La classe non è bianca, riflessioni a margine di Macerata.

7 / 2 / 2018

Riprendiamo una riflessione di Carla Panico, pubblicata su Euronomade.info, che inquadra molto bene quanto successo sabato 3 febbraio a Macerata all’interno di un paradigma di razzializzazione della società. Paradigma che, in Italia, eredita i peggiori stereotipi del colonialismo fascista e dalla costruzione forzata della bianchitudine.

 Questa riflessione inizia con una premessa, con la certezza che situare il proprio punto di enunciazione sia una pratica di presa di parola che è parte integrante del metodo: sono un’italiana all’estero, sono bianca e nella vita mi occupo – in maniera precaria – di questioni razziali, migrazioni e Sud. Sabato ho provato a spiegare a persone non italiane – e non europee, per lo più – quello che è successo a Macerata. E non ci sono riuscita. Ho pensato di partire da questo spiazzamento per provare a mettere su carta questa ricerca di parole che non trovo, che non troviamo.
Lo scopo del testo non è proporre la lettura di questa sensazione di vuoto come stato d’animo dovuto all’orrore e alla rabbia – che pure provo, come tutti noi – di fronte a quanto è avvenuto. Il punto è cercare di discutere la strutturale mancanza di parole che accompagna una collettiva incapacità di produrre – di aver prodotto – un discorso politico radicale sulla razza nell’Italia contemporanea: o, in altre parole, di discutere come e perché intorno a questo discorso si sia prodotta una completa, inscalfibile e devastante egemonia cultura delle destre razziste, con la quale non sappiamo come fare i conti.

Il mio punto di partenza è la convinzione che il discorso sulle migrazioni non sia uno dei possibili aspetti del dibattito politico odierno, né, allo stesso modo, uno dei possibili campi di battaglia: al contrario, parto dalla convinzione che questo sia il tema su cui si è determinata l’affermazione di un paradigma che investe e determina per intero lo scenario politico e sociale italiano, e non solo uno specifico frammento “razzializzato” della società. La Storia d’Italia, al contrario, è per intero una storia di razzializzazione e produzione di confini di esclusione/inclusione; è per intero una storia di migrazioni: l’attuale diffusione del microfascismo, di conseguenza, risulta costruita per intero all’interno di questo paradigma.
Questo, ovviamente, non significa affatto normalizzare gli accadimenti di Macerata né dell’ultimo anno o – per chi di queste cose cose ha una memoria più lunga delle testate giornalistiche istituzionale – degli ultimi anni. Al contrario: l’obiettivo è uscire dalla dinamica dell’evento, dell’eccezione, dell’emergenza in quanto strumenti funzionali, soprattutto in campagna elettorale, solo come utile stampella di un paradigma di governo degli stessi, a destra come a sinistra.

Perché, quindi, è così difficile costruire “parole degne” sul razzismo in Italia?

Perché il discorso sul razzismo in Italia si fonda su una doppia invisibilizzazione: la rimozione dell’esperienza del colonialismo italiano in Africa e la cancellazione della storia del razzismo antimeridionale interno, ovvero la mai risolta Questione meridionale.
L’identità nazionale italiana si è – strutturalmente – fondata su due specifiche forme di esperienza della razza e della razzializzazione; quello che intendo dire è che ogni volta – ogni singola volta – che di razzismo italiano si parla fuori dalla genealogia implicata da queste due varianti, si produce il razzismo stesso come eccezione, come fatto esterno alla “nostra” norma – rinforzando la norma stessa e, di fatto, producendo la nostra autoassoluzione: il razzismo è pensabile solo come fatto accessorio nella storia italiana, e in forme in cui possiamo rappresentarci come mai del tutto responsabili – i campi di sterminio e la shoah come unica forma di razzismo da ricordare e condannare, perché di fatto altro da noi.
Al contrario, dal mito degli italiani brava gente e dal contatto con l’“altro coloniale” discende direttamente la produzione della bianchitudine del maschio italiano – ché gli italiani, è bene ricordarlo, bianchi non lo sono sempre stati: risultavano non bianchi, o di certo non caucasici, per esempio, gli immigrati italiani nei documenti della polizia di confine degli Stati Uniti all’inizio del ‘900.
La rimozione del passato coloniale nostrano produce, di fatto, la cancellazione della memoria dell’incontro tra l’Italia e il non – bianco: dall’invisibilizzazione completa degli italiani biologicamente figli di quella esperienza – i black italians, che, malgrado noi, si “ostinano” ad esistere – alla cancellazione dell’esperienza stessa della razza: ciò ha prodotto una narrazione della questione razziale contemporanea in Italia come fatto nuovo, inedito, a cui non eravamo preparati; qualcosa che viene sperimentato per la prima volta esclusivamente a causa dei recenti fenomeni migratori che, di conseguenza, si producono ancor più come “emergenza razziale” (a destra) o “emergenza razzista” (a sinistra): in entrambi i casi, una eccezione da gestire.
Su tale connessione tra rimosso coloniale italiano e razzismo contemporaneo, esiste fortunatamente una recente letteratura molto più valida e approfondita di ciò che sarebbe nelle mie capacità; non mi soffermo quindi oltre.

Il secondo punto di questa genealogia mi sembra vada, invece, inchiestato con più attenzione. Perché la cancellazione della Questione meridionale avrebbe a che fare in maniera così stretta con l’attuale “emergenza razzista” in Italia?
Perché è all’interno della strutturale e costitutiva produzione della subalternità del Meridione – su cui si fonda il progetto nazionale italiano – che l’Italia ha esperito e prodotto un capitalismo strutturalmente razzializzato. La razzializzazione si può definire come la divisione sociale del lavoro sulla base della razza, modello che risulta evidente, ad esempio, nelle società coloniali.
Eppure, già Ferrari-Bravo e Serafini hanno ampiamente mostrato come la stessa trasformazione in senso capitalista dell’Italia si sia fondata – ancora una volta, strutturalmente – sul rapporto tra sviluppo (del Nord) e sottosviluppo (del Sud), o meglio, “sul governo di tale rapporto”.
In cosa si traduceva, materialmente, tale rapporto? Sulla produzione strutturale del sottosviluppo del Sud, e quindi, di disoccupazione – o, meglio, di un costante rapporto tra occupazione e disoccupazione, sempre entro una determinata misura, stabilita altrove; sulla creazione di un “esercito di riserva” che doveva, a seconda dei momenti, essere tenuto fermo nel suo luogo di origine – per regolare il costo del lavoro – oppure, quando necessario e soprattutto nella misura necessaria, spostato e messo al lavoro. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, ma ciò che andrebbe ricordato è questo: che il capitalismo italiano è – fin dalla sua genesi – un capitalismo di governo delle migrazioni, fondato sul governo delle migrazioni.
È all’interno di tale esperienza che si fonda una organizzazione del lavoro strutturalmente razzializzata – ché quando si parla della percezione e rappresentazione storica dei terroni, soprattutto di quelli emigrati al Nord, nella narrativa nazionale italiana non si può – e non si deve – che parlare di una questione razziale. Se abbiamo dimenticato questa connessione, dall’altro lato, invece, c’è chi non l’ha fatto: è quasi banale seguire l’evoluzione politica della Lega Nord per accorgersi di come il neofascismo odierno, in Italia, si basi sulla riproduzione in una scala nazionalista – e lepenista – di un discorso razzista che era stato esplicitamente costruito contro “i migranti interni”, contro i meridionali.
La cancellazione della Questione meridionale corrisponde, di fatto, alla cancellazione del tema della razza – e delle migrazioni – dal dibattito sopra l’organizzazione e lo sfruttamento della forza lavoro, dal dibattito sopra il capitalismo italiano.

Giungiamo qui alla nota dolente: quanti – anche tra i “compagni” con cui ci sentiamo più affini – hanno a lungo creduto – e continuano a credere? – che la questione razziale sia altra cosa dalla lotta anticapitalista? Quanti l’hanno considerata solo attinente alla sfera della cultura, quanti, in fondo, hanno ceduto al vecchio tic eurocentrico della divisione tra struttura e sovrastruttura? Tanti, rispondiamo, troppi: e le conseguenze sono tutt’altro che accessorie.
La conseguenza – con cui oggi ci troviamo drammaticamente a fare i conti – è la separazione netta tra un discorso antirazzista culturalista – aggettivo che facilmente scivola in moralista – e un discorso materialista “di classe”. Quest’ultimo è facilmente diventato appannaggio delle destre, che hanno lasciato il primo – evidentemente insufficiente, per non dire dannoso – appannaggio delle sinistre, come semplice vezzo radical-chic; è antirazzista “chi se lo può permettere”, diventa razzista “chi non ce la fa più”: questo il sostanziale contenuto della dichiarazione di Salvini sui fatti di Macerata, questo il discorso egemone davanti al quale ci siamo trovati disarmati.

C’è da chiedersi: quanto e da quanto siamo rimasti subalterni a tale dicotomia? Quanto contribuiamo a rafforzarla quando proviamo ad opporci ad essa rimanendo all’interno delle stesse categorie eurocentriche di cui siamo vittime? Troppo, troppe volte: tutte quelle in cui abbiamo creduto pensabile “la classe” fuori da – o anche solo accanto a – la razza – e il genere.
Quando ci siamo lasciati convince che a votare Donald Trump fossero stati “i poveri” – come se esistesse, soprattutto nel contesto statunitense, la possibilità di utilizzare tale astrazione fuori dall’asse della razza, fuori dalla blackness – invece che “i (maschi) bianchi”.
Quando ci siamo sentiti dire che a volere la Brexit era stata la “english working class”: quella che già all’epoca di Thompson era una rappresentazione parziale, perchè non teneva di conto della enorme presenza dei lavoratori neri migrati in maniera massiccia dalla Giamaica fresca di decolonizzazione – gli stessi che vivevano nei ghetti razziali delle periferie inglesi e usavano la musica e le subculture giovanili come strumenti di lotta. Quella stessa working class che oggi commuove nella figura dell’onesto cittadino impoverito dalla crisi economica – “che ha sempre pagato le tasse” – e che fatichiamo così tanto a riconoscere nei giovani migranti.
Quando abbiamo dimenticato che la gestione della crisi economica, in Europa, è stata e continua ad essere, soprattutto la gestione della riproduzione di Sud, ovvero di relazioni di potere finanziario, politico ed epistemologico che definiscono spazi di esercizio di nuove forme di accumulazione, di nuove colonie interne: nuovi luoghi di emigrazione di massa di una generazione – con un’esperienza soggettiva della migrazione di certo differente, dovuta al privilegio bianco e alla cittadinanza europea – che quella crisi l’ha pagata esattamente al prezzo di dover lasciare il proprio Paese.
Quando abbiamo scordato di dire – in maniera critica e non celebrativa come una parte della sinistra – che l’economia italiana contemporanea si regge strutturalmente sulla presenza del lavoro migrante e che tale forza-lavoro deve funzionalmente essere clandestina, per permettere l’abbassamento del costo del lavoro in comparti produttivi che altrimenti collasserebbero: dal lavoro di cura – femminile, soprattutto – all’agricoltura capitalista, i cui distretti di produzione massiccia sono disseminati in quasi tutto il Meridione.
Quando non abbiamo ripetuto che, nonostante l’enorme quantità di persone attirate in Italia per essere irregimentate in questo sistema produttivo, il numero di arrivi, nel nostro Paese, rimane inferiore al numero di partenze: che, a dispetto della egemone narrazione sull’invasione degli stranieri, siamo molti di più noi che ce ne stiamo andando, quel “noi” giovane e sud europeo che aveva sfidato l’arroganza coloniale della Troika e che, ancora, la crisi non vuole pagarla.

L’Italia contemporanea è né più, né meno che questo: il punto di scontro e di collasso delle geografie mobili del Capitalismo europeo contemporaneo, l’intreccio contraddittorio di Nord e Sud.
È un Nord imperiale troppo spesso dimenticato, nelle geografie della colonizzazione dell’Africa; è un Nord con un Sud interno a lungo reso invisibile, ma ancora teatro di accumulazione selvaggia e spossessamento; è un Sud nelle geografie coloniali dell’Europa della finanza, quello colpevole e in debito a cui è stata fatta pagare la crisi; è un Nord, ancora, quando si fa cancello d’ingresso della fortezza Europa, quando è sponda settentrionale di un Mediterraneo insanguinato, quando ne è responsabile principale, grazie ad uno Stato strutturalmente razzista che sottoscrive accordi sanguinari con Libia ed Egitto, costruisce nuovi lager chiamati CIE, promulga leggi sull’immigrazione come la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini.
E se tracciare confini che definiscono i Sud e i Nord è sempre, fondativamente, un atto politico violentissimo, esso è anche, necessariamente, campo di battaglia: “gli altri” questo lo hanno già capito, poiché l’alleanza indissolubile tra neoliberismo e confini si è saldata già da tempo, e si sta traducendo nella diffusione capillare del “fascismo sociale”.
Sta a noi entrare in questa arena, perché essere antifascisti, come abbiamo sempre fatto, oggi non può che significare anche lottare per produrre nuovi Sud emancipatori, nuove cartografie.

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