Il rischio sismico in Italia tra disinformazione, logica emergenziale e modello “grandi opere”

Intervista a Marco Scuderi, postdoc Marie Curie Fellow (dipartimento di Scienze della Terra - La Sapienza, Roma)

10 / 10 / 2016

A distanza di circa un mese e mezzo dall'evento sismico che ha devastato alcuni comuni del centro Italia, abbiamo intervistato Marco Scuderi, ricercatore di Scienze della Terra alla Sapienza di Roma. Abbiamo preferito approfondire i temi legati alla prevenzione sismica quando i riflettori su Amatrice, Accumoli ed Arquata si fossero spenti. Si evidenzia un quadro in cui le responsabilità politiche e gli interessi emergono in maniera lineare e si legano in maniera inscindibile con una gestione del rischio basata sull'emergenza e con un modello che sempre più investe sulle grandi opere e sempre meno su ricerca, formazione e manutenzione del territorio.

1 In seguito ad ogni evento sismico di grande portata si assiste, nel nostro Paese, al solito teatrino della “divulgazione scientifica di massa”. Sismologi, geologi ed altre figure professionali di varia caratura vengono interpellate dai media, diventano ospiti nei programmi di intrattenimento, scrivono editoriali sui principali quotidiani o riviste. In realtà la comunità scientifica fa un lavoro quotidiano di monitoraggio e studio del sottosuolo e delle sue faglie in movimento. Un lavoro che spesso non trova riscontri nelle decisioni politiche riguardanti la messa in sicurezza del territorio. Qual è il tuo parere in merito?

Partiamo dal fatto che è assolutamente vero che la comunità scientifica fa un lavoro costante di monitoraggio del sottosuolo. Soprattutto per quanto riguarda l’Italia sappiamo benissimo, da decenni, che siamo il Paese con il più alto rischio sismico d’Europa. Questo non è una sorpresa, come non lo è il fatto che nel 2008 l’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) abbia rilasciato la “Mappa del rischio sismico”[1], dove appare evidente come ogni area del territorio nazionale abbia un discreto rischio sismico, in particolare sulla dorsale appenninica. Questo aspetto era conosciuto ben prima dello sciame sismico che tra il 1997 ed il 1998 ha attraversato l’Umbria e le Marche, ed a maggior ragione si conosceva molto bene prima del terremoto degli ultimi due tragici eventi sismici che abbiamo visto nel 2009 ed il 24 agosto scorso.

La divulgazione del lavoro che la comunità scientifica svolge molto spesso non è di pubblico dominio, e si ferma a canali specializzati. Quello che personalmente mi rattrista, ma che trovo allo stesso tempo incomprensibile, è proprio la strozzatura tra quello che cerchiamo di divulgare e quello che realmente è messo in atto dalla classe politica. Le decisioni politiche spesso vengono prese tramite il supporto di “pseudo-scienziati”, o più precisamente di ex scienziati che da tempo hanno abbandonato il mondo della ricerca e si sono pienamente trasformati in funzionari o in politici veri e propri. Le ragioni della problematicità del rapporto tra istituti di ricerca e mondo politico italiano risiede proprio in queste figure, che hanno ruoli chiave nel collegamento tra politica e ricerca ma che sono totalmente estranee rispetto al lavoro dei ricercatori di base, che nel nostro Paese svolgono un’opera di alto livello spesso con scarsi mezzi. L’assoggettamento che queste figure hanno rispetto al mondo politico rappresenta un problema contro il quale siamo costretti ogni giorno a combattere e che tende ad essere sottaciuto soprattutto nei momenti di maggiore attenzione mediatica, come quello che si è aperto in seguito al terremoto in centro Italia.

2 La vulgata scientifica ha sempre detto che non esiste un rapporto diretto tra terremoti ed utilizzo del suolo e del sottosuolo a scopi speculativi. Da diversi anni esistono però alcuni studi sul rapporto tra estrazione di gas e petrolio ed attività tellurica, che provocherebbe fenomeni di fratturazione idraulica (più comunemente fracking). In Italia, ad esempio, è ancora aperta la questione rispetto al terremoto in Emilia avvenuto nel 2012, le cui responsabilità sono state attribuite da alcuni esperti ad alcune attività estrattive, ed in particolare alla presenza a Rivera, frazione di San Felice sul Panaro, di un sito di stoccaggio di gas metano di proprietà della Erg. Al di là di alcune bufale che sono circolate sulla vicenda, ci puoi chiarire l’incidenza dell’estrazione di idrocarburi nell’attività sismica della Terra?

Premesso che la domanda specifica si riferisce ai terremoti indotti, che sono cosa ben diversa da quelli tettonici, la risposta è affermativa. Solamente in Italia la relazione diretta tra l’utilizzo del sottosuolo e l’attività tellurica indotta è ancora un argomento poco sdoganato e discusso. Nel mondo ci sono stati casi eclatanti, in particolare in Canada ed in alcuni stati degli USA, come Oklahoma, Arkansas e Texas, ma anche in Europa ci sono siti, ad esempio in Svizzera ed in Olanda, che sono da molto tempo sotto osservazione. L’hydrofracking, a cui è connesso  anche il fenomeno del wastewater disposal, ossia il versamento di acqua sporca proveniente dalla fratturazione idraulica all’interno del sottosuolo, è ampiamente praticato dalle compagnie di idrocarburi, su scala mondiale. Questa pratica, unita ad esempio al carbon capture and storage, ossia lo stoccaggio di anidride carbonica prodotta dai grandi impianti di combustione, ha un notevole impatto sul sottosuolo.

Studi recenti hanno dimostrato che i terremoti indotti possono raggiungere anche grandi intensità, come accaduto in Oklahoma alcune settimane fa con una scossa pari a 5,7 di magnitudo, e possono essere altamente distruttivi. In particolare negli Stati Uniti c’è una sensibilità molto alta a questo problema e addirittura le compagnie petrolifere stanno iniziando a collaborare con ricercatori e governo per tentare di stabilire una diminuzione del rischio. Anche in Italia si riscontrano diversi casi di sismicità indotta da fracking e senza dubbio quello di San Felice sul Panaro è il più noto. Meno noto ma forse più problematico è il caso della Val d’Agri, in Basilicata, dove nel sito in concessione all’Eni si iniettano svariati milioni di metri cubi di acqua, alla distanza di circa 7 km da una faglia che è tra le più turbolente dell’area Mediterranea. Basti pensare che in questa zona nel 1857 una scossa di magnitudo 7 provocò 11.000 morti e distrusse decine di comuni. Il problema è che l’Eni sta agendo in maniera indisturbata, senza alcun tipo di prescrizione.

Per riguarda noi, il nostro compito è quello di portare più prove possibili per dimostrare la consequenzialità tra iniezione di fluidi nel sottosuolo e sismicità indotta. Ci sono svariati lavori nella letteratura scientifica che affrontano questo argomento, tra cui una recente pubblicazione rilasciata dall’USGS (il servizio geologico nazionale statunitense) che dimostra come negli ultimi 15 anni negli USA il tasso di sismicità sia aumentato esponenzialmente nelle zone vicine ai siti di estrazione e stoccaggio, anche in zone che non erano in precedenza sismicamente attive, come il Texas. In Italia su questo tema posso affermare con certezza che non c’è alcuna collaborazione da parte del governo e delle compagnie. Poco tempo fa un’equipe di ricercatori di cui faccio parte ha chiesto ufficialmente all’Eni di rendere accessibili alcuni dati sulle estrazioni in Val d’Agri, ottenendo un categorico rifiuto.

In generale quello che spaventa la comunità scientifica è il fatto che ancora non si sappia che intensità possano raggiungere i terremoti indotti e se addirittura possano raggiungere le magnitudo dei terremoti tettonici.

3 Molto spesso il lavoro di “prevenzione del rischio” da parte dei sismologi si basa sullo studio di dati statistici e su una metodologia scientifica tutto sommato ancora “giovane”. Il problema è che molti studi rimangono all’interno del settore o vengono filtrati dalla governance “tecno-politica” prima di avere una divulgazione di massa. Quali potrebbero essere le forme comunicative più efficaci per mettere realmente gli studi scientifici a servizio della collettività?

Questa è una domanda molto difficile, perché la prevenzione del rischio sismico si può fare solo attraverso l’educazione allo stesso. Prevenire i terremoti è impossibile; lo è oggi come lo sarà probabilmente tra mille anni. Quello che si può fare in tal senso è sviluppare metodi efficaci di early warning. Mi spiego meglio: studi recenti hanno però dimostrato che è possibile intercettare alcuni segnali dal sottosuolo alcuni minuti prima di una violenta scossa di terremoto. Investire su questo metodo potrebbe contribuire a salvare svariate vite umane, perché la gestione dell’emergenza viene intersecata da quell’approccio preventivo sul quale punta la comunità scientifica.

L’educazione al terremoto è però qualcosa di più profondo, anche se all’apparenza sembra banale. Ad esempio, chi vive sull’Appennino deve sapere, prima di ogni altra cosa, che la terra sotto di lui può tremare da un momento all’altro. Di conseguenza bisogna mettere nelle condizioni le persone di essere preparate a questi eventi, innanzitutto eliminando dalla cultura di massa l’idea che un terremoto sia una fatalità.

L’educazione al terremoto è senza dubbio uno degli aspetti che più mettono in gioco geologi e sismologi perché è proprio grazie agli istituti formativi che si deve colmare il Gap tra conoscenza scientifica e sapere di massa. Ovviamente l’educazione è solamente uno degli aspetti legati alla prevenzione, perché l’altro riguarda la possibilità per chiunque di poter costruire o ristrutturare la propria abitazione con criteri antisismici. Purtroppo anche su questo nel nostro Paese abbiamo un notevole deficit culturale, sia per quanto riguarda l’edilizia privata che quella pubblica.

Tornando sul tema della domanda: dal punto di vista dei ricercatori il nostro compito è quello di divulgare e semplificare al massimo i risultati dei nostri studi. E’ vero anche che ci deve essere data l’occasione per poterlo fare. In tutto il circo mediatico scatenatosi dopo il 24 agosto, ma anche in programmi televisivi che in teoria dovrebbero fare approfondimento, non ho visto nessun ricercatore di base andare a spiegare quanto era accaduto e quanto potrebbe riaccadere in ogni momento in Italia. Ho visto solamente dirigenti di ricerca andare in televisioni o rilasciare interviste alle grandi testate giornalistiche, senza minimamente toccare i problemi reali legati alla questione sismica ed a tutto ciò che ad essa è legata.

C‘è inoltre da dire che, con i tagli sia alla scuola che alla ricerca che ci sono stati negli ultimi decenni, vengono ridimensionati i due blocchi che dovrebbero garantire la massificazione di questa educazione al terremoto. (24:04)

4 L’Italia è uno tra i paesi con il più alto rischio idrogeologico e sismico in Europa, per la posizione in cui si trova, per la giovane età geologica e per la particolare conformazione topografica. Come già dicevi, gli studi geologici e ingegneristici dovrebbero far si che l’essere umano riesca a “convivere serenamente” con l’ambiente che lo circonda, trovando soluzioni tecniche capaci di far fronte a calamità naturali e fenomeni particolari (terremoti, frane, alluvioni ecc…). Le istituzioni italiane sono sempre state le grandi assenti su questo piano, da sempre infatti si preferisce investire risorse economiche per le “grandi emergenze” o per le “grandi opere”. Esiste un dibattito anche nel mondo scientifico su questo tema?

Mi sembra abbastanza lampante il fatto che sia più importante poter dormire più tranquilli dentro le proprie case, nelle scuole, in ospedali e strutture pubbliche piuttosto che pensare a treni ad alta velocità. Qui si tratta di una semplice questione di buon senso, più che di conoscenze tecnico-scientifiche. Il problema vero è andare alla radice dei finanziamenti pubblici che fanno parte del modello “grandi opere”, cercando di tracciare un solco tra i settori in cui si è investito e quelli in cui di è disinvestito. Se negli ultimi anni sono stati finanziati grandi cantieri per opere pubbliche e private, abbiamo visto come il mondo della scuola e dell’Università abbia ricevuto sempre meno risorse. Nel mio settore ad esempio, se 15 anni fa esistevano 26 facoltà di Geologia oggi ne sono rimaste appena 8. La riforma Moratti, e soprattutto la riforma Gelmini, hanno drasticamente ridotto la possibilità di formare quelle che dovrebbero essere le figure chiave della ricerca sulla prevenzione al rischio sismico e idrogeologico. La cosa assurda è che questo avviene in un Paese con un rischio elevatissimo, dove avviene in media una frana importante al giorno.

Per anni i nostri governi hanno disinvestito, direttamente o indirettamente, nella prevenzione del rischio. In questo contesto è difficile immaginarsi al momento un’azione che contrasti i fenomeni idrogeologici impattanti al di fuori di una “logica di emergenza”. Nel giorni scorsi si è parlato nuovamente del ponte sullo stretto di Messina; il Ministro Del Rio ha addirittura dichiarato che i soldi ci sono e che il governo li stanzierebbe subito. L’opera verrebbe tra l’altro costruita su una faglia attiva, che poco più di un secolo fa provocò il terremoto più disastroso mai avvenuto in Europa. La Calabria e la Sicilia si muovono con un rake abbastanza elevato e ad una velocità di qualche millimetro l’anno. Mi spiace dirlo, ma una scossa violenta in quell’area non è un’opzione così remota.

Costruire un’infrastruttura inutile, costosissima, che sarà costantemente a rischio crollo, ci fa capire quanto la nostra classe politica vada nella direzione opposta rispetto ad una logica di investimento che implementi finanziamenti “diffusi” su tutto il territorio a rischio, mettendo in sicurezza strutture pubbliche, edifici privati ma anche fiumi, versanti, montagne ed altro. Con i soldi che si butterebbero per il ponte sullo stretto riusciremmo a mettere in sicurezza metà dell’Appennino.

E’ evidente che si vuole preservare una cultura del rischio basata sull’emergenza, perché grazie agli “stati d’emergenza” buona parte della classe dirigente e imprenditoriale ci guadagna, compresi politici ed i livelli più alti della Protezione Civile. Nel mondo della scienza c’è tanta frustrazione su questi temi e soprattutto, anche tra i ricercatori più giovani, inizia ad emergere un senso di impotenza di fronte a queste scelte ed a questi modelli. Certo, se il cittadino fosse realmente informato che sullo stretto di Messina c’è una faglia, che questa si muove abbastanza rapidamente, che non sono improbabili terremoti in quell’area e che i costi altissimi ed inutili di quest’opera potrebbero servire a mettere in sicurezza buona parte del Paese, forse qualcosa potrebbe cambiare davvero.

Bisogna davvero combattere contro la disinformazione, o meglio contro quell’informazione governata dalle classi dirigenti che fa ad esempio credere alla maggioranza delle persone che è costosissimo e sconveniente ristrutturare i borghi ed i centri storici delle nostre città secondo criteri anti-sismici. Allo stato dell’arte esistono tecnologie in grado di intervenire su edifici storici, che rappresentano una buona percentuale del patrimonio edilizio italiano, in maniera non invasiva e senz’altro non più costosa di una ristrutturazione fatta con tecniche abituali. Io credo che con una maggior consapevolezza di massa su queste tematiche e su questi problemi, il modello basato su gestione emergenziale e grandi opere possa  essere messo in difficoltà.

5 Come hai detto prima, negli anni passati terremoti ed altre catastrofi sono stati la fonte di innumerevoli profitti per le imprese edilizie, talvolta le stesse che avevano costruito edifici con materiali scadenti, che sono stati tra i primi a crollare. La comunità scientifica può contribuire a sensibilizzare le persone anche su questi aspetti?

In Italia esiste un grande problema di manipolazione e controllo dell’informazione. Se è vero che esistono molte contro-inchieste che hanno spesso smascherato questo tipo di operazione, alle quali molti di noi hanno contribuito, è vero anche che difficilmente queste raggiungono una diffusione di massa.

La settimana dopo il terremoto di Amatrice ho partecipato ad un piccolo workshop tenuto da alcuni ricercatori che erano sopraggiunti nei luoghi colpiti dal sisma nelle ore immediatamente successive all’evento. Ho avuto modo di vedere alcuni scatti fatti ad edifici crollati, che non hanno ancora avuto una diffusione mediatica. Vi assicuro che è stato sconvolgente vedere come la maggior parte delle strutture, specie quelle risalenti agli ultimi 50 anni, fossero state costruite con materiali più che scadenti. Mi ha colpito molto l’immagine di un palazzo costruito nei primi anni ’90, le cui fondamenta erano completamente prive di tondini. Si tratta dunque di strutture che già in precedenza si reggevano in piedi a fatica ed è bastata una piccola scossa di terremoto per devastarle; perché una scossa di magnitudo 6 o poco più rimane un evento sismico non di grande entità, se comparato ad una scala mondiale.

Le cose che ho appena elencato hanno si avuto uno spazio sui mass-media, ma sono rimaste ancorate alla dimensione dello scoop scandalistico, della notizia sensazionalistica, senza aver prodotto realmente un dibattito su come si costruisce, con cosa e soprattutto dove. Le leggi che regolamentano la costruzione di edifici in queste aree sono ancora molto vaghe e non prevedono alcuna obbligatorietà procedurale. Di conseguenza esiste un’ampia gamma di possibilità per imprenditori ed amministratori locali di aggirare lo “scoglio” anti-sismico rispettando comunque la legge. Spesso i media non parlano di queste cose, perché la ricerca di base viene sistematicamente esclusa dalla platea di ospiti che affollano talk show e programmi televisivi, dove si dà invece ampio spazio a “pseudo-scienziati” che talvolta millantano argomentazioni al di fuori di qualsiasi rigore scientifico. Questo, oltre a disinformare, scredita il lavoro di tante equipe di ricercatori, delegittima il ruolo stesso della scienza nella società perché la fa divenire spettacolo e folklore.

Tornando al rischio sismico, ormai in Italia la classe politica non ha alibi, perché viene costantemente informata da un rapporto annuale dell’INGV, perché da tempo sappiamo che esiste un Gap sismico piuttosto preciso che separa tra loro eventi distruttivi, perché gli studi sono diventati negli anni sempre più mirati. Anche gli imprenditori vengono messi a conoscenza di tutti i rischi, sismici ma anche idro-geologici, relativi all’area nella quale intendono edificare. Il problema è che molto spesso sono i cittadini ad essere tenuti all’oscuro di questi rapporti, se non attraverso informazioni molto sommarie. In tutto questo rimane la rabbia per il fatto che un terremoto relativamente piccolo faccia, nel 2016 in un Paese Occidentale, 300 morti. Abbiamo i saperi e le tecnologie per evitare questo enorme prezzo in termini di vite umane, e mi sembra assurdo e criminale che non vengano utilizzate.


[1] La mappa definisce in maniera diversa la sismicità di ciascuna zona d'Italia: Zona 1: sismicità alta, PGA (Peak ground acceleration - misura della massima accelerazione del suolo indotta del terremoto e registrata dagli accelerometri) oltre 0,25 g.; zona 2: sismicità media, PGA fra 0,15 e 0,25 g.; zona 3: sismicità bassa, PGA fra 0,05 e 0,15 g.; zona 4: sismicità molto bassa, PGA inferiore a 0,05 g.