In difesa degli spazi sociali. A Bologna il 9 settembre, ovunque e sempre

8 / 9 / 2017

Gli sgomberi d’agosto sono un “classico” nella lunga storia delle occupazioni cittadine. Le città si svuotano, nonostante i ritmi di vita contemporanei abbiano assunto un carattere sempre meno stagionale, il clima vacanziero mette le tensioni sociali in uno stato di apparente latenza, le forze dell’ordine agiscono in maniera più indisturbata. Ma quanto accaduto tra Milano, Bologna e Roma lo scorso mese, sia nella cifra numerica degli sgomberi sia nei nessi politici di causa/effetto, segna un evidente cambio di passo nella regolazione dei rapporti di potere all’interno dello spazio urbano. Lo sgombero di Lume, spazio universitario e luogo di aggregazione artistica all’interno dell’università meneghina, ha aperto le macabre danze alla fine di luglio, seguito ad agosto dallo sgombero di S.o.y Mendel; due centri sociali, Làbas e Laboratorio Crash, sgomberati a Bologna nella stessa giornata; 250 persone evacuate due giorni dopo da uno stabile situato nel quartiere romano di Cinecittà, occupato a scopo abitativo; infine la vicenda degli ottocento somali ed eritrei, quasi tutti con lo status di rifugiato politico, messi in strada per “liberare” il palazzo di via Curtatone, alcuni deportati in luoghi ancora ignoti, altri cacciati con idranti e manganellate da piazza Indipendenza, dove avevano messo in piedi un accampamento di fortuna.

Gli sgomberi delle case sono continuate in sordina per tutta l'estate, andando a colpire i soggetti più deboli, occupanti per necessità. Situazioni diverse, in cui si distingue il medesimo tratto di penna disegnato dal potere che, dietro la panacea del «ripristino della legalità», colpisce duramente ogni dinamica sociale non compatibilizzata o, comunque, non ricondotta all’interno del disciplinamento normativo della legge.

È stata una lunga estate, questa del 2017. Iniziata con le meravigliose giornate di Amburgo, seguite dalla vendetta delle oligarchie mondiali, ed in particolare della Merkel, nei confronti degli attivisti che hanno fatto naufragare in piazza il G20 e che vede quasi 60 persone ancora rinchiuse nelle carceri della città anseatica. Proseguita con la guerra ai salvataggi di migranti nel Mediterraneo, che ha visto il ministro degli Interni italiano Marco Minniti battersi in prima linea contro «l’estremismo umanitario» riuscendo di fatto a spostare il confine meridionale della Fortezza Europa fino alle coste libiche e consegnandone la gestione a manipoli di paramilitari. In questo contesto gli sgomberi rappresentano non solamente il segno di una mutata gestione del cosiddetto ordine pubblico, ma l’evidente sintomo della costruzione di un nuovo paradigma post-democratico, che proprio nelle città vede uno dei suoi principali punti d’applicazione. È qui che gli elementi di continuità tra i flussi sistemici del capitale globale e la governance territoriale si determinano e riproducono, negli intrecci tra gestione del potere e interessi di vecchi e nuovi rentier, nella trasformazione delle diseguaglianze sociali in emergenzialità da reprimere, nell’accesso compresso e differenziale ai diritti che spinge verso una competizione orizzontale tra individui, sempre più orientata su basi di appartenenza etnica. Ed è ancora nel contesto urbano che lo stesso Minniti ed il governo Gentiloni hanno istituito nuovi strumenti di repressione e marginalizzazione, attraverso il DASPO politico e la nuova sfera di poteri riconosciuta al primo cittadino con il decreto legge sulla sicurezza urbana. I rastrellamenti etnici avvenuti nei pressi della stazione centrale di Milano a partire dalla scorsa primavera sono un chiaro esempio di come la questione del "decoro" stimoli in maniera brutale una spinta dall'alto che si muove in senso inverso rispetto al diritto alla città. La rendita urbana, da sempre nemica di qualsiasi occupazione, si articola così in nuove forme, più violente ed aggressive, in cui la stessa confisca manu militari di beni utilizzati a scopi sociali e di autorganizzazione diventa elemento di valorizzazione economica e finanziaria.

È stata una lunga estate. La tremenda afa e le città semideserte non sono bastate a governo, sindaci, prefetture e questure per imporre senza lasciare tracce un modello di vita urbana desertificato. Abbiamo assistito a forme di opposizione e resistenza che hanno fatto emergere l’esistenza di un corpo sociale reattivo, indisponibile ad accettare passivamente la negazione violenta della proprie istanze e dei propri diritti, anche quando questi non coincidono ed anzi si contrappongono e delegittimano la legge dello Stato. Una resistenza molteplice, fatta di corpi che si sono contrapposti alla violenza poliziesca, di piazze solidali composte da migliaia di persone, come accaduto a Roma dopo i fatti di piazza Indipendenza, di assemblee partecipatissime e di una solidarietà agli spazi sgomberati che, soprattutto attraverso i social network, è diventata virale e ha travalicato di gran lunga l’argine dei movimenti e delle strutture politiche. Un’eccedenza che in primo luogo ha contribuito a rompere quella dicotomia tra “centri sociali buoni” e “ centri sociali cattivi” che i media mainstream e le stesse istituzioni fautrici degli sgomberi hanno provato a veicolare attraverso una lettura funzionale non solamente ai giochi divisivi che da sempre il potere prova ad agire sui movimenti, ma anche a quel ceto politico di "sinistra" che prova ad acquisire nuova linfa proprio cercando di ricondurre su un terreno di compatibilità le tante esperienze di autorganizzazione radicale diffuse nel nostro Paese. In secondo luogo la difesa degli spazi sociali occupati palesatasi in quest’ultimo mese mostra che, proprio attorno ad un’idea di conflitto basata sulla riconquista del comune, è possibile riannodare le fila di tante lotte.

Sarebbe un grave errore tentare di comprimere queste forme variegate di resistenza e contrattacco all’interno di particolarismi o di opzioni politiche che non ne colgano il più profondo fondamento “desiderante”, il bisogno insopprimibile di rottura e autonomia che le animano. Le città sono sempre di più il terreno prioritario della lotta dove è concretamente possibile sperimentare dinamiche di ribaltamento dei rapporti di forza che dominano i nostri territori e rilanciare i processi espansivi di movimentazione sociale, contro ogni tentazione politicista di fare della città un incubatore di improbabili geometrie di governo. In questo contesto i centri sociali giocano un ruolo fondamentale perché, grazie alla costante dialettica tra conflitto e costruzione di legami sociali, sono gli strumenti attraverso cui è possibile soggettivizzare pezzi di società e costruire processi in grado di sovvertire la città neoliberale e securitaria.

Il diffuso desiderio di risposta a quest’estate di ripristino, per mare e per terra, del primato della legge dello Stato sul diritto prodotto e praticato dal corpo sociale, è una grande risorsa, una ricchezza senza copyright, che travalica le specificità dei singoli percorsi e con la quale dobbiamo avere la capacità e la maturità di misurarci fugando ogni logica di “lottizzazione”, che oltre ad essere deleteria in sé sarebbe il frutto di una lettura errata e strumentale delle reali motivazioni in cui si radica il bisogno di esprimersi e di dare corpo collettivo alla propria voglia di reagire.

Ovunque tale tensione rivendicherà parola, piazze ed azione è necessario esserci, ovunque si esprimerà l’opposizione agli sgomberi e la solidarietà agli spazi sociali riappropriati e sottratti alla speculazione noi saremo partecipi. Per questo e con questo spirito il prossimo 9 settembre saremo a Bologna, alla manifestazione convocata da Làbas, dove quell’eccedenza che abbiamo visto attivarsi nelle scorse settimane può assumere una consistente sostanza in piazza. Così come saremo presenti ed attivi nei successivi passaggi di mobilitazione contro la campagna-sgomberi ed i nuovi dispositivi securitari messi a punto da Minniti-Orlando, passaggi che possono costituire una delle principali coordinate del prossimo autunno. Noi ci saremo, come saremo in tutte le battaglie in difesa degli spazi sociali e per un modello altro di territorio in cui cooperazione dal basso, giustizia ambientale e sociale, democrazia radicale soppiantino razzismo, securitarismo, interessi speculativi e devastazioni.

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