La morula neoliberale

Dell'Europa all'ipotesi di commissariamento del comune di Napoli. Che fine ha fatto L'austerità.

22 / 1 / 2014

L’apertura di un ragionamento sull’austerity – e sulla possibilità di individuare nel nodo crescita/competitività un ulteriore e in parte differente asse della governance neoliberale – ci aveva profondamente interessato.

Un ragionamento che – a partire dalla nostra parzialità – deve essere necessariamente articolato a partire da una questione molto poco astratta o macroscopica: la bocciatura del piano di rientro finanziario del Comune di Napoli da parte della Corte dei Conti.

Uno scenario che allude ad ipotesi di commissariamento, con l’imposizione di una spending review ancora più stretta e la conseguente sfilza di tagli e privatizzazioni, cioè – concretamente – liquidazione dei servizi, delle politiche sociali, perdita di migliaia di posti di lavoro, svendita del patrimonio pubblico.

Automatismi della crisi, tanto più veloci quanto più manca – a fare da argine – quel tappo clientelare (e dunque in grado di esprimere potere contrattuale reale sulla sorte di alcuni territori) della partitocrazia rispetto alla quale comunque – nonostante i limiti innegabili e il sostanziale fallimento dell’esperimento arancione rispetto alle aspettative – il comune di Napoli rimane smarcato.

Poco importa, per il discorso che stiamo facendo, se questo scenario – il cui iter giuridico è evidentemente lungo e complesso – porterà alla blindatura tecnocratica dell’assessorato al bilancio o ad una giunta definitivamente remissiva e pienamente assorbita dal ruolo di ragioneria e curatela fallimentare cui sono condannati tutti i livelli di amministrazione statale: il punto è capire come ha funzionato la leva della crisi nella chiusura irreversibile degli spazi di democrazia, con una rappresentanza sostanzialmente liquidata molto più dagli organismi di governance transnazionali che non dalla forza costituente delle moltitudini, per quanto questo sia difficile da ammettere.

Anche il dibattito sulla legge elettorale, sulle soglie di sbarramento - per quanto poco interessante – ratifica questo: fine dello spazio di manovra per la dialettica politica, fine di ogni imprevedibilità data dall’alternanza di governo, individuazione delle larghe intese come dispositivo permanente di gestione dei territori nella crisi, come cinghia di trasmissione cronica delle direttive della troika.

Dopotutto , se è vera la disponibilità di nuovi capitali nella zona euro e la conseguente necessità di una loro valorizzazione, è altrettanto vero che il fiscal compact resta al suo posto e rappresenta il confine di fuoco per tutte le opzioni politico-amministrative con cui avremo a che fare per i prossimi anni.

Per non cedere all'inganno della macronarrazione, per non eludere le contraddizioni che si celano dietro l'ipotesi di un'inversione di rotta delle governance europee rispetto all'austerity, bisogna leggere con attenzione la tensione che si articola tra lo spazio europeo, quello nazionale e quello territoriale (con particolare riferimento alla città). La sensazione, supportata da alcuni dati di realtà, è che l'Europa del sacrificio, delle due velocità e dell'austerity abbia prodotto alcune modificazioni strutturali della modalità di investimento della spesa pubblica e più in generale della percezione delle urgenze sociali.. L'Europa dell'austerità in questi anni ha introdotto una pratica impersonale di governo delle risorse e di cinica mannaia sulle spese prima ritenute necessarie alla tenuta sociale dei territori. E' vero che se gli stessi signori della finanza hanno compreso ad un certo punto che quella pratica ottusa di creazione permanente di condizioni di disastri sociali, ambientali, economici non favoriva neppure più gli interessi perversi della finanza stessa, è altrettanto vero che oggi alcune tendenze procedono quasi autonomamente, senza essere sospinte da una volontà politica. E' il vero trionfo di una technologie di governo contro la quale, nei paesi che attraverso la pratica governamentale della grosse koalition, finiscono per scagliarsi goffamente gli stessi governi. E così, in Italia ma non solo, assistiamo a querelle interne ai Parlamenti che finiscono per ridiscutere costantemente provvedimenti appena approvati. Al di là dell'ilarità che producono dinamiche del genere è evidente che il tema è tutto politico ed attiene alla superficialità con cui governace finanziarie europee e governi nazionali hanno aderito alla retorica del taglio indiscriminato, senza tenere in conto le ripercussioni sociali che oggi rischiano in tutta Europa, e non solo attraverso spinte propositive espansive e costituenti, di far saltare gli equilibri.

L'austerità è diventata un problema anche per chi detiene pezzi di comando, perché atrofizza mortifica e deprime, quando lo stesso neoliberismo si sa, ha avuto bisogno di ben altre spinte (passione per il rischio, individualismo, spasmodica voglia di profitto a scapito di altri) , per diventare la forma egemonica del capitale globale. La ristrutturazione evidente che sta investendo le macro-aree europee e le scelte politiche degli Stati ( a nostro avviso il passaggio italiano dalla tecnocrazia alla grande coalizione si iscrive proprio in questo solco) presuppone però l'irreggimentazione dei territori, la chiusura degli spazi di autonomia della città, pena l'ingovernabilità di processi di nuova circolazione di ricchezza tra settori considerati non-produttivi.

Qui si gioca la più lampante delle contraddizioni. Proprio gli spazi urbani sono per definizione spazi che sfuggono al giogo della norma, spazi in cui tutto ciò che la cittadinanza sia economica che politica lascia fuori trova comunque forma di espressione e di soggettivazione , spazi pieni di frontiere interne ma anche di esprimenti mutualistici che ne sfidano le occlusioni. Sono gli spazi in cui il la distanza tra governanti e governati è effettivamente minore ed in cui le pressioni sociali dei gruppi subalterni e le stesse capacità di contrattazione degli stessi possono ottenere risultati immediati, possono sovvertire alcuni rapporti di forza. Questo quadro che caratterizza l'ingovernabilità delle città si aggrava, secondo la prospettiva delle governance, quando ci sono esperimenti di amministrazione comunale che tentano (almeno a parole) di sfidare i dogma del patto di stabilità. Non è solo il caso di Napoli (città in cui per altro la sfida non ha portato a nessuna ricaduta sociale particolarmente positiva a causa dell'incertezza e della pigrizia dell'amministrazione ) ma è il caso di tanti piccoli e medi comuni che hanno provato in questi anni a resistere alla mannaia dell'austerità.

La sentenza di ieri su Napoli che espone la città al rischio commissariamento, ci racconta proprio del cinico bisogno di trasformare le città stessa in un mero terreno di valorizzazione che prevede solo grandi esperimenti di speculazione e di precarizzazione (vedi Expo di Milano), iniezioni di ricchezza ad opera di grandi calderoni privati (tra cui si inseriscono anche i grandi capitali mafiosi, che godono sempre più dei binari della circolazione legale).

Se dunque l’austerity non è più la minaccia materiale e simbolica, questo è perché essa incarna pienamente lo scenario in cui siamo immersi.
Aprire un dibattito sulla fine dell’austerity vuol dire concepire l’austerity come processo e vedere quel processo come vicenda essenzialmente realizzata, su larga scala, con effetti sociali drammatici ed evidenti a tutti.
Tutto questo per dire che siamo sicuramente d’accordo nell’affermare che oggi nelle concettualizzazioni sull’austerity non può più essere rintracciata l’anticipazione di una tendenza su cui fondare l’agire politico.

Diciamolo chiaramente: oggi i più grandi nemici dell’austerità siedono in parlamento, conducono campagne elettorali, provano a riconquistare una platea largamente sfiduciata sconfessando quanto fatto fin’ora e ventilando ipotesi di innovazione e sviluppo, si traducano esse in forme di nazionalismo antieuropeista che invoca una sovranità forte contro le ingerenze internazionali in ipotetiche opzioni di democrazia telematica, di rete, orizzontale, contro la casta (che non è intesa come classe politica che agisce lo sfruttamento del lavoro e dei territori, ma come entità morale, la cui figura specifica è quella del corrotto, così che tutta la questione della crisi della rappresentanza viene derubricata a fatto di coscienza, a fatto individuale ed etico cui si può opporre il regno delle buone intenzioni e dell’onesto lavorar sodo).
Questo non vuol dire una brusca chiusura di una fase recente, fatta di sacrifici, tagli alla spesa pubblica, privatizzazione di vaste porzioni di risorse collettive materiali e immateriali, affatto!
La capacità di tenuta della grosse koalition che fonda il terzo esecutivo Merkel è assolutamente legata a forme di continuità con una fase di contrazione del welfare e alle politiche di rigore che hanno caratterizzato pressoché tutti i governi europei degli ultimi cinque anni: il patto di sangue tra Spd e Cdu funziona esattamente così, né è un caso che ai socialdemocratici sia andato il ministero dell’economia e ai conservatori quello delle finanze (che significativamente vive di un’assoluta continuità con l’impostazione precedente nella figura di Schauble).
Sostanzialmente il centrodestra dovrà cedere qualcosa sul piano della politica interna (ricordiamo che il modello tedesco si fonda drasticamente su forme di precarietà cronica che va a sfiorare una sorta di lavoro nero legalizzato, il famoso mini-job delle riforme Hartz) e in cambio – anzi proprio per questo – potrà e dovrà mantenere salda la linea della contrazione della spesa pubblica: è questo il cocktail di sfruttamento del lavoro e colonialismo aggressivo che sostiene l’export tedesco e che per lungo tempo saprà ancora definire lo spazio della politica in tutta la zona euro.

L'austerity dunque non è più un vettore di soggettivazione né uno scenario possibile e futuribile di “punizione degli indebitati”. Abbiamo provato a rintracciare in queste note quelle che riteniamo essere alcune tendenze, parziali e spesso contraddittorie, che caratterizzano lo scenario europeo attuale. Ci interessa comporre argomentazioni che ridisegnino criticamente il quadro del biopotere esercitato dal capitale europeo, al fine di elaborare, da movimenti una strategia di sovversione che possa sfidare la governance finanziaria, le lobbies finanziarie ed industriali ed il decisionismo della politica. Per farlo abbiamo utilizzato l'immagine della morula, un aggregato di cellule che si formano durante la segmentazione dello zigote. A questo stadio le cellule sono totipotenti, indifferenziate e in grado di originare tutti i tessuti embrionali e extra-embrionali. Il neoliberismo europeo negli ultimi anni è stato caratterizzato proprio da questa totipotenzialità, da questa inesauribile capacità di farsi tessuto.

Questo, certo, vuol dire enorme versatilità e disponibilità alla ristrutturazione. Ma vuol dire anche assenza di un piano coerente e a lungo termine, vuol dire margine di imprevedibilità. La sfida è trasformare quest'imprevedibilità in occasione, la sfida è - dentro la congiuntura - provare a sovradeterminare alcuni processi. Niente è scritto.