Il Sud verso la manifestazione dei precari della scuola a Napoli

Contributo da Palermo

28 / 10 / 2010

“Uniti contro la crisi per riprenderci il futuro” – così si conclude il documento finale dell’assemblea che, domenica 17 ottobre, ha dato il via ad un percorso unitario di opposizione sociale dentro la crisi e contro a crisi: un appello che facciamo immediatamente nostro e che rilanciamo a partire dalla data del 30 ottobre, quando ,a Napoli, un corteo nazionale dei precari della scuola attraverserà le vie di una città tra le più grandi e disagiate del paese. Napoli appunto: città simbolo della condizione del Mezzogiorno; metropoli periferica nello scacchiere economico; Napoli emblema delle politiche di sfruttamento e gerarchizzazione; Napoli, anche e soprattutto, centro importante di resistenze e insubordinazione, luogo non-marginale di scontro e conflitto sociale.

La crisi globale, lo sappiamo, sta mettendo in ginocchio l’intero sistema economico mondiale; le politiche speculative, causa ma anche rimedio istituzionale alla recessione, stanno incidendo dovunque sulle vite delle fasce più deboli delle popolazioni: riduzioni di salari e potere d’acquisto, tagli a posti di lavoro e politiche sociali, privatizzazioni sfrenate di servizi e beni comuni. Tutto nel nome delle politiche d’austerità che i vari governi stanno approntando nel tentativo di dare respiro agli indici monetari internazionali.

 Politiche d’austerità, si diceva, ma anche svolta reazionaria: la crisi, si sa, nella storia è sempre stata occasione per il padronato di ridefinizione del rapporto capitale-lavoro, di riorganizzazione gerarchica della società di inasprimento repressivo. Ed eccoci, allora, ad assistere all’attacco congiunto governo-Confindustria ai diritti dei soggetti produttivi del paese: dalle industrie a tutti i settori pubblici del paese la compressione di diritti e salari, l’abbassamento dei costi del lavoro, è l’unica risposta possibile alla crisi, ovviamente nell’ottica del comando capitalista.

Basti pensare, da un lato, alla portata dell’offensiva governativa sul mondo della formazione pubblica italiana, dall’altro al caso-Pomigliano, emblema del modello di rapporti sociali schiavistici che il padronato vorrebbe imporre a lavoratori sotto ricatto. Dinamiche generali queste, ma forse non esaustive della fase che questo paese si trova a vivere al tempo della “leghizzazione d’Italia” (quindi di nuove e forti spinte regionalistiche), ed in particolare in una fase in cui la forbice tra le diverse macroaree economiche del paese si va allargando. Con ciò non intendiamo riproporre il classico quanto semplicista binomio nord-sud, bensì sottolineare come crisi e politiche di ripresa abbiano diverse declinazioni in relazione al tessuto economico, sociale e politico su cui vanno ad agire.

Analisti tanto inetti quanto fantasiosi hanno provato a farci credere che questa fase recessiva avrebbe avuto sul Mezzogiorno, a causa della sua arretratezza economica cronica, una incidenza minore che in altre aree del paese. Ciò con cui invece ci confrontiamo quotidianamente è la capacità del capitale di localizzare proprio al Sud un’ingente fetta dei costi scaricabili della crisi. I dati ci dicono come proprio al sud la disoccupazione sia in costante crescita, il potere d’acquisto si stia comprimendo, il livello di garanzie sociali e welfare sia in pesante ribasso. Oggi, una famiglia su cinque non riesce a sostentarsi né a coprire le sue spese fondamentali mentre il ricorso alla cassa integrazione si sta moltiplicando mese dopo mese.

Pare che mass-media ed esperti accademici si dimentichino di rendere pubblici numeri che la dicono lunga sulla situazione sociale del Sud; una statistica su tutte: il saldo negativo sulle emigrazioni dal Mezzogiorno, negli ultimi anni, è tornato ad avvicinarsi a percentuali di cinquant’anni fa, con decine di migliaia di persone (giovani soprattutto) che lasciano, ogni anno, la propria terra per studio o lavoro; solo dalla Sicilia emigrano ogni anno (dal 2001 in poi) circa 13.000 persone.

Se questi dati possono lasciare intendere anche ai più miopi il grado di disagio sociale vissuto su questi territori, l’impatto sul Sud delle politiche governative diviene più chiaro: i tagli a tutti i settori pubblici (scuola, università, sanità, enti locali) vanno ad incidere con un peso relativo molto maggiore in una terra il cui sviluppo economico ha seguito l’esclusiva linea direttrice dell’allargamento indiscriminato del settore terziario. Questo significa che i tagli a scuola e università, oltre ovviamente a precipitare le condizioni già precarie in cui versava tutto il sistema della formazione scolastica ed accademica, hanno anche una tragica incidenza sul livello occupazionale per quelle regioni (meridionali) da cui provengono il maggior numero di insegnanti precari e dove i pubblici impiegati sono percentualmente molto più numerosi che altrove.

Non è un caso che anche per quanto riguarda la geografia economica legata al riassetto produttivo della grande industria made in Italy, le fabbriche più penalizzate restano quelle del mezzogiorno. Che si parli di Fiat (Termini), o di Fincantieri (Palermo, Castellamare) i vari progetti industriali concordano tutti sulla necessità di chiudere gli stabilimenti del sud o di ridimensionarli sia sul piano dei posti di lavoro, sia su quello del rapporto produttività-costi attraverso la politica di smantellamento dei diritti e di subordinazione delle esistenze individuali degli operai ai tempi della produzione. Pomigliano docet…

C’è però una caratteristica del mezzogiorno che resta immutabile: il sud come zona di sfruttamento e sperimentazione politica e sociale; il sud come soggetto subalterno su cui verificare la tenuta del sistema e l’efficacia delle pratiche di gestione della crisi. Basti guardare ai recenti accadimenti di Terzigno ed in generale all’emergenze rifiuti campana; basti guardare all’investimento economico e mediatico sulla “questione” della grandi opere come panacea a tutti i mali del sud; basti, per ultimo, guardare alla sistematicità con cui il nostro territorio è stato sfruttato e rapinato: discarica per le grandi industrie del nord (e se non bastano le discariche si pensi anche alle “navi dei veleni”) e luogo di eccezionale sfruttamento di risorse e beni comuni.

Alla base di tutto ciò è sempre la retorica sviluppista del progresso: il sud come luogo arretrato; il sud in ritardo; il sud e la mancata industrializzazione; il sud ingabbiato dalla dicotomia stato-criminalità. Catene del pensiero e del dibattito queste, catene la cui unica funzione è sempre quella di narrare la necessaria subalternità del meridione; meridione che si deve autorappresentare come marginale e periferico, che deve accettare la sua condizione sottosviluppata e riprodurla all’infinito in ogni schema sociale. Criticare questo discorso vuol dire combattere l’impostazione di chi – sia nell’ottica (sempre più spesso razzista) del necessario governo del Nord, sia in quella del bene della nazione – costruisce la legittimità al saccheggio e alla subordinazione.

Combattere tale impostazione significa darci gli strumenti di analisi della composizione reale della nostra terra, del suo lavoro vivo, delle sue forme di insorgenza e resistenza; forme che troppo spesso divengono intellegibili solo sovvertendo i classici schemi dicotomici nord-sud, legalità-criminalità, progresso-arretratezza, lavoro-non lavoro.

Senza questa tensione analitica saremmo impossibilitati a compiere ogni tentativo ricompositivo di tutte quelle lotte che nei nostri territori si danno: non solo, quindi, operai e lavoratori salariati in genere, ma anche e soprattutto quella marea di precari e soggettività estranee al sistema di welfare basato sul lavoro a tempo indeterminato rappresentata, per esempio, da disoccupati e studenti. Figure queste le cui rivendicazioni ma, soprattutto, le cui pratiche di lotta esprimono con forza la necessaria costruzione di un nuovo modello di welfare e garanzie, un nuovo sistema di diritti imperniato sul reddito garantito a tutti e a ciascuno e che possa così andare ben oltre ogni visione industrialista del lavoro e della produzione. Uno sforzo intellettuale ma soprattutto politico che non vuole essere né una critica semplicemente antimodernista né la difesa della tradizione, bensì il presupposto unico per permettere al Sud di tornare ad essere “soggetto pensante” (e non pensato) e attore principale (e non marginale) della costruzione di un piano rivendicativo che metta al centro le specificità della propria meridionalità. Risiedono in questo ribaltamento le uniche possibilità di riscatto della nostra terra.

Per questo proponiamo la costruzione di una due giorni che, tra la manifestazione del 30 ottobre e un momento assembleare il giorno successivo, ponga le basi per il rilancio di questi “discorsi” e di conseguenza del potenziale conflittuale della risposta meridionale alla crisi. Risposta meridionale ovviamente non scissa dalla capacità generale di creare un fronte di reale e conflittuale opposizione sociale di tutto il paese; in questo senso, la prospettiva dello sciopero generale, a più riprese evocato come momento necessario di precipitazione delle questioni sociali in movimento, appare, più che auspicabile, necessaria. Molte indicazioni ed una decisa accelerazione dei processi che, ormai quasi certamente, porteranno a questo sciopero ci vengono dalla giornata del 16, che con la forza dei suoi numeri e contenuti ha determinato uno spostamento immediato negli equilibri sindacali, impegnando, seppur genericamente, l'intera CGIL in tal senso. Continuare a lavorare alla e per la costruzione della giornata dello sciopero generale, come luogo in cui far confluire tutte le energie e le potenzialità conflittuali, appare una responsabilità di tutte le soggettività e le realtà in movimento.

Per un Sud che si opponga alla crisi, una nuova narrazione sul presente della nostra terra diventa la base per costruire un futuro diverso!

  • Collettivo Universitario Autonomo
  • Studentato Occupato Anomalia
  • Studenti Medi Palermo