Siamo abituati a guardarci indietro solo e
soltanto per trovare nuove traiettorie future e così vogliamo fare
anche per quanto riguarda quello che è accaduto in piazza il primo
maggio.
Per noi Milano rappresenta un punto di rottura che ci fa
interrogare complessivamente su cosa voglia dire essere e fare
“movimento” in Italia e nel farlo non possiamo che andare oltre
all’analisi di singoli fatti. Non è certo qualche auto bruciata a
turbarci, in ballo c’è qualcosa di molto più complesso e
importante. Alcuni mesi fa, intorno a un ricco dibattito sui rapporti
tra i movimenti e l’ipotesi di una possibile proiezione “verticale”
delle istanze, qualcuno sottolineava la crisi o addirittura la fine
dei movimenti per come li abbiamo conosciuti negli ultimi 15 anni.
Sapevamo che la May Day ci avrebbe dato dei segnali in questo senso.
I segnali sono arrivati, e ci sembrano inequivocabili.
Crediamo
che il movimento, per come lo abbiamo immaginato negli ultimi anni,
con quella fisionomia a cui ci eravamo tanto abituati, abbia cessato
di esistere. A comunicarci questo intervengono almeno tre livelli di
ragionamento.
Il primo ha a che fare con la
preparazione dell’appuntamento.
Siamo arrivati alla piazza di Milano senza un percorso politico di sufficiente condivisione tra le varie componenti del “movimento”, questo ci sembra davvero innegabile. Premettiamo, ci teniamo davvero a farlo, che i compagni e le compagne di “attitudine no expo” hanno svolto un generoso e difficile lavoro di preparazione che poneva delle buone basi politiche e organizzative. Cerchiamo di essere molto essenziali su questo punto, le componenti militanti di quella piazza non hanno una reale tensione a interloquire, a parlarsi, a trovare i minimi margini per mettere in scena azioni coordinate o condivise. Ognuno per sé insomma, nell’attesa, a tratti irreale, di vedere cosa sarebbe successo una volta lì nella strada. Con la differenza che noi, con lo spezzone di apertura “scioperiamo expo”, abbiamo detto in modo trasparente quello che avremmo fatto e nel farlo abbiamo dato la priorità a non mettere 30.000 persone in balia delle nostre scelte. Questo non è stato fatto da altri che hanno secondo noi tracciato un solco tra pratiche di piazza autoreferenziali e “sovra-determinanti” e le soggettività che quella piazza l’hanno riempita. Il tutto è stato poi tendenzialmente rivendicato, nascondendo quello che per noi non è altro che autoreferenzialità, dietro l’argomentazione insostenibile di una rabbia sociale che in quel frangente si sarebbe espressa.
Poi abbiamo animato uno spezzone mosso dall’intento di indicare il luogo simbolico del distaccamento della commissione europea come coerente obiettivo sensibile e poi ci siamo preoccupati di tutelare le migliaia di persone che erano con noi da quello che stava succedendo dietro. Lo abbiamo fatto e lo faremmo altre mille volte.
Il secondo livello, quello che ci interessa di più, ha a che fare con quello che da tempo definiamo “tensione maggioritaria del conflitto”.
Qui siamo davvero
all’anno zero. Per rispetto della nostra intelligenza politica non
ci soffermiamo a commentare il tentativo di accostare i riot di
Milano con i fatti di Ferguson, Baltimora e piazza Taksim, oppure
quello di individuare il “pirla” di turno come soggetto
emblematico di una ricomposizione possibile. Fuori da ogni
stucchevole moralismo che lasciamo volentieri a Saviano e soci,
quella modalità di scontro si presenta per noi poco comprensibile
per quelle soggettività che vivono ogni giorni, sulle loro vite, i
segni violenti di un modello di sviluppo che sta impoverendo a vari i
livelli le vite delle persone. La soluzione proposta ci sembra non
soltanto dannosa per una moltiplicazione dei conflitti, ma la più
semplice: nell’incapacità manifesta, di tutti lo precisiamo, di
evocare fenomeni di autorganizzazione e rivolta moltitudinanria,
deleghiamo la rappresentazione, tutta simbolica ed estetica, del
conflitto, a gruppi militanti appagati del fatto che il day after
tutti certamente parleranno di loro. Che sia chiaro gli scontri li
abbiamo fatti tutti nelle nostre storie, non ci siamo mai tirati
indietro, ma lo abbiamo fatto in modo virtuoso e produttivo soltanto
quando sono stati connessi con una composizione sociale che come
minimo era in grado di comprenderli, di individuarli come la giusta
risposta verso l’attacco alla vita che il capitale mette
costantemente in atto. A proposito di scontri e della immancabile
violenza della polizia e dell’apparato della giustizia penale,
chiediamo a gran voce la liberazione di tutti i compagni arrestati in
quella giornata. La battaglia per la libertà di movimento e la
denuncia dei dispositivi repressivi è per noi un terreno comune che
va al di là di ogni tensione critica su discorsi, pratiche e
strategie.
I
l terzo elemento rispetto al quale i posizionamenti sul campo sono molto diversi ha a che fare con il senso stesso della militanza, con il senso stesso di fare politica a partire dall’autorganizzazione dal basso. Il senso stesso del fare movimento dunque.
Cambiano le strategie di governance del capitale e le forme di sfruttamento, cambiano le necessità, i bisogni e i desideri dei soggetti, cambia la strutturazione delle nostre città e dei rapporti di forza che le innervano e noi rischiamo di riprodurre noi stessi dentro cornici identitarie invece di essere all’altezza delle trasformazioni in atto. Incapaci troppo spesso di prendere parola in tanti, muoverci, cioè “fare movimento” dentro la società, riprenderci la scena e mettere al centro il tema della vittoria. Non è certo la giornata di Milano che introduce questo tema, ne stiamo parlando da molti mesi e, dentro ambiti come lo “strike meeting”, stiamo già sperimentando uno stile di militanza, un modo di fare movimento radicalmente in discontinuità col passato.
Parliamo di
una nuova metodologia che sappia rifuggire ogni spinta resistenziale
o di “trincea”, che ci faccia definitivamente uscire da quel
blocco che da anni trasmette l’idea che ci si debba affidare
soltanto alle “aree”, alle “strutture” e alle “famiglie”
e, nella migliore delle ipotesi, ad accordi e negoziazioni tra
queste.
Dobbiamo andare oltre a noi stessi per come ci siamo
immaginati finora, strapparci con coraggio a tutte le nostre derive
identitarie che garantiscono al massimo l’autoconservazione e la
sopravvivenza e in questo sapere parlare e costruire azione politica
con gruppi e soggettività diverse ( non soltanto italiane, ma anche
europee) mettendo al centro la tensione forte alla condivisione dei
percorsi.
In questo senso quella della costituzione di coalizioni
sociali ampie, anche con alcuni componenti sindacali più virtuose e
radicali, non può non essere un’importante ipotesi sul
campo.
Certo tutto questo, anche la ricerca di una “verticalità”
che sappia dare più peso alle nostre istanze, lo facciamo, come
abbiamo scritto in un editoriale alcuni mesi fa, sempre e comunque
ripartendo da noi:
http://www.bioslab.org/il-basso-lalto-e-lobliquo/
Le giornate di Milano ci indicano insomma la presenza di diversi sguardi sulla realtà che ci circonda, diverse attitudini nel fare movimento che faticano a essere ricomposti oggi in un terreno comune. Di certo, in comune, viste le condizioni attuali, sarà difficile immaginare di condividere delle piazze.
Per scrupolo ribadiamo ancora che siamo del tutto disinteressati a giudicare singoli episodi in sé, poco stimolati a cercare di capire se sia più politicamente utile spaccare le vetrate di una banca o di un comune negozio, non può essere questo il punto. Più in generale non ci appartiene il fatto di giudicare le scelte altrui, non è sulla legittimità di queste che ci vogliamo soffermare. Le prese di posizione di questi giorni riaffermano e purtroppo cristallizzano però una spaccatura di cui bisogna, anche serenamente, dare atto e da cui bisogna ripartire.
Da un punto di vista più generale, è intorno alla tensione tra “processo” ed “evento” che si consuma questa incapacità di parlarsi, intendersi, e organizzarsi insieme.
Quando gli eventi in cui si esprimono forme radicali di scontro e conflittualità e i processi di cooperazione e di composizione tra soggettività diverse smettono di intrecciarsi e coesistere, allora sentiamo l’irriducibile urgenza di fermarci e di mettere sul tavolo la necessità di percorre strade nuove, di gettare via dispositivi organizzativi inefficaci e sperimentare nuove strade.
Se la
prospettiva è la trasformazione profonda dell’esistente, se
l’intenzione è quella di favorire l’organizzazione politica
delle espressioni frammentate di rabbia sociale, animati dalla
ricerca di una “rottura costituente” capace di lasciare il segno,
gli eventi non possono che essere espressione, punto di
precipitazione, di processi ampi e condivisi. I processi di lotta,
attraverso confronti, discussioni, negoziazioni, contaminazioni e
mediazioni tendono a produrre immaginari, discorsi e narrazioni
comuni e l’evento, a questo punto importa poco quanto “radicale”
dal punto di vista delle specifiche strategie di piazza, deve appunto
esprimere le diverse sfaccettature di questi processi ampi e
articolati intorno all’individuazione di obiettivi comuni. L’evento
deve scuotere lo spazio pubblico con forza e permetterci di
riprendere la scena, ma deve, già mentre avviene, proiettarci verso
nuove traiettorie di lotta, aprire nuovi processi ancora più
avanzati dal punto di vista dei discorsi, delle pratiche e
dell’organizzazione.
L’evento senza processo
costituente è pura estetica del conflitto, facile scorciatoia per
chi si rassegna alla sconfitta. Il processo non sostanziato negli
eventi e non organizzato è altrettanto sterile perché si consegna a
un pericoloso determinismo che vede i frammentati processi di
soggettivazione che innervano silenziosamente la società come
autosufficienti nel produrre trasformazione e rottura.
Capiamoci,
non è criticando in se, gli scontri e le fiamme che possiamo
garantirci quelle forme di legittimazione larga che posizionano alla
giusta altezza la barra che oscilla tra consenso e conflitto. Quello
che chiamiamo appunto “tensione maggioritaria del conflitto” può
materializzarsi soltanto grazie all’intreccio tra evento e
processo, soltanto attraverso l’invenzione di nuove formule capaci
di essere immediatamente decifrabili e comprensibili, anche nel
“riot”, da quella rabbia latente e da quelle soggettività
precarizzate e impoverite di cui tanto parliamo.
Una macchina
bruciata il 14 dicembre a Roma o una bruciata il 1 maggio a Milano
non si può in nessun modo rappresentare politicamente nello stesso
modo. Quel giorno c’eravamo tutti quindi sappiamo bene di cosa
stiamo parlando. Evitiamo però di guardarci troppo indietro. Oggi
abbiamo sensibilità diverse su come si possa ricominciare a fare
movimento.
Noi abbiamo più domande che soluzioni, ma sappiamo bene come ripartire.
Ripartiamo dallo “strike meeting” e dai Laboratori per lo sciopero sociale, dalla capacità di quei percorsi di mettere al centro uno sguardo sulla realtà all’altezza delle sfide che oggi il capitale ci lancia e di sperimentare nuove traiettorie di lotta allargate che mettono al centro il tema della precarietà e della messa a valore delle nostre vite. Ripartiamo immaginando che intorno al concetto e alle pratiche del cosiddetto “sindacalismo sociale” si possa fare un salto di qualità nella battaglia decisiva, appunto quella contro le nuove forme di sfruttamento del lavoro vivo. Ripartiamo dalla convinzione che ci sia la necessità di connettere tra territori diversi lotte come quelle per l’autodeterminazione, per il reddito, per il diritto alla città e per un nuovo welfare, ma che tutte questi claim debbano necessariamente posizionarsi in una prospettiva europea e transnazionale.
Ripartiamo infine da Milano. Lo spezzone “scioperiamo expo”, che abbiamo animato insieme a centinaia di persone e che ricordiamo era uno spezzone europeo, ha saputo muoversi bene dentro la confusione di una piazza complicata, ha saputo individuare un messaggio politico che lo contraddistingueva e, cosa per noi molto importante, ha saputo, anche quando ha deviato verso la Commissione Europea, mantenersi connesso con il resto delle persone che stavano alla testa del corteo, è risultato decifrabile dagli altri nei discorsi e nelle pratiche adottate. È anche a partire da quello spezzone che vorremmo ricominciare il nostro cammino rimettendoci in discussione, come sempre, nella ricerca delle traiettorie migliori per allargare i fronti del conflitto sociale contro l’austerity e la governance europea della crisi.
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