Riprendiamo una riflessione di Carla Panico, pubblicata su Euronomade.info, che inquadra molto bene quanto successo sabato 3 febbraio a Macerata all’interno di un paradigma di razzializzazione della società. Paradigma che, in Italia, eredita i peggiori stereotipi del colonialismo fascista e dalla costruzione forzata della bianchitudine.
Questa riflessione
inizia con una premessa, con la certezza che situare il proprio punto di
enunciazione sia una pratica di presa di parola che è parte integrante del
metodo: sono un’italiana all’estero, sono bianca e nella vita mi occupo – in
maniera precaria – di questioni razziali, migrazioni e Sud. Sabato ho provato a
spiegare a persone non italiane – e non europee, per lo più – quello che è
successo a Macerata. E non ci sono riuscita. Ho pensato di partire da questo
spiazzamento per provare a mettere su carta questa ricerca di parole che non
trovo, che non troviamo.
Lo scopo del testo non è proporre la lettura di questa sensazione di vuoto come
stato d’animo dovuto all’orrore e alla rabbia – che pure provo, come tutti noi
– di fronte a quanto è avvenuto. Il punto è cercare di discutere la strutturale
mancanza di parole che accompagna una collettiva incapacità di produrre – di
aver prodotto – un discorso politico radicale sulla razza nell’Italia
contemporanea: o, in altre parole, di discutere come e perché intorno a questo
discorso si sia prodotta una completa, inscalfibile e devastante egemonia
cultura delle destre razziste, con la quale non sappiamo come fare i conti.
Il mio punto di partenza è la convinzione che il discorso
sulle migrazioni non sia uno dei possibili aspetti del dibattito politico
odierno, né, allo stesso modo, uno dei possibili campi di battaglia: al
contrario, parto dalla convinzione che questo sia il tema su cui si è
determinata l’affermazione di un paradigma che investe e determina per intero
lo scenario politico e sociale italiano, e non solo uno specifico frammento
“razzializzato” della società. La Storia d’Italia, al contrario, è per
intero una storia di razzializzazione e produzione di confini di
esclusione/inclusione; è per intero una storia di migrazioni: l’attuale
diffusione del microfascismo, di conseguenza, risulta costruita per intero all’interno
di questo paradigma.
Questo, ovviamente, non significa affatto normalizzare gli accadimenti di
Macerata né dell’ultimo anno o – per chi di queste cose cose ha una memoria più
lunga delle testate giornalistiche istituzionale – degli ultimi anni. Al
contrario: l’obiettivo è uscire dalla dinamica dell’evento, dell’eccezione,
dell’emergenza in quanto strumenti funzionali, soprattutto in campagna
elettorale, solo come utile stampella di un paradigma di governo degli stessi,
a destra come a sinistra.
Perché, quindi, è così difficile costruire “parole degne” sul razzismo in Italia?
Perché il discorso sul razzismo in Italia si fonda su una
doppia invisibilizzazione: la rimozione dell’esperienza del colonialismo
italiano in Africa e la cancellazione della storia del razzismo antimeridionale
interno, ovvero la mai risolta Questione meridionale.
L’identità nazionale italiana si è – strutturalmente – fondata su due
specifiche forme di esperienza della razza e della razzializzazione; quello che
intendo dire è che ogni volta – ogni singola volta – che di razzismo italiano
si parla fuori dalla genealogia implicata da queste due varianti, si produce il
razzismo stesso come eccezione, come fatto esterno alla “nostra” norma –
rinforzando la norma stessa e, di fatto, producendo la nostra autoassoluzione:
il razzismo è pensabile solo come fatto accessorio nella storia italiana, e in
forme in cui possiamo rappresentarci come mai del tutto responsabili – i campi
di sterminio e la shoah come unica forma di razzismo da ricordare e condannare,
perché di fatto altro da noi.
Al contrario, dal mito degli italiani brava gente e dal contatto con
l’“altro coloniale” discende direttamente la produzione della bianchitudine del
maschio italiano – ché gli italiani, è bene ricordarlo, bianchi non lo sono
sempre stati: risultavano non bianchi, o di certo non caucasici, per esempio,
gli immigrati italiani nei documenti della polizia di confine degli Stati Uniti
all’inizio del ‘900.
La rimozione del passato coloniale nostrano produce, di fatto, la cancellazione
della memoria dell’incontro tra l’Italia e il non – bianco:
dall’invisibilizzazione completa degli italiani biologicamente figli di quella
esperienza – i black italians, che, malgrado noi, si “ostinano” ad
esistere – alla cancellazione dell’esperienza stessa della razza: ciò ha
prodotto una narrazione della questione razziale contemporanea in Italia come
fatto nuovo, inedito, a cui non eravamo preparati; qualcosa che viene
sperimentato per la prima volta esclusivamente a causa dei recenti fenomeni
migratori che, di conseguenza, si producono ancor più come “emergenza razziale”
(a destra) o “emergenza razzista” (a sinistra): in entrambi i casi, una
eccezione da gestire.
Su tale connessione tra rimosso coloniale italiano e razzismo contemporaneo,
esiste fortunatamente una recente letteratura molto più valida e approfondita
di ciò che sarebbe nelle mie capacità; non mi soffermo quindi oltre.
Il secondo punto di questa genealogia mi sembra vada,
invece, inchiestato con più attenzione. Perché la cancellazione della Questione
meridionale avrebbe a che fare in maniera così stretta con l’attuale “emergenza
razzista” in Italia?
Perché è all’interno della strutturale e costitutiva produzione della
subalternità del Meridione – su cui si fonda il progetto nazionale italiano –
che l’Italia ha esperito e prodotto un capitalismo strutturalmente
razzializzato. La razzializzazione si può definire come la divisione sociale
del lavoro sulla base della razza, modello che risulta evidente, ad esempio,
nelle società coloniali.
Eppure, già Ferrari-Bravo e Serafini hanno ampiamente mostrato come la stessa
trasformazione in senso capitalista dell’Italia si sia fondata – ancora una
volta, strutturalmente – sul rapporto tra sviluppo (del Nord) e sottosviluppo
(del Sud), o meglio, “sul governo di tale rapporto”.
In cosa si traduceva, materialmente, tale rapporto? Sulla produzione
strutturale del sottosviluppo del Sud, e quindi, di disoccupazione – o, meglio,
di un costante rapporto tra occupazione e disoccupazione, sempre entro una
determinata misura, stabilita altrove; sulla creazione di un “esercito di
riserva” che doveva, a seconda dei momenti, essere tenuto fermo nel suo luogo
di origine – per regolare il costo del lavoro – oppure, quando necessario e
soprattutto nella misura necessaria, spostato e messo al lavoro. Troppo spesso
ce ne dimentichiamo, ma ciò che andrebbe ricordato è questo: che il capitalismo
italiano è – fin dalla sua genesi – un capitalismo di governo delle migrazioni,
fondato sul governo delle migrazioni.
È all’interno di tale esperienza che si fonda una organizzazione del lavoro
strutturalmente razzializzata – ché quando si parla della percezione e
rappresentazione storica dei terroni, soprattutto di quelli emigrati al
Nord, nella narrativa nazionale italiana non si può – e non si deve – che
parlare di una questione razziale. Se abbiamo dimenticato questa connessione,
dall’altro lato, invece, c’è chi non l’ha fatto: è quasi banale seguire
l’evoluzione politica della Lega Nord per accorgersi di come il neofascismo
odierno, in Italia, si basi sulla riproduzione in una scala nazionalista –
e lepenista – di un discorso razzista che era stato esplicitamente
costruito contro “i migranti interni”, contro i meridionali.
La cancellazione della Questione meridionale corrisponde, di fatto, alla
cancellazione del tema della razza – e delle migrazioni – dal dibattito sopra
l’organizzazione e lo sfruttamento della forza lavoro, dal dibattito sopra il
capitalismo italiano.
Giungiamo qui alla nota dolente: quanti – anche tra i
“compagni” con cui ci sentiamo più affini – hanno a lungo creduto – e
continuano a credere? – che la questione razziale sia altra cosa dalla lotta
anticapitalista? Quanti l’hanno considerata solo attinente alla sfera della
cultura, quanti, in fondo, hanno ceduto al vecchio tic eurocentrico della divisione
tra struttura e sovrastruttura? Tanti, rispondiamo, troppi: e le conseguenze
sono tutt’altro che accessorie.
La conseguenza – con cui oggi ci troviamo drammaticamente a fare i conti – è la
separazione netta tra un discorso antirazzista culturalista – aggettivo
che facilmente scivola in moralista – e un discorso materialista “di classe”.
Quest’ultimo è facilmente diventato appannaggio delle destre, che hanno
lasciato il primo – evidentemente insufficiente, per non dire dannoso –
appannaggio delle sinistre, come semplice vezzo radical-chic; è antirazzista
“chi se lo può permettere”, diventa razzista “chi non ce la fa più”: questo il
sostanziale contenuto della dichiarazione di Salvini sui fatti di Macerata,
questo il discorso egemone davanti al quale ci siamo trovati disarmati.
C’è da chiedersi: quanto e da quanto siamo rimasti
subalterni a tale dicotomia? Quanto contribuiamo a rafforzarla quando proviamo
ad opporci ad essa rimanendo all’interno delle stesse categorie eurocentriche
di cui siamo vittime? Troppo, troppe volte: tutte quelle in cui abbiamo creduto
pensabile “la classe” fuori da – o anche solo accanto a – la razza – e il
genere.
Quando ci siamo lasciati convince che a votare Donald Trump fossero stati “i
poveri” – come se esistesse, soprattutto nel contesto statunitense, la
possibilità di utilizzare tale astrazione fuori dall’asse della razza, fuori
dalla blackness – invece che “i (maschi) bianchi”.
Quando ci siamo sentiti dire che a volere la Brexit era stata la “english
working class”: quella che già all’epoca di Thompson era una rappresentazione
parziale, perchè non teneva di conto della enorme presenza dei lavoratori neri
migrati in maniera massiccia dalla Giamaica fresca di decolonizzazione – gli
stessi che vivevano nei ghetti razziali delle periferie inglesi e usavano la
musica e le subculture giovanili come strumenti di lotta. Quella stessa working
class che oggi commuove nella figura dell’onesto cittadino impoverito
dalla crisi economica – “che ha sempre pagato le tasse” – e che fatichiamo così
tanto a riconoscere nei giovani migranti.
Quando abbiamo dimenticato che la gestione della crisi economica, in Europa, è
stata e continua ad essere, soprattutto la gestione della riproduzione di Sud,
ovvero di relazioni di potere finanziario, politico ed epistemologico che
definiscono spazi di esercizio di nuove forme di accumulazione, di nuove
colonie interne: nuovi luoghi di emigrazione di massa di una generazione – con
un’esperienza soggettiva della migrazione di certo differente, dovuta al
privilegio bianco e alla cittadinanza europea – che quella crisi l’ha pagata
esattamente al prezzo di dover lasciare il proprio Paese.
Quando abbiamo scordato di dire – in maniera critica e non celebrativa come una
parte della sinistra – che l’economia italiana contemporanea si regge
strutturalmente sulla presenza del lavoro migrante e che tale forza-lavoro
deve funzionalmente essere clandestina, per permettere l’abbassamento
del costo del lavoro in comparti produttivi che altrimenti collasserebbero: dal
lavoro di cura – femminile, soprattutto – all’agricoltura capitalista, i cui
distretti di produzione massiccia sono disseminati in quasi tutto il Meridione.
Quando non abbiamo ripetuto che, nonostante l’enorme quantità di persone
attirate in Italia per essere irregimentate in questo sistema produttivo, il
numero di arrivi, nel nostro Paese, rimane inferiore al numero di partenze:
che, a dispetto della egemone narrazione sull’invasione degli stranieri, siamo
molti di più noi che ce ne stiamo andando, quel “noi” giovane e sud
europeo che aveva sfidato l’arroganza coloniale della Troika e che, ancora, la
crisi non vuole pagarla.
L’Italia contemporanea è né più, né meno che questo: il
punto di scontro e di collasso delle geografie mobili del Capitalismo europeo
contemporaneo, l’intreccio contraddittorio di Nord e Sud.
È un Nord imperiale troppo spesso dimenticato, nelle geografie della
colonizzazione dell’Africa; è un Nord con un Sud interno a lungo reso
invisibile, ma ancora teatro di accumulazione selvaggia e spossessamento; è un
Sud nelle geografie coloniali dell’Europa della finanza, quello colpevole e in
debito a cui è stata fatta pagare la crisi; è un Nord, ancora, quando si fa
cancello d’ingresso della fortezza Europa, quando è sponda settentrionale di un
Mediterraneo insanguinato, quando ne è responsabile principale, grazie ad uno
Stato strutturalmente razzista che sottoscrive accordi sanguinari con Libia ed
Egitto, costruisce nuovi lager chiamati CIE, promulga leggi sull’immigrazione
come la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini.
E se tracciare confini che definiscono i Sud e i Nord è sempre, fondativamente,
un atto politico violentissimo, esso è anche, necessariamente, campo di
battaglia: “gli altri” questo lo hanno già capito, poiché l’alleanza
indissolubile tra neoliberismo e confini si è saldata già da tempo, e si sta
traducendo nella diffusione capillare del “fascismo sociale”.
Sta a noi entrare in questa arena, perché essere antifascisti, come abbiamo
sempre fatto, oggi non può che significare anche lottare per produrre nuovi Sud
emancipatori, nuove cartografie.