Il mondo di Davos

1 / 2 / 2018

Si è conclusa da alcuni giorni a Davos la quarantottesima edizione del World Economic Forum, tradizionale meeting invernale – a cadenza annuale – nel quale si incontra il gotha dell’economia e della politica mondiale per discutere «dei problemi del mondo». Storicamente il Forum è stato il luogo nel quale imprenditori, finanzieri, manager e analisti economici dettavano l’agenda ai governi e che, a fasi alterne, ha rappresentato la supremazia dell’economia sulla politica.

Sono lontani i tempi in cui la cittadina svizzera saliva agli onori della cronaca per le contestazioni che avvenivano durante il WEF, divenuto obiettivo strategico – nel ciclo di movimento no global – in quanto considerato uno dei momenti cruciali in cui la governance imperiale definiva e affinava i propri assetti. Nel 2018 Davos è tornata prepotentemente al centro dei riflettori internazionali, ma i motivi sono ben diversi. Quest’anno è infatti andata in scena – probabilmente per la prima volta in maniera così esplicita e polarizzata – una contraddizione che da tempo sta attraversando le oligarchie globali e che sta mettendo profondamente in discussione il “pensiero unico” neoliberale affermatosi negli ultimi decenni. Donald Trump da un lato, Angela Merkel – Emmanuel Macron dall’altro si sono fatti interpreti di questa contraddizione.

Fine dell’omogeneità neoliberale

Che esista una liquida instabilità negli assetti della governance nati dopo la fine della “guerra fredda” è un dato che non scopriamo di certo a Davos. La fine dell’omogeneità neoliberale è frutto di un processo giunto a maturazione nella fase più acuta della crisi sistemica di inizio millennio e ha due principali punti di saturazione: la circolazione della forza-lavoro e il modello energetico. Ci sono una pluralità di fattori alla base di questo fenomeno, in particolare legati all’incapacità del modello “di governo” bipolare - basato sulla contrapposizione/alternanza di forze conservatrici e progressiste  - di reggere l’urto sociale della crisi e di sussumere il nuovo blocco politico di matrice nazional-sovranista, emerso in particolare nel continente europeo e nell’America settentrionale.

L’avanzata di questo nuovo blocco, in relazione dialettica con una torsione reazionaria avvenuta nella società, ha profondamente messo in discussione due delle principali linee di tendenza sulle quali si è sviluppato il capitalismo globale negli ultimi decenni. La prima riguarda il mercato transnazionale del lavoro che, nel solco del superamento degli Stati-nazione, ha individuato nella circolazione delle forze produttive e nell’allargamento del bacino di manodopera precaria e ricattabile lo snodo fondamentale di una messa a valore del bios sociale nella sua complessità e nei suoi movimenti. In secondo luogo, la questione energetica, alla quale si accennava sopra, attiene a una tendenza di sviluppo che non solo ha pienamente sussunto le spinte dell’ambientalismo borghese novecentesco, ma si è costituita in ecologia del potere [1], utilizzando il mantra del green capitalism. Con quest’ultimo è la stessa crisi climatica a generare un nuovo nesso tra natura e valore, trasformando il limite ambientale nel fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione [2]. La produzione di valore contemporanea si afferma così nella piena sussunzione - da parte del capitale - della vita e della natura, con una pianificazione energetica basata sulle cosiddette rinnovabili e l’espansione di dispositivi come la finanziarizzazione dei beni comuni, i carbon credits, le speculazioni sui derivati metereologici, i climate features.

Con l’elezione di Trump alla Casa Bianca le tensioni nazional-sovraniste, fino ad allora concentratesi soprattutto nei Paesi dell’ex Blocco sovietico, assumono un peso internazionale, per certi versi inaspettato. L’America First del tycoon, che da slogan elettorale è divenuto motto di governo, si è polarizzata su due macro-aspetti: l’etnicizzazione del mercato del lavoro e una politica energetica espansiva sul piano dell’estrazione di idrocarburi. Tutto questo è coevo alla cosiddetta crisi migratoria che, sull’altra sponda dell’Atlantico, fa vacillare i fondamenti della mobilità europea sanciti nella Convenzione di Schengen, proprio grazie alla spinta dei governi nazionalisti di alcuni Paesi dell’Est. Semplificando al massimo, nazionalismo e protezionismo diventano nuovamente chiavi interpretative del presente, nonostante sembravano essere state spazzate via dai flussi della storia.

Davos come sintesi tra protezionismo e neoliberismo?

Per comprendere fino in fondo gli assetti globali che Davos ha provato a ridisegnare è necessario rimarcare una questione: il blocco nazional-sovranista, nonostante si si spesso autodefinito «anti-sistema», non ha mai messo in luce un’incompatibilità con i dettami del capitalismo globale. Dal punto di vista economico la retorica anti-globalista, al di là di un sovranismo monetario relegabile più al campo della boutade che a concrete proposte politico-finanziarie, non ha mai contrastato la circolazione dei flussi monetari né i dispositivi che regolano l’accumulazione finanziaria nel capitalismo contemporaneo.

Lo stesso protezionismo di cui Trump si fa portatore – che in un articolo pubblicato su Globalproject poco meno di un anno fa era stato definito liber-protezionismo[3] -  se da un lato eredita alcune misure di interventismo statale già attuate nel corso dell’amministrazione Obama, dall’altro si discosta nettamente da forme storiche di protezionismo indissolubilmente legate al ruolo assunto dallo Stato-nazione nei due secoli precedenti. Per questa ragione vanno ben interpretati i discorsi del presidente statunitense al WEF che, a detta di molti analisti, avevano l’obiettivo mirato di suscitare l’attenzione di quell’Olimpo della finanza globale che finora ha sempre snobbato Trump. Usando un popolare aforisma, potremmo dire che il tycoon «con una mano toglie e con l’altra rende». I toni minacciosi del discorso inaugurale, che si è in gran parte concentrato sui dazi imposti dagli USA sull’ingresso di pannelli solari e lavatrici, hanno lasciato spazio a una retorica più conciliante, che ha definito l’America First non come un nuovo isolazionismo americano, ma come un recupero dell’identità nazionale funzionale a una nuova fase di crescita economica del Paese. Emblematica, in tal senso, la dichiarazione del segretario del Tesoro Steven Mnuchin – l’ex banchiere di Goldman Sachs diventato uno degli alfieri del nazionalismo economico statunitense –, che ha considerato la svalutazione del dollaro «un vantaggio per le esportazioni americane». In altri termini, non ci troviamo di fronte ad un nuovo corso economico di stampo protezionista tout court, ma ad una forma di nazionalismo economico integrata negli assetti globali del capitale.

I discorsi di Trump hanno creato non poca confusione nei mercati finanziari e Wall Street in particolare ha registrato sofferenze importanti. Questo va messo in relazione con l’ufficializzazione dell’annuncio, da parte del governo cinese, di un disinvestimento nei treasure americani, probabilmente come risposta ai dazi su prodotti che vedono il mercato cinese come primo esportatore negli USA. Proprio le tensioni commerciali sino-americane sono quelle che maggiormente preoccupano le principali holding finanziarie, perché mettono in discussione l’asse su cui si sono concentrate le principali operazioni speculative negli ultimi decenni.

Dal canto loro Merkel e Macron – che a Davos hanno recitato il ruolo dei “globalisti” imperituri – rinsaldano pubblicamente l’asse franco-tedesco non solo come guida dell’Unione Europea, ma come unica alternativa al trumpismo. Con un’Europa sempre in bilico tra politiche di austerità e velleità di rilancio economico, entrambi i premier hanno insistito sulla necessità di rafforzare il polo economico che riesca a recitare al meglio il ruolo di «terzo incomodo» tra Usa e Cina. In particolare Macron, che rispolvera la grandeur francese con il minaccioso slogan «France is back at the core of Europe», ha rivendicato il ruolo del suo Paese all’interno di un nuovo processo di integrazione europea «a più velocità». Si tratta di un chiaro messaggio a tutti i Governi che stanno criticando l’approccio “unionista”, specialmente sui temi economici e su quelli che riguardano le migrazioni. Macron ha inserito nell’agenda economica anche la questione climatica, rilanciando gli impegni – in termini di accordi politici, ma soprattutto di business – presi al recente One Planet Summit, meeting organizzato dal governo francese ufficialmente per celebrare il secondo anniversario degli Accordi di Parigi, realmente per tentare di rimediare al fallimento della recente Cop 23 di Bonn.

Sullo sfondo ci sono due questioni su cui l’asse franco-tedesco concentrerà le proprie energie. La prima concerne la costituzione di un Ministero delle finanze europeo, proposta tornata in auge dopo lo stallo determinatosi in seguito alle elezioni politiche in Francia e poi in Germania. L’obiettivo dell’operazione è quello di centralizzare maggiormente le politiche economiche continentali, modificando strutturalmente alcuni ambiti che non hanno ancora pienamente un “regime europeo”, in particolare il settore bancario e la fiscalità generale. La seconda questione riguarda il riassetto della governance neoliberale, che ha come presupposto quello di una piena compatibilità dei Governi dei principali Stati membri dell’Unione Europea con le linee dettate dagli organismi sovranazionali. Va in questa direzione la terza Große Koalition che si sta delineando in maniera sempre più concretasul versante tedesco, ma anche l’attenzione internazionale che riguarda le prossime elezioni legislative in Italia. Non è un caso che tutte le principali forze politiche si stiano concentrando sul tema della governabilità post-4 marzo, a fronte di una palese impossibilità di costituire un governo “monocolore”, e che anche i partiti tradizionalmente “euro-scettici” stiano virando su posizioni più concilianti [4].

L’opportunità del conflitto in una governance liquida

Davos ci consegna un quadro molto frammentato. Se da un lato è probabilmente una semplificazione errata quella di leggere l’attuale fase economica solo alla luce di una polarizzazione tra “neoliberalismo” e “protezionismo”, dall’altro formalizza la fine di un blocco monolitico che guida le élite globali. D’altro canto, la liquidità è insita nell’ordine imperiale costituitosi negli ultimi decenni, soprattutto in una fase in cui l’economico si è fatto politico e modella in continuazione istituzioni e assetti normativi. Il recupero delle identità nazionali a cui stiamo assistendo, che non è prerogativa solamente dei governi “sovranisti”, non è in antitesi ma è funzionale a questo processo, perché stabilisce nuove gerarchizzazioni e dispositivi di disuguaglianze all’interno del corpo sociale [5].

Le contraddizioni intra-oligarchiche intercettano anche un’altra crisi che si muove sullo sfondo globale, quella dello Stato di diritto e di quell’ordine giuridico-istituzionale che si è gradualmente affermato dopo le grandi rivoluzioni della fine del XVIII secolo.

Qualsiasi fase di subbuglio e fluttuazioni segna un’opportunità per tutte le forze che si pongono sul terreno dell’extra-legalità e che ambiscono a creare un potere costituente che tragga origine dai conflitti sociali. Circolazione delle persone e crisi climatica rappresentano, proprio perché immanenti alla riproduzione sociale del capitale, un terreno strategico per tanti movimenti di lotta che attualmente operano nel pianeta. Sfuggendo a qualsiasi visione escatologica della realtà, l’immersione in  queste contraddizioni può fornire le chiavi per nuove cartografie dei conflitti e delle resistenze, ma soprattutto per nuovi terreni di organizzazione transnazionale dei movimenti.

[1] Cfr. S. Barca, Per un’ecologia del comune, «Globalproject.info», 20 giugno 2016;

[2] Si veda a tal proposito l’introduzione di E. Leonardi, Lavoro, Natura, Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, Orthotes, Salerno 2017, p. 4;

[3] A.P. Lancellotti, America first. Trump e il liberprotezionismo, «Globalproject.info», 20 febbraio 2017;

[4] Sulla questione leggi A. P. Lancellotti, La corsa verso la governabilità, «Globalproject.info», 11 gennaio 2018.

[5] Per approfondire alcuni elementi su cui si riproduce il capitalismo odierno, in particolare quello della scomposizione dei soggetti sfruttati e della valorizzazione dell’iper-individualità, rimandiamo al seguente documento: Centri sociali del Nord-Est, Evitare la catastrofe. Appunti teorici per orientarsi nel presente, «Globalproject.info»,, 9 febbraio 2017