La crisi dei giornali e l’inutile pensiero

9 / 1 / 2010

C’è un passaggio nel visionario romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, in cui si legge: “Questo l’andamento intellettuale degli ultimi secoli. Basta seguire l’evoluzione della stampa popolare: Clic! Pic! Occhio, bang!Là! Qua! Su! Giù! Guarda! Pim, pum, pam! Questo il tenore dei titoli. Sunti dei sunti. Selezione dei sunti della somma delle somme. Problemi sociali? Una colonna, due frasi, un titolo. Poi, a mezz’aria, tutto svanisce. Il cervello umano rotea così rapidamente sotto la spinta di editori, sfruttatori, radiospeculatori, che la forza centrifuga scaglia lontano e disperde tutto l’inutile pensiero, buono solo a farti perdere tempo”.

Quando ragioniamo sulle cifre che hanno contrassegnato il 2009 dell’editoria, annata quanto mai pessima per giornali e giornalisti non solo in Italia, dovremmo ricordarci di questo righe. Si è consentito che i giornali diventassero talmente vacui da risultare buoni solo per scacciare l’inutile pensiero. Cosicché, succede che i lettori, per non perdere tempo (“L’Italia è terra di fannulloni”, suona, tra l’altro, il monito di una delle campagne preferite di quotidiani e periodici, negli ultimi anni), abbiano addirittura smesso di comprarli in edicola. Per le futilità c’è già la parete televisiva e tanto basta. La carta stampata finisce, insomma, per morire della stessa medicina che spaccia in giro. Un paradosso quanto mai istruttivo.

La Federazione nazionale della stampa, il sindacato dei giornalisti, in queste ore fa il bilancio del periodo (2009) e dà i numeri delle “uscite” dalle case editrici (fino a 700 giornalisti) prospettando cifre future assai poco confortanti (forse anche 2000 i tagli possibili nelle redazioni su circa 11mila addetti nei prossimi due anni, vale a dire poco meno del 20% del totale). Prepensionamenti e incentivi all’esodo per 84 a Repubblica, 38 al Messaggero, 37 al Sole 24 ore, 47 al Corriere della sera, 35 in Rcs Periodici, 62 in Mondadori, tanto per citare qualche caso stando alle cifre stabilite dagli accordi. E come accade in certe occasioni speciali, c’è una prece perfino per i freelance. Dice adesso la Fnsi, che sono circa 40 mila e che la maggioranza guadagna cifre meschine. Qualche tempo fa si era arrivati a dichiararne 80 mila. Poi, prima della firma del nuovo contratto, i precari erano precipitati a cifre assai contenute, come il problema che rappresentavano… Più del peso complessivo delle “uscite”, colpisce l’esiguità delle “entrate” a sostituire una generazione che va a casa. La scrematura non prevede vero ricambio e, tra prepensionati di 56 anni e trentenni “lavoratori autonomi obbligati” senza possibilità di accesso, tra due porte chiuse sono restati i quaranta-cinquantenni. Mandare via i più anziani significa, in questo specifico caso, liberarsi della fascia con stipendi più alti e differente nozione della professione (un certo modo di “identificarsi”), insomma “costi fissi elevati”, “ineducabili” alle nuove regole dettate dagli editori.

Prima ancora di ricordare che tutti i processi di ristrutturazione - apertura di stati di crisi e di Cig, soprattutto ai fini del prepensionamento, anche per i periodici - avviati nel settore nel 2009 sono frutto di accordi condivisi con la controparte sindacale - si tratterebbe allora di ragionare sulle scelte fatte, negli anni, dagli editori. “Nelle case editrici non c’è uno straccio di idea”, sottolinea la Fnsi. E’ questo il dramma, perché è vero. E’ accaduto nel silenzio complessivo, man mano che la precarietà del settore aumentava, la competenza diventava superflua, sottomissione e servilismo ingrossavano. La libertà dei giornalisti, in questo Paese, è da tempo un gradevole argomento di conversazione. La crisi economica globale ha rappresentato dunque una copertura straordinaria a un’annosa assenza di progettualità e di contenuti. La crisi come forma di disciplinamento del lavoro cognitivo. Si abbatte su giornali da un pezzo consegnati a far da servitù alla pubblicità, su redazioni avvilite che hanno perso centralità ed energia. La crisi, un’occasione eccellente, tanto più che le danze per le riorganizzazioni si sono aperte a valle della firma di un nuovo contratto di lavoro (27 marzo 2009, siglato dopo cinque anni di vacanza) che si è dato soprattutto il compito di cambiare la percezione della professione, traghettandola verso la “modernità multimediale” che significa “multifunzione”. Nel lavoro cognitivo, man mano che la precarietà si istituzionalizza - e questo processo rinsalda i meccanismi di trasmissione del comando - la fabbrica cognitiva ha progressivamente introdotto un crescente grado di prescrittività, basato su forme sempre più sofisticate di taylorismo digitale e di richiesta di un minor livello di formazione del personale, che risulta, così, più controllabile. Quel "valore aggiunto" delle idee e della conoscenza che rappresenta la cifra costituente del capitalismo cognitivo non necessariamente si spreme introducendo meccanismi di cooperazione e partecipazione ai processi decisionali - che, viceversa, in tutte le redazioni si sono fortemente accentrati - ma agitandoti davanti agli occhi il fantasma della “fine del tuo lavoro” e rendendo - sotto la spinta di questo ricatto - sempre più frammentate e isolate mansioni cognitive già suddivise e parcellizzate. Il nuovo contratto consente, in potenza, tutto questo. Consente, in potenza, di confezionare un maggior numero di "prodotti" (sic) con un molto minor numero di giornalisti, introducendo forme di elevata flessibilità di compiti e funzioni. Più produttività, più conformismo, meno qualità, idee, reale coinvolgimento. Non sono queste ultime le principali preoccupazioni degli editori italiani. Tra aprile e maggio 2009 i principali gruppi editoriali hanno dichiarato perdite e annunciato "misure strutturali" per adeguare i costi alla situazione generatasi con la crisi: crollo dei profitti e dividendi da fame, ben lontani dai livelli a cui il processo di finanziarizzazione del settore aveva abituato gli azionisti.

In questo quadro drammatico, ciò che colpisce è la rassegnazione con cui si racconta la disfatta e si preannunciano le sconfitte future. Come se il processo fosse ineluttabile, tra lettori colpevoli di aver smesso di leggere, soprattutto i giovani, una sfortunata congiuntura - la crisi, ancora lei, globale, strutturale - governi che non mantengono le promesse, internet e un destino disgraziato che ci ha piantati, proprio a noi, là, nel mezzo delle onde. Il sindacato dei giornalisti riferisce che poteva andare peggio, vittima a sua volta di una scarsità di intendimenti e di proposte. Assiste alla crisi (trasformazione) del lavoro cognitivo, gestisce gli stati di crisi (economica), incapace, alla fine, tirando le somme, di infilarsi all’interno di questa mutazione per provare a dire qualcosa di nuovo o a lanciare almeno un mortaretto. L'attuale, innegabile, debolezza nei rapporti di forza si spiega con le modificazioni indotte nella fabbrica cognitiva alle quali non si è saputo guardare con la dovuta attenzione, prima che tutto cominciasse a precipitare. L'irrappresentabilità della categoria dei giornalisti - paradigma interessante, in questa fase del capitalismo cognitivo - sta esattamente nella pretesa di tenere tutto insieme, un magma di figure ormai del tutto prive d'omogeneità, con bisogni e obiettivi radicalmente opposti che non generano fruttuose alleanze ma solo il particolarismo dei più forti. Diventa allora anche crisi della rappresentanza, ridotta ad agente della governance politico-economica contemporanea. Manca il modo giusto di percepirsi, spirito critico e autocritico, capacità di descrivere efficacemente una professione mutata che non può usare, per leggersi e per dirsi, gli stessi occhiali e le stesse parole che ha adoperato fino a ieri. C'è necessità di comprendere il cambiamento e di denunciare, con franchezza, anche deformazioni e assenze per poi coagularsi intorno a nuove forme conflittuali che possono anche voler dire abbandonare una volta per tutte il feticcio dell'unità della categoria. La strada è intricata, il passaggio stretto, ma i giornalisti - e tutti i lavoratori della conoscenza - rappresentano una delle soggettività a cui guardare con interesse, nell'attuale economia della conoscenza e del linguaggio. Non si tratta di una soggettività in disarmo. Al contrario, essa ha le potenzialità per assumere un ruolo decisivo nelle lotte di domani, all'interno del complessivo processo di cognitivizzazione del lavoro.