fine degli accordi separati e potrebbe rappresentare (con un grande punto interrogativo) un’inversione di rotta rispetto a quanto sancito dall’Accordo del 28 Giugno (cioè che si può concludere un accordo anche con una sola sigla), pur con l'anomalia che attualmente gli unici a poter certificare le deleghe sono Cgil, Cisl e Uil (con una forte penalizzazione, quindi, di tutto il sindacalismo di base). Il terzo elemento elimina una truffa elettorale che si è protratta per troppo tempo. 

Dall’altra parte la Fiom è costretta ad ingoiare il rospo della clausola di rinuncia ad esercitare il diritto di sciopero (semplicisticamente così sintetizzata), anche se formulato in maniera addolcita. In effetti, l’Accordo parla solo di impegno delle parti a rispettare i CCNL, conclusi secondo la disciplina del protocollo, e rinvia agli accordi di categoria per la definizione delle clausole di raffreddamento e delle sanzioni per le inadempienze.

Il rinvio agli accordi di categoria per la soluzione di questi nodi implica che dove il sindacato è più forte e più conflittuale si potrà contemplare (se questo riesce a pesare numericamente) anche il diritto di sciopero e prevedere sanzioni più morbide in caso di mancato rispetto dei CCNL. Laddove, invece, il sindacato è più debole il diritto delle minoranze sindacali di contrastare un accordo sarà nullo. Una sorta di porta girevole per il conflitto sui luoghi di lavoro.

Con l’accettazione di questi punti dell'accordo, prende corpo, di fatto, l'idea che la Fiom si ritragga dal proprio ruolo di collante dell’opposizione sociale alle politiche di austerità (ruolo mai assunto fino in fondo) e ripieghi in un ruolo tutto interno alla categoria che rappresenta.

Una lettura tutta sindacale della propria funzione, che relega ai tecnicismi della rappresentanza sindacale la soluzione di ogni conflitto, assegnando al mondo del “lavoro”, complessivamente inteso, il compito di portare il paese fuori dalla crisi, lasciando fuori dalla porta il mondo del non lavoro, il dibattito sul reddito minimo e la costruzione di un percorso comune con i movimenti. Una questione, che è di democrazia fuori e dentro il lavoro, si risolve in un problema di governance dentro il mondo del lavoro.

In questa chiave viene persino digerita, senza essere troppo schizzinosi, la norma “vergognosa” che impone alle RSU il vincolo di mandato, tale per cui se un componente della RSU abbandona la propria organizzazione decade, lasciando il posto di componente della RSU a chi lo succedeva nella lista. Un ridimensionamento del ruolo e dell’autonomia delle RSU elette dai lavoratori che rischia di far diventare le elezioni solo un tecnicismo finalizzato alla certificazione della rappresentatività delle OO.SS., anziché essere un’espressione del diritto supremo del lavoratore di scegliere i propri rappresentanti.

Nella stessa direzione va la previsione che le elezioni delle RSU potranno essere indette solo se c’è la volontà unitaria delle Federazioni aderenti alle confederazioni firmatarie di questo accordo, altrimenti rimangono in vigore le RSA nominate dalle organizzazioni sindacali, implicitamente contemplandosi, così, la facoltà delle OO.SS. di sottrarre ai lavoratori il diritto di voto.

Certamente l’impianto liberticida di queste norme denuncia un alto tasso di volontà di normalizzare le relazioni sindacali, reprimendo le voci di dissenso, forse ancor più della norma che pone la soglia di sbarramento del 5 % per poter  sedere ai tavoli nazionali di contrattazione.

È singolare che proprio su questo non si levi alcuna voce, neppure del “sindacalismo di base”.

 

Cosa cambia per noi

Se è certamente vero che quest’accordo ridisegna gli assetti delle relazioni sindacali e della governance del mondo del lavoro, dal punto di vista strettamente sindacale, fatta eccezione per la vergognosa norma di cui si diceva sopra per il vincolo di mandato per le RSU, in ordine alla possibilità di partecipare ai tavoli di contrattazione nazionale, per noi non cambia molto. Nel privato, causa i referendum dei radicali del 95, alle organizzazioni sindacali non firmatarie di CCNL, non viene riconosciuta la trattenuta sindacale, e la quota sindacale viene per lo più  pagata dal lavoratore come cessione del credito, quindi i problemi che c'erano fino a ieri rimangono invariati. Ma soprattutto, anche in tempi passati, di conflitti veri, non è mai stato un problema di certificazione di tessere, ma  sempre una questione di rapporti di forza.

Da questo punto di vista, non ci sembra di dover additare nessun traditore. Questo protocollo va a disciplinare degli assetti contrattuali, rispetto ai quali siamo stati e rimaniamo “terzi”.

L’introduzione della soglia di sbarramento del 5 %, per poter sedere al tavolo delle trattative, introdotta, in funzione anti-cobas, nel settore del Pubblico Impiego da Cirino Pomicino negli anni ’80,  viene copiata ed incollata in quest’accordo e rappresenta senz’altro una norma volta ad escludere il sindacalismo di base dai tavoli di trattativa. È, però, vero che nel Pubblico Impiego, per l’effetto congiunto di Brunetta e delle politiche di austertity, quei tavoli di trattativa risultano sempre più svuotati di significato. Nel privato è bastata la crisi: i rapporti pubblicati dai diversi istituti di ricerca (l’ILO, l’ultimo in ordine di tempo, certifica la necessità di recuperare 1,7 milioni di posti di lavoro) sull’incremento della disoccupazione ci dicono che rispetto ai morsi della crisi non ci sono regolamentazioni che tengono.

La vicenda dei due scioperi del 22 marzo e 15 maggio,  indetti da ADL Cobas e SiCobas  nella logistica per poter incidere sul rinnovo del  CCNL scaduto, si colloca in uno spazio che non ha nulla a che vedere né con questo accordo né con la legislazione vigente in materia di rappresentanza. Rispetto a questo dato, l'Accordo non sposta assolutamente nulla, perché va solo a regolare i rapporti interni tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.

Criticare quest'Accordo dall'angolo visuale della soglia di sbarramento per accedere al tavolo piuttosto che del problema tecnico dell’impossibilità di far certificare le deleghe da parte di chi non appartiene alle Confederazioni firmatarie, è una prospettiva che non ci affascina.

Continuare a dare questa lettura è tipico di una certa parte del sindacalismo di base che pone il lavoro al centro di tutto e si pone il problema non di rispondere alla domanda di cambiamento, ma di sostituirsi ai sindacati confederali nell’esercizio della rappresentanza.

La nostra esperienza, nelle cooperative e non solo, dimostra, invece, che socialmente esiste uno spazio per l’auto-organizzazione territoriale attorno al tema dei diritti.

Riteniamo che la presenza ai tavoli di contrattazione non esaurisca l’orizzonte politico-sindacale, anzi. La scomposizione del lavoro determinata dalle logiche di esternalizzazione trova, spesso, nello sfruttamento intensivo tanto del fattore lavoro, quanto del fattore ambiente, una resistenza “territoriale” in grado anche di ricomporsi e di rivendicare diritti in maniera autonoma. Il diritto alla salubrità dell’ambiente, ad un orario di lavoro dignitoso, il diritto alla malattia, il diritto alla parità di condizioni di lavoro e di retribuzione sono spesso in grado di determinare ricomposizione e conflitto, perché non accettano mediazioni. Il tema vero è, sul piano sociale, prima ancora che sindacale, come si dà una risposta a questa domanda di cambiamento e di auto-organizzazione.

Questo è il punto centrale di tutto il ragionamento che deve essere sviluppato. Oggi, non esiste un tecnicismo giuridico, che possa essere efficace sul terreno della conquista della rappresentanza, nel senso compiuto della parola: rappresentare il conflitto e conquistare tavoli di trattativa per ottenere miglioramenti effettivi  nelle condizioni lavorative. Il problema non è quello di chiedere una legge che ci consenta  di sedersi ai tavoli nazionali con sindacati confederali, padroni e governo. La conquista della rappresentatività, dal punto di vista delle lotte, si può dare solo in termini di rapporti di forza. Non ci riconosciamo nelle squadre che partecipano a questo campionato e, tanto meno ci riconosciamo nelle regole che lo presiedono.  La partita che dobbiamo giocare noi si svolge da un'altra parte  e con altre regole.  Quello che sta avvenendo nella logistica è la dimostrazione  che, regole o non regole, dove il conflitto è vero, le regole sulla rappresentanza vengono scritte giorno dopo giorno, fuori dal contesto legislativo in essere. Ormai in decine e decine di magazzini della logistica, pur non avendone alcun diritto sul piano formale, si sono create strutture di rappresentanza, delegati veri, che hanno conquistato i permessi sindacali, si sono conquistate le assemblee retribuite in orario di lavoro, si firmano accordi aziendali e territoriali e ci si accinge a giocare una partita ancora più importante che è quella di imporre accordi con valenza interregionale.

In definitiva ci sentiamo di affermare che l'accordo sottoscritto non rappresenterà un ostacolo in più allo sviluppo di nuove dinamiche conflittuali e che solo da queste ultime potrà essere ridefinito un nuovo assetto della rappresentanza che potrà essere efficace solo se rimodellato all'interno di ambiti territoriali definiti.

 

 -Adl Cobas

Sito web -> Associazione per i Diritti dei Lavoratori